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Caterina De' Medici: Da Firenze alla Francia
Caterina De' Medici: Da Firenze alla Francia
Caterina De' Medici: Da Firenze alla Francia
E-book411 pagine5 ore

Caterina De' Medici: Da Firenze alla Francia

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Info su questo ebook

Caterina de’ Medici è una tra le figure femminili più note della storia. Figlia di Lorenzo de’ Medici duca d’Urbino, fu la prima italiana a sedere sul trono di Francia. Il libro ripercorre le tappe principali della sua esistenza, a partire da prima della sua nascita: dalle origini fiorentine all’infanzia trascorsa tra Firenze e Roma, fino alla lunga e definitiva fase francese. Trapiantata oltralpe giovanissima, Caterina si trovò immessa a forza in un contesto profondamente diverso da quello della sua città di origine, che fin da subito la percepì come un’estranea e come tale a lungo la considerò. Chiamata, per circostanze inattese, a regnare prima come consorte poi come reggente in nome dei figli minorenni, Caterina fronteggiò per decenni un tragico conflitto religioso sul suolo nazionale. Nell’assicurare alla Francia una duratura continuità di governo, la sua crescita personale e la sua politica di mediazioni e risoluzioni andarono di pari passo con l’emergere di quel personaggio oscuro e volitivo che spesso si sovrappose alla persona, e che finì per determinare, almeno storiograficamente, la fortuna di entrambi. 
LinguaItaliano
EditoreDiarkos
Data di uscita26 mar 2024
ISBN9788836164011
Caterina De' Medici: Da Firenze alla Francia

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    Anteprima del libro

    Caterina De' Medici - Tripodi Claudia

    CATERINADEMEDICI_FRONTE.jpg

    Claudia Tripodi

    CATERINA DE’ MEDICI

    Da Firenze alla Francia

    Prologo

    «Pipistrello, pipistrello, fa che torni il tempo bello. Testa di morto, guidami in porto. Oh coccodrillo egizio, allontana il malefizio».¹

    Avvitato in un lungo abito nero, con le maniche a sbuffo e la gonna a campana, in testa un imponente copricapo a forma di cuore (noto ai più esperti col nome di attifet)² adorno di pendenti a goccia sulla fronte e sui lati, nel 1999, per la prima volta, Paolo Poli entrava in scena nei panni di Caterina de’ Medici, recitando a gran voce questa formula propiziatoria. Volteggiando per un’ora e mezzo sul palcoscenico, con una grazia e un’eleganza smisurate, lo straordinario artista fiorentino prestava corpo e voce a una Caterina più magra, più malefica e forse più sarcastica di quanto la vera regina, quasi certamente, non era mai stata, riuscendo a dare vita a un personaggio grottesco e genuino insieme, dove il famoso e il famigerato finivano per confondersi.

    In questo celebre spettacolo dedicato alla vita di Caterina de’ Medici e scritto a quattro mani con Ida Omboni, i cliché della regina maledetta vengono esasperati fin dalle prime scene: dall’abito nero agli amuleti divinatori, dall’intelligenza sottile all’attrazione per il potere, dall’amore per l’intrigo al disprezzo per la banalità.

    La piece scritta da Omboni e Poli sulla scorta di Dumas è solo un esempio – uno tra i più ricercati, peraltro – a dimostrazione di quanto la corrispondenza tra Caterina de’ Medici e la regina fattucchiera sia ormai radicata nell’immaginario collettivo, al di là di ogni autentica rispondenza con la realtà (e talvolta anche al di là di ogni ragionevole verosimiglianza), e di quanto ciò ne influenzi la resa mediatica. Nel mondo della produzione letteraria, teatrale e cinematografica, il personaggio di Caterina risente sempre, in misura massiccia, dei lati più oscuri che la letteratura e talvolta la storiografia le hanno attribuito.

    La cattiva fama di Caterina, generata dal fanatismo religioso, nacque dopo i momenti più fatidici degli scontri tra cattolici e riformati, si diffuse in ragione dell’odio di parte quando la regina ancora era in vita, ma poi perse mordente nei decenni immediatamente successivi per riprendere corpo solo nell’Ottocento avanzato.

