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Come foglie al vento
Come foglie al vento
Come foglie al vento
E-book640 pagine10 ore

Come foglie al vento

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Info su questo ebook

Cinque ragazzi, residenti in anonimi e sonnolenti paesini delle colline astigiane, vedranno le loro vite sfiorate da eventi sempre più funesti, fino a diventarne parte loro stessi, scoprendo, forse senza nemmeno accorgersene, che il male non può che generare altro male e che tutto quel che accade non sempre è dettato da una personale volontà, ma accade semplicemente perché deve accadere, perché, al di là delle scelte soggettive, ci sono delle forze che guidano gli avvenimenti secondo uno schema prestabilito di ampio respiro, che porterà le loro esistenze negli anni 80-90 a intrecciarsi con vicissitudini legate agli anni della seconda guerra mondiale e alle vite di persone solo all’apparenza completamente slegate dalle loro. Ogni azione, per quanto piccola o insignificante possa apparire, ne scatena altre, talora quasi impercettibili, talora dirompenti.
Esiste un filo conduttore che regola il trascorrere di ogni vita, un filo che si srotola da una matassa che non conosce limiti spaziali e temporali, un filo sottile, quasi invisibile, ma incredibilmente resistente, indistruttibile, un filo che nel suo svolgersi avvolgerà intorno a sé differenti esistenze trascinandole verso un unico punto di confluenza, pur lasciando loro l’illusione di poter disporre appieno delle proprie decisioni, un filo che avvolgerà allo stesso modo gioia e dolore, vita e morte, violenza e amore, legandoli insieme indissolubilmente.
Un filo che, al di là dei mondi concreti e reali noti a tutti, lambirà sfere meno considerabili dalle menti più razionali, come quelle che sembrano donare una volontà malvagia a un borgo abbandonato e al bosco che lo circonda o come quelle che chiamano in gioco la presenza delle masche o che sembrano suggerire un gatto albino come un’occulta presenza latrice di sventura.
Non tutto quel che accade è comprensibile.
Non tutto quel che accade è accettabile.
Ma nulla, nulla accade per caso.
LinguaItaliano
Data di uscita26 set 2016
ISBN9788866903222
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    Anteprima del libro

    Come foglie al vento - Stefano Pavesio

    CANDELINA

    1988

    La decappottabile fucsia era immobile, addossata al palo di legno contro cui aveva finito la sua corsa. La bella, bellissima ragazza bionda giaceva inerme nell’abitacolo, le mani ancora sul volante, lo sguardo fisso, i lunghi capelli sciolti sul succinto vestito rosa che aveva scelto per farsi quell’ultimo giro. Solo che lei non lo sapeva che sarebbe stato l’ultimo, non poteva saperlo. Da sotto l’auto usciva un rivolo che andava allungandosi sul terreno seguendone la lieve pendenza, come se il veicolo stesse orinando. E via via aumentava la sua lunghezza e la sua portata, fino a raggiungere il ragazzino che assisteva compiaciuto alla scena. Stava acquattato dietro un grosso cespuglio di rose e vedeva tutto distintamente. Aveva visto tutto e non c’era nessun altro intorno. Il liquido lo raggiunse nel punto preciso dove stava, come una rabdomanzia alla rovescia, ma non era acqua. Benzina. Il suo odore pungente e inebriante, irresistibile aroma postmoderno, gli solleticò le narici provocandogli quel familiare senso di euforia e di eccitazione. Si infilò una mano in tasca e mosse le dita fino trovarlo, in mezzo a monetine e caramelle, fino a sentirne la forma quasi cilindrica, ellittica a esser precisi. Lo estrasse, un accendino Bic arancione, lo avvicinò al rivolo e girò la rotellina metallica. Prese fuoco all’istante e le fiamme percorsero a ritroso il tracciato fino alla macchina avvolgendola in un attimo e raggiunsero la fanciulla avviluppandola interamente e divorandone fameliche i capelli; il vestito evaporò pochi secondi dopo e poi fu la carne. Prima prese fuoco, poi iniziò a sciogliersi lentamente, a cadere a gocce infuocate, le braccia le gambe il volto si deformarono come la cera di una candela. La ragazza non emise un gemito, non si mosse, non gridò, andò via via liquefacendosi.

    «Che cazzo stai facendo??? Io ti ammazzooooo razza di cretino!» queste erano urla vere, non di dolore, ma di furore e in quel momento erano indice di grave pericolo. «Rolando, sei un deficiente! È inutile che scappi tanto prima o poi ti piglio e ti gonfio!» gridava Rebecca.

    Ma Rolando, abituato alle fughe dalla sua imponente sorellona, era già al riparo sulla sophora, appollaiato su un robusto ramo a tre metri dal suolo.

    «Tanto quassù non ci arrivi, culona che non sei altro» disse, facendo seguire una pernacchia sputacchiosa. «E poi cosa rompi, ne hai a decine di quelle stupide Barbie!»

    «Quale hai preso? Com’era vestita? Dimmelo!! Ti strozzo!»

    «Era vestita di rosa, il vestito brillava e aveva una borsetta verde con un cuore. Perché, cosa ti cambia?»

    «Razza di demente! Era Barbie shopping, me l’aveva regalata papà, era un ricordo! Sei solo uno stupido ragazzino, ecco cosa sei!» inveì con gli occhi pieni di lacrime nervose.

    «Se è per questo te le ha regalate tutte papà, o quasi. Hai le altre, Barbie shopping è morta in un incidente d’auto, capita nella vita, sai? E poi va bene così, tanto anche papà è morto.»

    «Smettila! Stupido stupido stupido!! Non è morto, è solo andato via, tornerà.»

    «Smettila tu scema, è la stessa cosa, se ne è andato e ci ha lasciati qui, è come se fosse morto! Comunque tu pensala come vuoi, illuditi pure.»

    «Spero che caschi da quel ramo e ti spacchi la testa!»

    «Certo se cadessi tu faresti una voragine! O forse rimbalzeresti, palla come sei. Anzi, si romperebbe prima il ramo mentre cerchi di salire. Perché non sali a buttarmi giù? Dai vieni.»

    «Stronzo!» sentenziò Rebecca, quindi raccolse una manciata di ghiaia e la scagliò verso il fratello, colpendolo solo di striscio, si voltò e se ne andò.

    «Ecco brava, vattene e metti al sicuro le tue bamboline, potrebbero bruciare all’inferno!»

    Senza voltarsi, lei alzò la mano destra mostrando il dito medio e sparendo dalla sua vista.

    Era estate, faceva caldo, un caldo umido e afoso, tra le fronde della sophora, in maglietta e calzoncini, si stava divinamente bene. Tutto a un tratto avvertì un tonfo leggerissimo alle sue spalle sul ramo su cui poggiava e qualcosa gli si strusciò contro il polpaccio. Qualcosa di caldo e peloso. «Ciao Buio, eccoti qui micione, dove sei stato negli ultimi giorni?». Il gatto proseguì fino a pararglisi di fronte, strofinò il suo naso umido contro quello del ragazzino e iniziò a far le fusa. Era completamente bianco, il naso rosa pallido e gli occhi quasi trasparenti. Era un raro caso di felino albino. Il suo manto era candido come le neve, sempre, le rare volte in cui si sporcava pochi minuti dopo era di nuovo bianco brillante, come se si fosse fatto un bagno nella candeggina. Pesava quasi dieci chili, una stazza di tutto rispetto, considerato il fatto che fosse un maschio non castrato. E dire che ci avevano provato a fargli recidere i sacri gioielli, ma ogni volta che era atteso il veterinario lui spariva con sapiente anticipo e in nessun caso eran riusciti a metterlo in gabbia, vuoi per fughe rocambolesche accompagnate da graffi e morsi, vuoi per la sua assenza fisica, era come se lo sapesse. Dopo una decina di tentativi ci avevano rinunciato, in fin dei conti poteva anche andar bene così. Ambiva a essere il gatto alfa di Primiglio come testimoniavano le molte cicatrici e le punte delle orecchie frastagliate da troppi morsi. Era un gatto impegnato a tener d’occhio il territorio e nelle sue lunghe assenze controllava che tutto fosse a posto.

    «Ho bruciato una Barbie a quella scema di mia sorella, sai?» gli disse Rolando. Gli occhi del gatto sembrarono cambiare espressione, allungò una zampa poggiandogliela sul dorso della mano dopodiché estrasse repentinamente le unghie conficcandogliele dentro. «Ahia! Ma che ti prende? Cos’è, ho detto qualcosa che non va?». Le unghie si ritrassero. Sembrava un sì. Il ragazzino rimase un attimo pensieroso, un po’ incredulo, non era certo la prima volta che aveva la sensazione che il gatto lo capisse e volesse parlargli a sua volta. Provò a formulare un’altra domanda: «Ho fatto male a bruciarle la bambola?» niente unghie. Era un sì o un no? Pensò, se la cosa è sbagliata mi graffia, altrimenti no. È una follia, dai! Ma vabbè, proviamo: «Ho fatto male a salire sull’albero?» Niente unghie. «È per qualcosa che ho fatto o detto a quella stupida?» Unghiata. «Ahi! Cos’è, perché ho detto che è scema?» Altra unghiata.

    «Aspetta gatto, aspetta. Mi vuoi dire di non insultare mia sorella e di aver rispetto di lei?» Unghie rimosse. «Ma tu che ne sai di cosa vuol dire avere una sorella così rompipalle?» Rimasero a guardarsi qualche secondo. «È pur sempre mia sorella ed è l’unica che ho. Questo vuoi dire?» Mosse la zampa come per accarezzargli la mano, o così parve a Rolando. Emise un miagolio e saltò agilmente giù dal ramo zampettando rapidamente verso casa, sicuramente a cercare cibo, lasciandolo pensieroso su quanto appena accaduto.