    A tutt’oggi è possibile che parte della fortuna (nera) di Caterina risieda nel fatto che chi ha continuato a tramandarne la storia, almeno fino al secolo scorso, non si è preoccupato troppo di distinguere, nel dettaglio, tra fonti storiche e letteratura, tra documenti di prima mano e invenzioni narrative.

    È un po’ come la storia di Maria Antonietta e delle brioches, per citare un’altra (sfortunata) regina di Francia straniera. Magari Maria Antonietta, dall’alto e dal chiuso della sua sfarzosa Versailles, non sarà stata in grado di rendersi conto della grave situazione di indigenza in cui versavano i suoi sudditi, magari questa incapacità di rendersi conto potrà averla fatta tacciare di insensibilità, magari la predisposizione al consumo e al lusso che il suo stesso ruolo le richiedeva potrà averci indotto ad associare alla sua persona una qualche forma di colpevole superficialità, ma non vi è alcuna prova che attesti che la regina di Francia abbia pronunciato una frase cosi spregevole e supponente.³

    Insomma, questo per dire che, può accadere – e la (im)popolarità di molti personaggi storici ne è la dimostrazione – che alcuni finiscano per essere ricordati solo o principalmente per quegli aspetti iperbolici che hanno continuato ad alimentarne la fama, senza riscontro. E il fatto che l’iperbole sia un’esagerazione di un tratto realistico, non giustifica in alcun modo l’atteggiamento di chi dimentica che realismo e realtà sono due cose diverse.

    Per esempio, quando si sottolinea sulla scorta di un’affermazione un po’ precipitosa di Maria Stuarda che Caterina restava una fiorentina figlia di mercanti, non era di sangue nobile, e proveniva da una famiglia di rango modesto rispetto ai Valois o agli Stuart (ammesso che Maria Stuarda abbia davvero pronunciato questa frase), si dà credito a un dicitur che è funzionale alla fama del personaggio ma che omette una parte della verità storica sulla persona. È vero che Caterina, nata a Firenze, erede di una famiglia di mercanti e banchieri, era figlia di un sistema sociale in cui la nobiltà praticamente non esisteva, ma è altrettanto vero che i Medici, da cui Caterina proveniva, erano per l’epoca quanto di più simile ci si potesse immaginare a una dinastia nobiliare italiana (se pure non regale). Ed è altrettanto vero che, per parte di madre, Caterina si poteva certamente considerare sia nobile sia francese, poiché la sposa di Lorenzo duca d’Urbino, Maddalena, era figlia del conte d’Auvergne, e della principessa di sangue reale di Borbone-Vendôme.⁴ Se Maria Stuarda l’abbia davvero mai accusata di avere un’origine modesta, o se attraverso questa vicenda i testimoni del tempo intendessero dar voce a un comune sentimento critico e vagamente xenofobo nei confronti di una regina che non solo non era di stirpe, ma non era nemmeno francese, in termini di storia del consenso fa poca differenza. Ma noi sappiamo che se Caterina era per metà fiorentina e borghese, certamente per l’altra metà era nobile e francese. E a ritrarla, a tutt’oggi, come una fiorentina erede di bottegai, si perpetua nel tramandare un’inesattezza nata in un preciso momento storico per ragioni di pura anti-propaganda.

    Va detto, a onor del vero, che nell’immaginario pubblico Caterina ha almeno due anime (forse anche più di due). Da un lato è impossibile non associare il suo nome ai veleni, alle arti magiche, alle profezie di Nostradamus, al complotto e all’eccidio di sangue della notte di san Bartolomeo, dall’altro lato, per una sorta di meccanismo di compensazione, la ricordiamo per un sacco di innovazioni e importazioni, per le quali, ancora oggi, l’Europa continentale è in debito con lei: l’arcione per le cavalcature femminili, per esempio, antesignano dell’introduzione della sella che avrebbe permesso alle donne di montare a cavallo come gli uomini e di godersi lunghi tratti al galoppo rischiando un po’ meno quelle cadute fatali a cui erano esposte cavalcando di lato, ma anche l’uso delle culottes per le donne (necessaria conseguenza di questa più disinvolta maniera di cavalcare), il bidet, il gelato, la besciamella, la forchetta o, più in generale, l’uso delle posate a tavola.⁵ Questo per citarne solo alcune. Anche qui la fama e la leggenda tendono a sovrapporsi alla verità storica.