    Il ragazzino salì qualche ramo più su, dove, tra le fronde, si aprivano delle feritoie da cui osservare in un arco di circa 180 gradi da est verso ovest passando per il lato sud, l’altra metà del cerchio offriva invece una panoramica sulla casa e sulla collina che continuava a estendersi ripida verso l’alto. Nelle giornate limpide si vedeva una buona fetta dell’arco alpino occidentale dove svettava il Monviso, ma oggi era afoso e c’era ben poco da osservare. Si vedevano comunque il bosco sottostante e le colline d’intorno e, proprio diritto e verso l’alto a occidente, Corveglia, il borgo abbandonato. Rimase a guardarlo per qualche minuto, chiedendosi chi mai avesse avuto l’idea di costruire quelle abitazioni una in fila all’altra proprio sul crinale della collina, sul filo di lana che faceva da séparé tra due piccole vallate. Un piccolo agglomerato di case in fila indiana, con un’esposizione molto improbabile, dal punto di vista di Rolando il borgo era quasi sempre in ombra, qualche raggio di sole riusciva a fare capolino solo nelle ore più calde dei mesi estivi, un po’ per questioni di punti cardinali, un po’ per il gioco di vegetazione e sporgenze rocciose. Vedeva la stretta e unica via che attraversava il paesello, passando di fronte a tutte le abitazioni, in lieve pendenza da destra verso sinistra fino a raggiungere il punto finale del costone roccioso su cui facevano presa le fondamenta, quindi uno strettissimo tornante e la strada procedeva ora verso destra ma in una discesa più netta, poi spariva tra le fronde e parecchio più in là risbucava nel punto più basso della vallata per poi risalire come un serpente sulla più bassa collina di Primiglio e poi ridiscendere nuovamente verso un’altra valle, non visibile dall’alto dei rami, che conduceva lentamente verso la piana astigiana. Tornò a indugiare sulla fine del costone, la cui punta più estrema giaceva alcuni metri più in là rispetto al tornante. Qui la collina scendeva giù a picco verso il bosco fatto in gran parte di querce, castagni e gaggie, con un salto che lui stimò di almeno cento metri. Dovrebbe esserci un muretto di protezione in quella curva, si disse, ma non c’è nulla. O forse non c’è più, magari un tempo c’era e con l’incuria è crollato. Prima o poi, un giorno, sarebbe andato a vedere di persona, anche se a dar retta ai racconti della zona sarebbe stato meglio evitare di metter piede in quel borgo. Se ne dicevano tante, ma su una cosa eran tutti concordi: che il borgo fosse divenuto completamente disabitato tra il Natale e il capodanno del ’46; non che prima fosse una gran comunità, una quindicina di case e una chiesetta non eran certo il prototipo di una metropoli, ma qualcuno c’era. Invece tutto a un tratto si era spopolato. A ogni modo, anche non dando retta alle voci di popolo, sarebbe stato comunque difficile da raggiungere, visto che la strada era interrotta da due voragini larghe e profonde, sia in entrata che in uscita, come se l’intero costone avesse scelto di isolarsi dal resto della collina. La strada che collegava Primiglio a Corveglia nel punto più basso aveva un bivio, verso sinistra si saliva sul costone e quindi al borgo, verso destra si deviava verso le colline che poco oltre ospitavano Verzano, ma anche su questa via, nel punto più alto, un altro bivio consentiva di tornare, voltando a sinistra, verso il borgo. La strada che passava per Corveglia era niente di più che una piccola ansa della strada primaria che univa i vari paesi delle colline e da qualche anno si era separata da essa, probabilmente in seguito alla scossa di terremoto del Natale del ’46. In verità la strada più che vedersi si intuiva, vista la quantità di vegetazione che negli anni ci era cresciuta sopra. Quanto il terremoto, peraltro lieve, fosse in relazione con la scomparsa degli abitanti del borgo era fonte di ipotesi fantasiose, ma nessuno fu mai in grado di produrre alcuna prova evidente. Restava il fatto che delle circa 50 anime che popolavano Corveglia non si seppe più nulla. Non ci volle molto per trasformare il paesello in fonte di storie macabre e in meta di presunti cacciatori di fantasmi o aspiranti satanisti, ma anche questo inopportuno pellegrinaggio negli anni si era sempre più ridotto, forse anche grazie al fatto che la vegetazione si era infittita a dismisura su quella terra lasciata a se stessa, soprattutto rovi e cespugli spinosi, il che rappresentava fonte di scoramento anche per i più avventurosi che immancabilmente, dopo un’impervia avanzata di alcuni metri passati a combattere con rami sferzanti e spine pungenti, tornavano mesti e imprecanti sui loro passi. Per non parlare dei nidi di vespe e calabroni che proliferavano indisturbati e si avventavano sugli incauti invasori. Ma era altrettanto ovvio che un certo fascino di mistero il luogo dovesse comunque conservarlo per i secoli a venire. Erano luoghi di masche, antiche tradizioni che faticavano a estinguersi anche nel 1988, epoca in cui Rolando dall’alto di un albero e dei suoi 12 anni fantasticava di esplorare zone infestate da spiriti e di parlare con i gatti. Quando voleva essere più concreto si perdeva a osservare il potere devastante del fuoco su qualsiasi oggetto gli capitasse a tiro.

    A cena, con la sorella e con la madre, si comportò come al solito, in modo distratto e distante, sentendo i rimproveri della madre per il dispetto a Rebecca e le preoccupate raccomandazioni a non farlo mai più che poteva dar fuoco alla casa o provocare serie ustioni a qualcuno, magari a se stesso. Sentì, ma non ascoltò, come tutte le altre volte. Alle otto iniziò il telegiornale, ma a quell’ora avevano già finito di cenare da un pezzo. Rebecca era già chiusa in camera con le cuffie in testa a tutto volume ad ascoltare i Duran Duran, a sgranocchiare dei biscotti al burro, a guardarsi la pancia, le gambe e le braccia troppo grosse per una ragazza di 15 anni e a recriminare per il suo aspetto e per la sua vita con poche aspettative.

    La madre prestava orecchio alle notizie e nel mentre riordinava la cucina.

    Rolando era appena arrivato nel bosco in bassa valle scendendo a rotta di collo sulla sua bici gialla e nera, schivando buche e pietre sulla sterrata che conosceva ormai a memoria. Ad attenderlo c’erano già Michele ed Elisa, lui seduto a terra che giocava a infilare dei bastoncini in un formicaio, lei in piedi poco più in là che gonfiava delle Crystal Ball colorate. Mancava ancora Gaui, che sarebbe arrivato, come sempre, con tutta calma. Fermò la bici bloccando la ruota posteriore e compiendo una derapata di mezzo angolo giro senza poggiare i piedi a terra, rimase un istante in equilibrio prima di dare un colpo di pedale per coprire gli ultimi metri fino al castagno dove avrebbe appoggiato il suo mezzo. Solo a questo punto porse i suoi saluti.

    Erano gli unici dodicenni di Primiglio, frequentavano la stessa scuola e la stessa classe. Erano, in quel periodo, amici di leva più che di cuore, ma andavano d’accordo e in qualche modo dovevano pur impegnare il tempo in un luogo dove il tempo tendeva a non passare. Il loro campo giochi principale era una piccola radura nel bosco in basso tra Primiglio e Corveglia, a circa mezzo chilometro dalle loro abitazioni.

    «Che avete fatto oggi?» chiese Rolando.

    «Stalla e fienile» sbuffò Michele.

    «Ho provato a fare qualche compito ma poca voglia. Poi son stata al piano per un paio d’ore sullo stesso brano che domani quella strega mi interroga» disse Elisa.

    «Cosa le suonerai, Per Elisa?» chiese Gaui sbucando all’improvviso da dietro un cespuglio con passo lento e silenzioso.

    «Ah Ah. Dovrei ridere? Sei un cretino!»

    «Beh, almeno sarebbe in tono col tuo nome. Tanto ti fan suonare solo idiozie.»

    «Come no, vuoi provare tu? Anzi, genio della musica, tu cosa suoneresti?»

    «E devo anche dirtelo? C’è solo un tipo di musica che potrei suonare.»

    «David Bowie, ovvio!» finì Rolando per lui, sedendosi a terra.

    «Bravo! Il Duca Bianco e chi sennò?» sottolineò Gaui sedendosi a sua volta.

    Gaui per gli amici, al secolo Davide Gai, si era guadagnato il suo soprannome per un misto di sfinimento dei suoi amici e per un’assonanza dei suoi dati anagrafici con quelli del cantante. Appena si parlava di musica lui tirava fuori Bowie, nel suo walkman c’erano sempre e solo cassette di Bowie, sullo zaino di scuola campeggiava il nome dell’artista su ogni spazio libero, sul diario aveva foto a non finire, in camera quattro poster, uno per parete, se fischiettava o canticchiava erano solo motivi del Duca Bianco. Gaui, non poteva che essere così. Lui sosteneva che la sua viscerale passione fosse colpa, o meglio merito, del padre che lo aveva contagiato con quell’ottima musica. I suoi amici pensavano che fossero i primi sintomi di una malattia mentale degenerativa, teoria supportata dal fatto che si presentasse sempre vestito di bianco, almeno un capo d’abbigliamento doveva essere bianco e ben visibile, aveva deciso di suggellare col colore dei propri indumenti la definitiva somiglianza col cantante, secondo lui una sorta di omaggio. Era perfino biondo e con gli occhi color grigio cenere, esile e un po’ troppo basso per la sua età, ma in cuor suo convinto di aver qualche avo in comune col cantante.

    «Oh che rottura, adesso attacca!» si lamentò Elisa. «Ma guardati! Senti, per me fragola e lampone.»

    «Eh?» replicò Gaui.

    Michele prese a ridere come un bambino e tra un respiro e l’altro riuscì a dire crema e cioccolato.

    «Prendi questa!» gli gridò Rolando lanciandogli un pezzo di corteccia.

    «E cosa dovrei farmene?» chiese Gaui.

    «Penso che sia la paletta» rise complice Elisa.

    «Che?» chiese Davide con sguardo stranito.

    Senza smettere di ridere Michele gli spiegò che avrebbe dovuto guardarsi allo specchio, che così di bianco vestito sembrava un gelataio fatto e finito, stasera più che in altre occasioni. La maglietta bianca era troppo larga per lui e assomigliava a un grembiule e i pantaloni in cotone bianco a tutta gamba e le scarpe che assomigliavano non si sa come a un paio di zoccoli completavano il quadro.

    «Molto spiritosi, estremamente puerili ma davvero spiritosi. In realtà siete solo invidiosi del mio candore e della mia somiglianza al Duca.»

    «Bastaaaaaaa» gridò tappandosi le orecchie Elisa, ancora sorridendo.

    «Oh e tu invece che hai fatto oggi? Dato fuoco a qualcuno?» chiese Michele a Rolando.

    «Barbie shopping» rispose con un sorriso compiaciuto da un orecchio all’altro.

    «Noooo. Ma vuoi farle fuori tutta la collezione?» gli chiese Elisa.

    «Mmmmm l’idea è allettante in effetti, ma credo che ormai le metterà sotto chiave, è già la terza che le elimino. Solo vorrei ancora Ken, ma devo studiare qualche effetto speciale per quella femminuccia.»

    «Ah e poi il malato sarei io?» rise Gaui. «Ha proprio ragione tua madre a chiamarti Candelina! Però se prendi Ken portalo qui e fagli un’esecuzione pubblica, non l’ho mai tollerato.»

    «Lo farò, lo farò» disse distrattamente mentre fissava lo spuntone roccioso di Corveglia.

    «Beh, che c’hai da guardare lassù?» gli chiese Elisa.

    «No niente. Certo che è un bel salto eh!»

    «86 metri per l’esattezza» intervenne Michele.

    «E tu come lo sai?»

    «Non ricordo dove, ma l’ho letto da qualche parte, forse un vecchio articolo di giornale. O forse me l’ha detto qualcuno.»

    «Voci di popolo, tsè. L’unico modo sarebbe misurarlo» replicò Gaui.

    «Ah sì hai ragione, lo fai tu? Prendi un metro molto lungo, ti arrampichi fin lassù e poi lo srotoli fino a terra, poi dal basso io ti dico quanto misura» ironizzò Michele.

    «No io lassù non ci vado, no no no. Se proprio ci tieni ci vai tu.»

    Michele si toccò la tempia un paio di volte col dito indice (fossi matto!)