    D’altronde, almeno per sentito dire, Caterina de’ Medici la conoscono tutti. È la donna Medici più famosa della famiglia e, probabilmente, dopo Lorenzo il Magnifico è il membro della casata su cui si è speculato di più. Eruditi, storici, romanzieri, registi, giornalisti, scrittori, stilisti, profumieri, cuochi e fumettisti si sono occupati di lei da dopo la sua morte fino ai giorni nostri.

    Potremmo spingerci a dire che esiste su Caterina una cultura pop che si è formata nei secoli, non si è mai sopita e, a tratti, riemerge e torna a manifestarsi con forza, magari con risultati non sempre eccellenti, ma che di fatto non fa mai passare la voglia di continuare a interessarsi a lei.

    Come paradigma della sovrana spietata, Caterina è la protagonista dell’ennesima fantasiosa serie tv statunitense, prodotta nel 2022, dal titolo neanche troppo enigmatico di The Serpent Queen. Ma Caterina è stata anche al centro di un progetto ambizioso come Barbie sogna Caterina, presentato nel gennaio 2008 – in tempi non sospetti rispetto all’attuale fenomeno di mercato che, dall’estate del 2023, l’universo Barbie ha fatto riemergere – in occasione di Pitti Bimbo, a Palazzo Medici Riccardi. In questo frangente, che coniuga design, moda e alta sartoria, la bambola più famosa del mondo si è trasformata in Caterina de’ Medici indossando l’abito e gli accessori sfoggiati in occasione delle nozze con Enrico di Valois.⁶ Non senza qualche forzatura, Caterina è stata arditamente assimilata a una influencer e addirittura associata alla bambola icona di bellezza e femminilità. Considerata la fisicità della Barbie e quella di Caterina, l’associazione è quanto meno azzardata. Ne sarebbe certamente stupita e forse lusingata, la regina nera, se lo sapesse. Barbie, tipica icona di bellezza wasp, ancora prima che di stile, sarebbe stato più facile immaginarla associata alla sua rivale Diana di Poitiers: bella, bionda, scultorea e favorita del suo marito re di Francia.

    Ma Barbie, mai come in questi ultimi mesi ci è stato così chiaro, è icona anche di versatilità. E se Barbie sogna la grassoccia Caterina (e non Diana), è perché la grassoccia Caterina (e non Diana) è stata – e resta – la più rinomata regina di Francia.

    La storia, insomma, il ruolo, la popolarità e la fama hanno deciso, nei lunghi secoli e decenni intercorsi, per questo cambio di prospettiva perché – come dice un vecchio adagio – non è bello ciò che è bello ma è bello ciò che piace, e Caterina, su questo non c’è alcun dubbio, ancora a distanza di secoli continua a piacere parecchio. Piace nonostante la sua fama, e piace grazie alla sua fama.

    Piace perché è un personaggio complesso, perché è una donna Medici che si è conquistata e conservata la scena in un panorama di uomini, non solo Medici. Piace perché ha un che di ambiguo, di gotico, di seduttivo e insieme maledetto, come piacciono Medea, lady Macbeth, Malefica e chissà quante altre dark lady che ancora si trovano nell’immaginazione di artisti e drammaturghi.

    Piace perché, diversamente da queste, Caterina è una persona vera e non un personaggio fittizio, scaturito dalla fantasia di un autore. Ed è, in fondo, un esempio di forza straordinaria, così come lo è l’altra grande regina del suo tempo, l’inglese Elisabetta Tudor, con cui condivide la scena. Entrambe regine donne, in un’epoca in cui le guerre di religione dividono la Francia e l’Europa, insanguinano stati e famiglie: guerre combattute da uomini, divisi da confessioni dominate da uomini.

    Caterina, insomma, è un personaggio storico che assomiglia alla protagonista di un romanzo. E forse, sebbene su di lei si scriva da sempre e sia stato scritto così tanto, resta ancora tra i compiti di chi se ne occupa, rendere giustizia alla persona e al contempo al personaggio. Capire, cioè, come e quando il personaggio abbia preso il sopravvento sulla persona, e come e quanto sia possibile restituire un’immagine realistica dell’individuo che dietro al personaggio risiede. In fondo, è un po’ la sorte di tutti gli uomini (e donne) famosi della storia, o almeno di quella occidentale: da Giulio Cesare a Carlo Magno a Lorenzo il Magnifico a Napoleone, si fa fatica a distogliere lo sguardo dal personaggio a vantaggio della persona. E così facendo il personaggio finisce per diventare uno stereotipo, un caratterista della storia: finisce, insomma, per sopprimere chi gli ha prestato corpo e vita e sostituirsi a lui.