    «Invece dovremmo andarci per davvero» intervenne Rolando.

    Tre paia di occhi lo fissarono stupiti in attesa di ulteriori spiegazioni.

    «Beh, che vi prende? Darete mica retta a tutte le storie che raccontano di quel posto? Secondo me son tutte fantasie per tenerci lontani da lì, forse è davvero pericoloso nel senso che ci si può far male cadendo in qualche buca o che qualche tegola ci precipiti sulla testa, ma il resto son tutte frottole.»

    «Forse in gran parte potresti aver ragione, resta il fatto che in ogni leggenda c’è sempre un fondo di verità, quindi nel dubbio preferirei non tastare di persona» concluse Gaui.

    «Beh, io ci andrò prima o poi e sono sicuro che voi verrete con me.»

    «E chi ti darebbe questa certezza?» chiese Gaui.

    «Non sarete mica meno curiosi di me? Non ditemi che almeno una volta non ci avete pensato.»

    Certo che ci avevano pensato, più di una volta.

    «E di Samuele che mi dici? È successo solo due anni fa» chiese seriamente Michele.

    «Secondo me è solo stato sfortunato, sarà scivolato ed è caduto nel posto sbagliato, basta scegliere una via di salita meno ripida.»

    Samuele Ramponi, anche lui di Primiglio, aveva 16 anni e per una scommessa con i suoi amici un pomeriggio di luglio di due anni prima si era diretto, armato di una rozza imitazione di machete, verso la rocca di Corveglia. Dopo aver oltrepassato la crepa di delimitazione territoriale aveva iniziato ad arrampicarsi in mezzo alla vegetazione sempre più fitta finché era stato costretto a tagliare rami sempre più spessi per poter procedere. Lentamente era riuscito a crearsi una via nell’intrico vegetale fino al punto in cui la terra saliva quasi in verticale. Erano solo pochi metri da scalare, poi si scorgeva di nuovo il terreno in un andamento più percorribile. La terra da quelle parti è ricca di tufo, robusto ma al contempo friabile. La sua presa era salda ma il terreno gli rimase tra le mani e l’assenza di un appiglio lo fece precipitare all’indietro, rotolando per diversi metri. Si fermò contro il tronco di un albero da cui aveva poco prima reciso dei rami per poter passare. Per sua sfortuna, o imperizia, i rami erano stati tagliati con un’inclinazione di circa 45 gradi, rendendoli così estremamente appuntiti. Ci finì contro con la schiena e un ramo lo passò da parte a parte, infilandosi di misura tra le costole della gabbia toracica, perforandogli il polmone sinistro e intercettando in pieno il cuore. Ebbe solo il tempo di abbassare lo sguardo e vedere un ramo insanguinato uscirgli dal petto, poi spirò.

    Fu una autentica tragedia di paese. Arrivò l’ambulanza e poco dopo i carabinieri. Arrivò perfino un inviato della Gazzetta di Asti. Non si parlò d’altro per i mesi a seguire. Gli amici furono interrogati a lungo, sospettati di averlo spinto suo malgrado a compiere un’azione così stupida. Pochi mesi dopo, distrutti, i coniugi Ramponi se ne andarono da Primiglio e più nessuno li vide. Vennero messi dei nastri bianchi e rossi lungo tutto il perimetro della crepa che faceva da confine alla rocca di Corveglia, ma ormai non ve ne era quasi più traccia.

    «E sia, ma non è l’unica cosa che è successa.»

    «È l’unica di cui noi abbiam visto e sentito qualcosa di persona ed è l’unica a cui possiamo davvero credere, le altre sono tutte storie che raccontano i vecchi per tenerci lontani da lì.»

    «Ma poi cosa credi di trovare lassù? Dei tesori? In questi anni di abbandono avran portato via tutto quel che poteva esserci di interessante» si intromise Gaui.

    «Per l’avventura! Per l’esplorazione! Per far qualcosa di diverso dal solito, insomma» sbuffò Rolando.

    «A proposito di cose nuove, l’altra notte non riuscivo a dormire e ne ho pensata una» disse Elisa saltando in piedi e rivolgendosi a Rolando.

    Era una ragazzina sveglia, di solito aveva delle trovate molto interessanti, valeva la pena di ascoltarla.

    «Casa di tua nonna è agibile? Si può entrare?»

    «Sì, ma... da quando è morta non c’è più entrato nessuno, sono anni ormai, sarà solo piena di vecchie ciaranfe e di ragnatele. Perché?»

    «Ragnatele? Meglio!» Le brillarono gli occhi.

    «Spiegati» i tre maschi si sedettero tutti occhi e orecchie per l’amica.

    «La casa del terrore!» esclamò guardandoli dall’alto verso il basso con due occhi così.

    «Eh???» dissero in coro.

    «Sì! Noi siamo in quattro, giusto? Due entrano e preparano dei trabocchetti spaventosi, poi entrano gli altri due ed esplorano la casa stando attenti a non cadere nelle trappole e non finire vittima dei due esseri mostruosi entrati prima di loro. Possiamo anche mettere una specie di tesoro da trovare e se i due avventurieri lo trovano vincono, sennò vincono i mostri. E poi ci diamo il cambio dei ruoli.»

    «Figataaaa!» saltò in piedi Rolando. «Elisa, sei un genio!» gridò abbracciandola.

    «Dai, almeno quest’estate per un po’ sappiamo cosa fare» appoggiò l’idea Michele. «Se funziona potremmo farne un’attività, vendiamo i biglietti per l’ingresso.»

    «Sì certo, ad Agostino, Alfonso, Pina e Maria» disse Elisa facendoli ridere. Erano i quattro anziani più rimbambiti del paese.