    Quello che si cercherà di fare nelle prossime pagine, nel raccontare la lunga vita di questa regina, sarà, appunto, tentare di ricomporre questo dualismo. Non tanto scardinando o confutando certe mitizzazioni del personaggio, quanto cercando di far emergere, anche attraverso le voci di testimoni del tempo, la persona che vi stava dietro.

    Le origini

    Antefatto

    Vale per tutti gli eredi delle grandi dinastie: la loro storia comincia molto prima della loro nascita. Vale anche per la regina più cupa e volitiva che la Francia ricordi: la storia di Caterina de’ Medici comincia molto prima di quel 13 aprile del 1519 in cui la madre Maddalena la mise al mondo, nel palazzo di via Larga che il suo avo, Cosimo, aveva fatto edificare dall’amico e architetto Michelozzo.

    Per collegare Cosimo il Vecchio de’ Medici a Caterina, la parola avo è certamente la più sbrigativa, trattandosi di una parentela che, se pure diretta, si snoda sull’arco di almeno quattro generazioni. Più agevole sarebbe collegare Caterina a Lorenzo il Magnifico, che di Cosimo era il nipote e che, di Caterina, veniva ad essere il bisnonno. I settanta anni di differenza che separavano la futura regina di Francia dal Magnifico, nato il primo gennaio del 1449, non erano a ben guardare una distanza impraticabile. In termini di verosimiglianza biologica, avrebbero potuto perfino fare in tempo a conoscersi, bisnonno e bisnipote, se solo il Magnifico non fosse morto così presto, a soli quarantatré anni, nel 1492.

    Morendo prematuramente, però, in quell’aprile di fine Quattrocento, Lorenzo lasciava tre figli maschi a cui affidare la sua eredità politica e materiale: il primogenito Piero, nato nel febbraio del 1472, che avrebbe preso il suo posto – con scarsissimo successo – nel governo della città; il secondo, Giovanni, nato nel dicembre del 1475 e fin da subito destinato alla carriera ecclesiastica, che nel 1513 sarebbe divenuto papa col nome di Leone X; e l’ultimo, Giuliano, nato nel marzo del 1479, che avrebbe beneficiato, nel corso degli anni e grazie all’intercessione del fratello pontefice, di svariati titoli e onorificenze, tra cui la nomina a duca di Nemours per la quale viene sovente ricordato.

    Per quanto questi figli operassero, ognuno a suo modo e non sempre in misura appropriata, per non disperdere la posizione che il padre, seguendo il tracciato di suo nonno Cosimo, aveva assicurato alla famiglia, soprattutto al di fuori dei confini cittadini, un elemento imprescindibile intervenne a guastare la piena riuscita di questa strategia: la mancanza di eredi maschi diretti.

    Se certamente era ragionevole non aspettarsi una discendenza legittima dal cardinal Giovanni, uomo di chiesa, era su Piero e Giuliano che ricadeva l’onere di assicurare continuità alla dinastia. Ma anche l’unione tra Giuliano e Filiberta di Savoia rimase senza eredi (il solo figlio che Giuliano ebbe, Ippolito, fu un illegittimo nato fuori dal matrimonio). Dei tre nati dalle nozze tra Piero e Alfonsina Orsini, invece, si ebbe un solo maschio. Fu chiamato Lorenzo come il nonno, il Magnifico, che era venuto a mancare in quello stesso 1492, proprio alcuni mesi prima che lui nascesse.

    Questo Lorenzo, ultimo erede Medici del ramo del Magnifico, sarebbe rimasto noto alla posterità come duca d’Urbino e padre di Caterina.

    Novembre 1494: la cacciata dei Medici da Firenze

    Al di fuori del nome e del patronimico (anche Lorenzo il Magnifico era Lorenzo figlio di Piero), non sembra di poter affermare che Lorenzo duca d’Urbino condividesse col nonno molto di più: certamente non la tempra, non il carattere e nemmeno la stretta familiarità con la città di Firenze.