    «Va beh, sì dai, non è male, ma niente vigliaccate!» Gaui era un po’ meno entusiasta, conservava ancora spiacevoli ricordi della spedizione al cimitero dell’estate precedente, quel che aveva a che fare con il mistero e la morte non lo allettava più di tanto, ma non poteva certo far la parte del codardo o, peggio, ritrovarsi a passar l’estate da solo.

    Bene o male tra di loro riuscivano sempre a far passare le giornate, ogni tanto si trovavano a casa di uno di loro con dei giochi da tavola, ma il più delle volte, tempo permettendo, scendevano al bosco. Fulmine, rialzo, la caccia al tesoro erano solo alcuni dei loro passatempi. Ma ne avevano inventati molti altri. Dicevano il nome di una pianta, un’erba o un fiore e vinceva il primo che lo raggiungeva. La stessa cosa la facevano con gli insetti. O dalle foglie o dai frutti dovevano risalire alla pianta di appartenenza. Avevano legato delle corde ad alcuni robusti rami e le usavano sia per arrampicarvisi sopra sia per dondolarsi usandole come liane, anche se a Michele questo gioco piaceva poco. O disponevano degli oggetti a distanza per il tiro al bersaglio, con o senza fionda. E altri ancora.

    «E adesso, visto che c’è ancora luce, facciamoci un turno a nascondino» propose Michele lanciandosi su un classico.

    «Conta Davide!» disse Elisa.

    «E perché proprio io?» si accigliò.

    «Perché tanto vestito come sei ti troveremmo subito» finì Elisa.

    «Uff. E vabbè, ma la prossima volta conta qualcun altro.»

    «Sì e tu vestiti con una mimetica» continuò Elisa.

    «Sparisci, femmina! Lo sai che non mi è concesso, il mio è un dovere morale» disse muovendo le braccia come se impugnasse una chitarra elettrica.

    «Conta!» gli fecero eco tre voci all’unisono.

    Non appena Davide si fu avvicinato alla quercia per iniziare la conta gli altri tre si dispersero in direzioni diverse. Si erano dati dei confini oltre i quali non andare, altrimenti sarebbe diventato un gioco impossibile. E poi era meglio non vagare da soli per il bosco, erano pur sempre poco più che bambini, se uno dei loro genitori li avesse scoperti a fare una cosa del genere gli avrebbero proibito di continuare a scendere là sotto, già li lasciavano andare un po’ controvoglia, ma avevano fatto un patto di fiducia reciproca che per nessun motivo avrebbe dovuto essere infranto.

    Rolando si diresse verso la parte più bassa in direzione della rocca su cui poggiava Corveglia. Non andavano volentieri lì, aveva un che di inospitale quel posto e anche in questo caso ebbe la stessa sensazione e desiderò subito allontanarsene, ma doveva andarci, era come se lo chiamasse a sé. I boschi sussurrano, hanno una voce tutta loro, hanno dei rumori, dei suoni che a volte creano delle illusioni uditive, così pensò Rolando quando gli parve di sentirsi bisbigliare qualcosa su una cosa che non avrebbe dovuto toccare. Una cassa. O era una massa? O una glassa? Non si capiva bene, era solo un sussurro lontano, ma recava in sé una nota di disperazione e aveva un che di familiare. Gli mise i brividi. Tra il gatto telepatico e il bosco sussurrante per oggi ne aveva avuto abbastanza. Si allontanò correndo e si nascose da un’altra parte.

    Il sole stava scivolando dietro le colline, non c’era un filo d’aria. Poco più tardi orde di fameliche zanzare sarebbero decollate alla ricerca delle proprie prede e le lucciole avrebbero aperto le loro danze cromatiche colorando la notte di luci verdi intermittenti. Era il 24 giugno.

    TORTE PUBBLICHE

    1985

    Viabilità e Infrastrutture.

    Così recitava la targhetta fuori dall’ufficio di Riccardo Bellini, al secondo piano del palazzo della Provincia di Asti. Lui era il responsabile di quella sezione da quando, un paio di anni prima, aveva vinto il concorso bandito su misura per lui, come avviene per quasi tutti i concorsi pubblici in Italia. Aveva tre collaboratrici, tutte donne sotto i 40 anni. Una era difficile non notarla, più larga che alta, un accenno di peluria scura tra il naso e il labbro superiore, un vistoso neo sul lato del naso adunco, sempre vestita nei modi più impensabili. Anche l’odore non era dei più eterei e leggiadri, per non parlare dell’alito, ma aveva una voce suadente e vellutata, al telefono la si sarebbe immaginata come Jessica Rabbit, salvo poi scontrarsi con la dura realtà che la ritraeva molto più simile a Beppa Giosef di Alan Ford. Per ironia della sorte il suo nome di battesimo era Giuseppa, a tu per tu la chiamavano Giusy, ma appena era fuori dal campo visivo diventava Beppa. A ogni modo, quando si trattava di mediare telefonicamente, il ruolo le spettava di diritto.

    Le altre due erano invece di bell’aspetto e sapevano di esserlo. Sembrava di assistere alla messinscena rivista di Cenerentola, dove le Cenerentole erano due e la sorellastra una sola, che racchiudeva in sé il peggio di entrambe.

    Il signor Bellini era alto, di portamento atletico, con una bella chioma castana sulla testa e aveva una gran dose di quell’irresistibile fascino maschile che riesce a far capitolare molte donne. Ne era più che consapevole e ne faceva un uso a tratti smodato. C’erano delle stanze all’ultimo piano di Palazzo Grassi, stanze per lo più vuote e inutilizzate, che diventavano spesso luoghi di incontri tra colleghi. E il signor Bellini conosceva molto bene quelle stanze, così come le conoscevano le sue due cenerentole. Chi, nel 1985, ancora non le conosceva era la signora Marta Rivetti, la di lui moglie, nonché madre dei suoi due figli.