    In quest’ultimo aspetto, un po’ di responsabilità andava sicuramente ascritta a Piero, suo padre. Il primogenito del Magnifico, chiamato a sostituire il genitore nel governo della città, rivelò molto presto di non essere all’altezza del ruolo. Provvisto di un temperamento incline all’autoritarismo e poco adatto a guidare una popolazione che da sempre si percepiva come repubblicana, Piero si rivelò del tutto inadeguato di fronte alla discesa del re francese Carlo VIII. Nel tentativo di scongiurare un conflitto armato, infatti, egli si mostrò eccessivamente accondiscendente, ma le concessioni territoriali fatte al sovrano gli guadagnarono l’accusa di tradimento e l’ostilità manifesta dei fiorentini, che lo cacciarono dalla città.

    Come raccontava il cronista Landucci, Piero era andato

    per la via di Pisa incontro al re di Francia; e come giunse al re gli fece dare le chiavi di Serrazzano e di Pietrasanta e anche gli promise danari.

    Di fatto, Piero si era esposto ben oltre il quadro già grave tracciato dal Landucci, perché aveva promesso anche le fortezze di Pisa e di Livorno e una cospicua somma di denaro, e tutti questi accordi li aveva presi in totale autonomia, senza interpellare cioè gli organi di governo ufficiali. Si trattava, certo, di un’impegnativa più che di una effettiva stipula, ma l’impatto che ebbe sull’opinione pubblica fu sufficiente a rinvigorire l’ostilità degli antimedicei.

    Tra la fine di ottobre e gli inizi di novembre del 1494, il malcontento che la popolazione era andata maturando, finì per esplodere in maniera dirompente, cavalcato dagli oppositori dei Medici. Le cronache datano al 9 novembre del 1494 il giorno della ribellione.

    Piero de’ Medici era rientrato a Firenze da poco, dal giorno prima precisamente. Tornava da Pisa, dove era stato a colloquio col re di Francia. Il cronista Luca Landucci ricorda che il giorno stesso del suo ritorno, col suo fare tipicamente demagogico, Piero aveva provveduto a elargire cibi e bevande ai cittadini per ingraziarsene la benevolenza («[…] e quando giunse in casa gittò fuori confetto e dette vino assai al popolo, per recarsi benivolo al popolo») mentre i Signori emanavano un bando che sospendeva o riduceva le gabelle sulle vettovaglie, sul vino e sulla legna «per commodità degli habitanti e forestieri et per utilità de’ poveri huomini».¹⁰

    Nonostante queste manovre, la miccia del disappunto ormai era accesa. Così, quando la domenica, all’ora del vespro, Piero volle recarsi al Palazzo dei Signori con i suoi fanti armati, si vide opporre un aut aut: la Signoria lo avrebbe ricevuto solo e disarmato. Non altrimenti.

    Piero tornò indietro perché da solo non intendeva andare, ma senza troppa convinzione. Dal Palazzo dei Signori si suonò le campane per richiamare il popolo in armi, dalle finestre e per le strade si levarono grida di incitazione. In meno di un’ora, lo racconta sempre il Landucci, le strade e la piazza dei Signori si erano riempite di gente che inneggiava alla libertà. Piero, rientrato a palazzo, valutò la possibilità di scendere in arme accompagnato dai suoi fedeli, ma il numero di sodali su cui contare era davvero troppo esiguo e i rivoltosi troppi e troppo animosi per poter sperare in un qualche successo. Possiamo immaginarlo, a cavallo, nell’incapacità di decidersi, tergiversare tra la sua residenza e la piazza mentre la città iniziava a sollevarsi. Anche suo fratello, il cardinal Giovanni, che tentò di mescolarsi al popolo in arme unendosi al grido di libertà, fu additato come traditore.

    Se è vero che gli amici si riconoscono nel momento del bisogno, l’erede del Magnifico di amici veri in città doveva averne veramente pochi: «vedesti abandonare Piero de’ Medici d’alquanto e posare l’arme» precisa lapidario il solito Landucci.¹¹

    Alamanno Rinuccini nei suoi Ricordi Storici rammenta che venne messa una taglia sulla sua testa per chiunque lo avesse consegnato, vivo o morto, alla Signoria.¹² Con la minaccia della pena capitale, cadeva per Piero l’ultima remota possibilità che qualcuno dei suoi fiancheggiatori si adoperasse per lui con slancio solidale. Sebbene tale disposizione risalga ufficialmente a qualche tempo più tardi, è certo che in maniera ufficiosa la testa di Piero fu fin da subito nell’occhio del ciclone: la sola possibilità che aveva di salvarsi era quella di lasciare la città. Approfittando del fatto che la porta San Gallo – l’attuale Piazza della Libertà – era aperta e presidiata da suo fratello Giuliano e dalle milizie dell’alleato Paolo Orsini, Piero allestì rapidamente una fuga per lasciare Firenze la notte stessa.

    Stando al resoconto del Parenti, egli mise al sicuro le donne della famiglia nel monastero di Santa Lucia in via San Gallo e poi, coperto sotto un mantello pesante, procedette verso la porta. Appena anche il cardinal Giovanni, l’altro suo fratello, lo ebbe raggiunto, camuffato da frate francescano, abbandonarono la città:

    Così Piero, mandato prima la donna e la suocera in Santa Lucia, munistero in via di San Gallo, alla porta comparì; quivi, disarmati, un capperone addosso si gittò, e aspettando finché il cardinale vestito come uno frate di San Francesco, isconosciuto comparissi, subito che della porta uscito fu, lui col fratello Giuliano e col signor Paolo verso Careggi, la volta presono.¹³

    Quasi con un moto di tenerezza, Landucci ricordava, invece, di aver visto Giovanni ancora a casa, inginocchiato, nell’atto di pregare. Forse perché, mentre ne scriveva, quel ragazzo era nel frattempo diventato papa, forse perché davvero Landucci aveva creduto alla sua innocenza, pare che il solo Medici degno di una qualche forma di solidale pietà – agli occhi del cronista – fosse il futuro Leone X, colto alle finestre di casa, in ginocchioni e con le mani giunte, mentre si raccomandava a Dio. Un atteggiamento di tale umiltà che lo stesso Landucci si «intenerì assai» nel vederlo e finì per pensare che quel giovane Medici, già destinato al trono di Pietro, che portava la porpora da quando aveva sedici anni (e con essa il carico, ben più ingombrante, delle ambizioni di un’intera casata) «fusse un buon giovane e di buona ragione».¹⁴

    La fuga, per quanto vile, si rivelò la scelta di maggiore prudenza. La città non offriva più a Piero né ai suoi familiari alcuna garanzia di sicurezza. Lo scontento e la diffidenza che il suo governo aveva generato nella popolazione, stando alle parole di più cronisti, parevano davvero mettere d’accordo tutti. Dal Rinuccini al Parenti, dal Landucci al Nardi, nessuno provava il benché minimo rimpianto per la cacciata di un tale tiranno. Così il Parenti si esprimeva lapidario: «Piero de’ Medici, lo stato, anni sessanta durato fin dal suo bisavolo, perdé».¹⁵

    Dopo svariati decenni di predominio mediceo, Piero era riuscito nella discutibile impresa di far convergere contro di sé il malumore quasi unanime dell’intera cittadinanza. Perduto lo stato e interrottasi la continuità decennale di governo mediceo, a Firenze, poche settimane dopo, fu istituito il Consiglio Maggiore, che fino al 1512 rimase a sostegno del ritrovato governo repubblicano.

    Al contempo Piero e la sua famiglia venivano allontanati da Firenze e costretti all’esilio. Il piccolo Lorenzo, suo figlio, intanto, era stato tratto in salvo dalla città in rivolta: le cronache raccontano che venne fatto uscire di nascosto e «mandato in ceste con certe some» diretto a Urbino, sotto la custodia di ser Antonio Dovizi da Bibbiena.¹⁶

    Il rapporto di Lorenzo con la città di origine, insomma, non cominciava proprio benissimo. Dopo aver raggiunto furtivamente Urbino, per tramite di Piero Dovizi, fu affidato alle cure di Girolamo Lippomano, a Venezia, nella cui casa rimase fino alla fine del mese di febbraio del 1500. Successivamente, quando Lorenzo non aveva ancora otto anni, la madre Alfonsina Orsini lo richiamò con sé a Roma, per seguire poi gli spostamenti del marito che combatteva nel Meridione sempre al fianco di Carlo VIII. Lorenzo visse così a Montecassino, poi a Gaeta e infine, dopo la tragica scomparsa del padre, morto affogato nel Garigliano alla fine di dicembre del 1503, fu ricondotto a Roma.