    Era il suo debole invincibile, non riusciva a tenerlo a bada. Non aveva altri vizi: niente fumo, niente alcool, niente gioco, nessun interesse morboso per auto o moto. Solo la femmina. E ogni qual volta se ne presentasse l’occasione non se la faceva sfuggire. Nel palazzo tutti sapevano tutto di tutti e tutti per lo più se ne fregavano.

    Ma c’erano cose su cui Riccardo Bellini non intendeva transigere. Per quanto consapevole dei clientelismi e della serpeggiante corruzione che lordava tutto ciò che era la pubblica amministrazione, si riteneva comunque un servitore dello Stato e non avrebbe giammai legato la sua persona a certi giochetti. Concorso a parte, si intende. Così, quando si accorse che l’appalto per la ripavimentazione della strada provinciale da Asti a Villanova era stato affidato alla ditta sbagliata, andò su tutte le furie. La società Cometti Asfalti aveva fatto un’offerta del 30% più alta rispetto alla Bitumi Parenti, eppure la seconda, ben più economica e di ottime credenziali, era stata esclusa dalla gara per un vizio di forma.

    Il presidente della Provincia, tal Bruno Vincenzi, si era interessato personalmente a quella vicenda. Bellini ci mise poco a scoprire che la moglie di Vincenzi, Ivana Poletto aveva una sorella di nome Daniela, la quale era sposata con un certo Ugo che di cognome faceva Cometti, sorprendentemente titolare dell’omonima ditta vincitrice dell’appalto miliardario. C’era poco da capire, le cose andavano così da che mondo è mondo. Ma l’avallo finale avrebbe dovuto essere proprio del responsabile Viabilità e Infrastrutture. Quanto ci avrebbe messo la Finanza o chi per loro a scoprire quel legame così palese e così inopportuno? Non voleva certo finire lui dietro le sbarre e comunque sia non era corretto procedere in questo modo. Avanti di questo passo distruggeremo l’intera Nazione, pensava tra sé il Bellini.

    Così raccolse la documentazione che provava l’assenza di ogni vizio di forma ed entrò nell’ufficio del presidente mettendo bene in chiaro che lui non avrebbe firmato nessuna delibera a meno che l’appalto fosse stato assegnato al giusto vincitore.

    Il dottor Vincenzi non gradì, glielo lesse negli occhi, ma cercò di dissimulare l’irritazione mostrando un sorriso di inaspettata compiacenza.

    «Bellini, Bellini» sospirò distendendosi comodamente sulla poltrona in pelle nera intrecciando le mani dietro la nuca. «Riccardo, da quanto tempo ci conosciamo?»

    «Direi da una decina d’anni» rispose.

    «Esatto. E da quanto tempo sei responsabile Viabilità?»

    «Due anni o poco più.»

    «E in questi anni hai avuto molti dispiaceri?»

    «No, fino a oggi almeno.»

    «Suvvia, non vorrai fare il paladino della giustizia?»

    «Scusa Bruno, non capisco cosa intendi.» In realtà aveva capito molto bene, ma voleva sentirselo dire.

    «Intendere? Cosa dovrei intendere? Non intendo nulla, solo che i vizi di forma sono tali proprio perché hanno una forma viziosa. Forse non hai letto bene il bando di gara e il modo non squisitamente e proceduralmente corretto in cui hanno redatto l’offerta quelli della Parenti.»

    «Veramente ho letto tutto più volte e in nessun caso ho trovato irregolarità. Non voglio essere un paladino della giustizia, solo non vorrei dover aver a che fare io con la giustizia.»

    «Ma suvvia, di cosa vai preoccupandoti? Alla fine l’importante è che il lavoro venga fatto bene e questa ditta, la Cometti, è molto ben referenziata.»

    «Anche troppo.»

    «Cioè?» d’un tratto Vincenzi si fece serio.

    «Cioè credo tu lo sappia molto bene, Bruno.»

    «Stavolta sono io che non capisco cosa intendi.»

    «Intendo, Bruno, che se ci sono arrivato io a scoprire che la sorella di tua moglie è sposata col signor Cometti in persona, quanto pensi che ci metta un giudice della sezione penale a venirne a capo?»

    Vincenzi si staccò dallo schienale, si sporse sulla scrivania verso Bellini e guardandolo fisso negli occhi gli parlò a bassa voce, quasi sibilando. «Riccardo, non andare oltre le tue competenze, non metterti a gettare sabbia negli ingranaggi che, come ben sai, sono molto ben oliati da molti anni, un motore che funziona bene è conveniente non fermarlo, in fin dei conti ci porta avanti tutti.» Fece una sospensione, poi riprese. «Chi credi che abbia scritto il bando di concorso per l’ufficio Viabilità? Oh guarda guarda, a ben rileggerlo sembra che sia stato fatto su misura per te.»

    Bellini rimase in silenzio per qualche istante, cercando di riordinare le parole che avrebbe voluto pronunciare, poi si espresse. «Senti Bruno, non sono venuto qui per sentirmi rinfacciare la tua magnanimità in cambio della mia connivenza. Lo so, lo so bene che se qualcuno volesse, il mio posto potrebbe essere messo in discussione e potrebbero annullare il concorso e degradarmi a usciere e so anche che per qualche strana alchimia il tuo nome non salterebbe mai fuori e sarei l’unico a rimetterci, ma qui la cosa è grossa, ben più del mio avanzamento di carriera. Stiamo parlando di un appalto di oltre dieci miliardi di lire! Devo farti io il conto di una differenza del trenta per cento? Qui non parliamo del mio concorso forse truccato, qui parliamo di un appalto sicuramente pilotato e la firma sui documenti che lo proveranno sarà la mia, Bruno, la mia, non la tua!» concluse battendo un pugno sulla scrivania.