    A poco valeva che di tutto questo «il povero Lorenzino non ci [avesse] colpa», come lo stesso Piero aveva profeticamente scritto al segretario Piero Dovizi, nell’ottobre del 1494, quando ancora la furia dei fiorentini non si era scatenata, riconoscendosi forse almeno un po’ responsabile della malasorte di cui già vedeva investito il figlio.¹⁷ Colpa o non colpa, quello che sarebbe accaduto di lì a poco andava ben oltre le ragionevoli apprensioni espresse da Piero. I Medici, per la prima volta, perdevano Firenze dopo diversi decenni di protagonismo politico e culturale e Lorenzo, che all’epoca dei fatti aveva appena due anni, fu il primo degli eredi a farne le spese. Venne cresciuto, istruito, scolarizzato e educato al greco e al latino, sballottato tra Venezia, Urbino, Roma, Gaeta e il meridione. Maturò, insomma, lontano dall’ambiente culturale fiorentino che suo nonno aveva contribuito a plasmare.

    Settembre 1512: il ritorno

    Il regime repubblicano che si era instaurato a Firenze dopo la cacciata di Piero, con il gonfalonierato a vita di Pier Soderini, non era tuttavia destinato a durare. C’era ancora chi in città, ma soprattutto fuori, prevalentemente da Roma, dei Medici agognava fortemente il ritorno e attendeva il momento adatto per intervenire. Il momento giunse con l’estate del 1512.

    Nel trascorrere dei mesi di luglio e di agosto, infatti, la situazione politica che vedeva il coinvolgimento di Firenze, negli scontri tra Francia e impero, insieme ai grandi potentati, precipitò. L’equilibrio della repubblica aveva iniziato a dare segni di cedimento già a primavera, quando all’alleanza col re di Francia impostata dal Soderini si erano contrapposti gli auspici antifrancesi della Lega Santa in cui convergevano gli interessi dell’imperatore Massimiliano, del re d’Aragona e del papa Giulio II della Rovere. Il pontefice, in particolare, mirava ad allontanare il Soderini e a riportare i Medici a Firenze. E quando, dopo il terribile saccheggio inflitto a Prato dalle truppe spagnole con il sostegno del papa e della lega anti francese, Firenze rischiava di subire la stessa sorte, per ottenere la salvezza la città si arrese ad accettare il ritorno dei Medici.

    Il 31 agosto, alle prime ore del mattino, una trentina di giovani filomedicei – guidati da Antonfrancesco Albizzi, Bartolomeo Valori e Paolo Vettori – arrestarono il Soderini. Disposto a non ostacolarli, pur di aver salva la vita, egli lasciò Firenze quella stessa sera, insieme ai suoi famigliari e a una piccola scorta di fiduciari, mentre i nuovi inviati (Cosimo de’ Pazzi, Jacopo Salviati e il Vettori) si recavano dal viceré per definire le trattative.

    Con questa sorta di colpo di Stato che restituiva ai Medici il controllo su Firenze e con la fuga del Soderini, calava definitivamente il sipario sul governo del gonfaloniere. In direzione opposta alla sua, come nella scena di un film, viaggiava infatti Giuliano de’ Medici, ansioso di rimettere piede nella città dei suoi avi.

    Gli eredi del Magnifico tornavano a Firenze. Dalla loro cacciata erano trascorsi ormai diciotto anni e gli animi dei cittadini, anche tra quegli più inclini al loro operato, erano in subbuglio. Non era un rientro piano, né pacifico né indolore. Fatti salvi quei pochi che avevano operato per ripristinarne il potere, non tutti ne desideravano il ritorno. Così, a fronte di questa ennesima svolta medicea determinata dalla pressione degli eventi, lo sforzo di entrare nelle grazie dei vecchi leader appena ripristinati finiva per riguardare parecchi.

    Un soderiniano come Niccolò Valori, per esempio, confessava nelle sue memorie di aver valutato la possibilità di lasciare Firenze, come prima reazione, e diceva che se si era trattenuto dal farlo era solo perché in città c’erano sua moglie e i suoi figli, motivo per cui aveva preferito rientrare in rapporto con i Medici.¹⁸

    D’altro canto, uno come Paolo Vettori, che pure era stato tra i cospiratori più attivi nella deposizione e nell’allontanamento del Soderini, aveva ben chiaro quanto il termometro del sentimento cittadino fosse rovente: nei suoi Ricordi al cardinale de’ Medici infatti, spiegava che, adesso, per conservare lo «Stato», i Medici – diversamente dagli avi quattrocenteschi – avrebbero necessitato «più forza che industria». Lo scorrere del tempo a volte acuisce le fratture e a volte aiuta a ricomporle: per tale motivo i ritorni, a lunga distanza, non sempre portano buoni frutti. Così il Vettori provava a far intendere al suo interlocutore che ripristinare gli antichi fasti su un nuovo equilibrio ormai rodato non necessariamente sarebbe bastato a garantire il successo, perché molta acqua era passata sotto i ponti e, a conti fatti, bisognava per lo meno tenere presente che «li dieci anni passati la città è stata benissimo, in modo che senpre la memoria di quel tempo vi farà guerra».¹⁹

    Lorenzo duca d’Urbino

    In questi diciotto anni di assenza medicea, Lorenzo aveva vissuto ovunque tranne che a Firenze, nella città dei suoi avi, città nella quale ritornava ora, sotto la tutela papale, in veste più di invasore che non di liberatore: il papa, non va dimenticato, si era fatto pagare una somma cospicua, per garantire a Firenze che le fosse risparmiata la tragica sorte subita da Prato. Se pure anche Lorenzo il Magnifico, ai suoi tempi, avesse spesso assunto posizioni sgradite alla popolazione, la distanza del nipote dal mecenatismo e dalla popolarità del nonno omonimo era più che evidente.

    A Roma, dal marzo del 1513, sedeva sul soglio di Pietro un papa Medici, Leone X, quel cardinale Giovanni, figlio del Magnifico, a cui la via della curia era stata spianata già dagli anni Ottanta del secolo precedente. A Firenze governava, formalmente, suo fratello Giuliano, che era persino riuscito, diplomaticamente, a ristabilire buoni rapporti con la Francia: nel 1515, aveva preso in sposa Filiberta di Savoia, zia del re di Francia Francesco I, e ricevuto il titolo di duca di Nemours.

    Nel frattempo però, dal settembre del 1513, Lorenzo venne sostituito a Giuliano nel governo di Firenze, poiché lo si reputava più in forze dello zio e maggiormente tagliato per la carriera politica. Lorenzo, tuttavia, accettava malvolentieri di lasciare Roma e la corte dove aveva vissuto, fino ad allora, con grande signorilità. L’altro zio, il pontefice Leone X, lo istruì su come agire nel governo della città e, per sicurezza, lo affidò alle cure del cugino Giulio de’ Medici, che da poco era stato nominato cardinale. Costui era il figlio naturale di Giuliano de’ Medici, morto sotto i colpi dei congiurati nell’aprile del 1478.

    Durante i primi mesi, consapevole della sua inesperienza, Lorenzo agì con prudenza e circospezione nei confronti della cittadinanza fiorentina, cercando di testarne gli umori, e di perseguire «l’honore et l’utile» della città, ma nel giro di poco prese ad assumere un atteggiamento più autoritario. Il 24 maggio del 1515, Lorenzo si fece nominare dalla Balìa Capitano generale dei fiorentini, contro la volontà stessa dei suoi mentori romani, lo zio Leone X e il cugino cardinale Giulio. Il Parenti, nel suo diario, lamentava un certo venire meno delle pratiche repubblicane:

    Al palazzo suo etiam consultavano et determinavano tutte le occorrenze pubbliche, in maniera che il Palazzo de’ Signori rimaneva abbandonato, solo per eseguirsi le pratichate cose vi si andava latimenti no.²⁰

    In pratica si osservava uno scavalcamento delle norme statutarie a favore di un regime de facto in cui la gran parte delle decisioni e delle scelte principali per la Repubblica venivano prese in sedi private, e soltanto ratificate in quella che doveva essere la sede legalmente deputata ad accoglierle: il Palazzo dei Signori. Niente di nuovo sotto il sole. Già ai tempi di

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