    «Calmati Riccardo, calmati. Si trova sempre una soluzione nella pubblica gestione. Trenta per cento, eh? E se il cinque fosse tuo?» gli chiese aprendo le mani a palmo all’in su con un sorriso bonario.

    «Ehi, non provarci sai!? Il cinque? Cinque anni di prigione vuoi dire! E che cazzo Bruno, credi davvero che quelli della Parenti se ne stiano zitti e bravi a vedersi portar via un lavoro così per un vizio di forma? Cosa ci va che facciano una denuncia? Cosa ci va che scoprano il legame tra te, il marito della sorella di tua moglie e poi magari il mio concorso truccato? Sarà ben chiaro che mi hai voluto alla Viabilità come tuo braccio armato. Cosa credi di fare? Questo deve essere solo il primo di una lunga serie di appalti assegnati alla Cometti? Adesso è chiaro perché ti ha fatto comodo avere il sottoscritto a capo di quell’ufficio. Tu e quell’altro gestite i giochi a vostro piacimento, ma a firmare sono io e sono io a prendermela in quel posto. No Bruno, la risposta è no. E non provare a rilanciare altrimenti sarò io stesso a chiamare quelli della Parenti e spiegargli come stanno le cose.»

    «Che testa di mulo che sei, Bellini!» sbottò il presidente. «Ma chi credi che verrà mai a controllare? Come credi che vadano gli appalti pubblici in Italia? Più la torta è grande, meno controlli ci sono, lo sai perché? Perché in una torta grande avanzano sempre delle fette per i controllori. Se ci fosse da installare un lampione o una panchina ti dovrei dar ragione, ma qui non c’è nulla da temere. E per quelli della Parenti il vizio si trova per davvero, abbiamo dei buoni avvocati da queste parti Riccardo, non ti crucciare. In effetti ricopri la tua posizione da troppo poco tempo, avrei dovuto aspettare ancora un po’, che ti facessi un po’ più di esperienza del mestiere, ma vedrai che imparerai in fretta, ci saran così tante torte e pasticcini che ci farai indigestione» concluse, convinto di aver scritto la parola fine a quella discussione.

    Ma Bellini era indisposto e incazzato. «Signor Vincenzi, o meglio signor presidente, forse non le è chiaro che il sottoscritto non è in vendita e tanto meno intende accollarsi responsabilità penali non sue. E si informi un po’ meglio sul suo cognatino, potrebbe trovarsi un giorno in guai molto più seri di quanto pensa. Questa farsa finisce qui, si trovi un altro imbecille e ringrazi il cielo che non vi denunci subito tutti quanti, fate le vostre porcate finché vi gira bene, ma lasciatemene fuori!» Si alzò, prese i suoi incartamenti e fece per andarsene.

    «Fermati subito, Bellini!» gli intimò Vincenzi levandosi in piedi e puntandogli l’indice contro. Si fermò. «E sia! Sei un perfetto idiota, ma sia come vuoi. Questa salta, o la farò firmare a qualcun altro, ma tu cerca di rientrare in possesso delle tue facoltà mentali, stai buttando al vento un’occasione d’oro, potresti fare una vita da nababbo a spese dei contribuenti. Ma hai paura della tua ombra, Riccardo, e che cazzo!»

    «Che schifo, ma ti senti? A spese dei contribuenti? Ma da quando sei diventato così, Bruno? Che c’è, vuoi presentarti alle prossime politiche? Vuoi fare il parlamentare? Ti donerebbe, sai? Saresti perfetto in quel ruolo, sai quante torte troveresti lì? Torte... tavole imbandite di ogni ben di Dio per i vampiri come te. Ma non hai un minimo di decenza? Hai già uno stipendio di tutto rispetto, che diamine!»

    «Mi fai quasi tenerezza. Questo spirito da cavalier cortese da dove salta fuori?»

    Bellini rise sarcastico. «Pazzesco. Stai parlando di turbativa d’asta, falso ideologico, corruzione, concussione, spreco di denaro pubblico, nepotismi e chissà quant’altro come se fosse la norma e come se fossi io quello che ha bisogno di una camicia di forza.»

    «Ma questa è la norma, Riccardo. Non l’ho inventata io, è dall’alba dei secoli che in questo Paese le cose van così, cercare di opporsi è come cercare di contrastare una mandria di bufali in corsa correndogli incontro. C’è stato un tempo in cui anche io ero come te, credimi, ma non ne vale la pena. Ti ho favorito perché ti consideravo un amico e in te rivedevo un po’ me e mi sembrava gentile darti modo di elevarti un po’ socialmente ed economicamente, non per usarti come capro espiatorio, come sostieni tu.»

    «Senti presidente, sei più anziano e più navigato di me, te lo riconosco, ma non provare a raggirarmi con ’ste manfrine da politico scafato. Dici di volermi aiutare mentre ti servo solo per far da parafulmine a te e tuo cognato e, se va a finire che mi portano via in manette, tanto ne troverai altri cento disposti a fare questi lavoretti, giusto?»

    «Giusto, ne troverei altri cento, anzi mille disposti ad arricchirsi a fatica e rischio pressoché nullo. Sbagliato, non sarai un parafulmine e nessuno ti metterà le manette, perché non ci sarà nessuno che avanzerà nessuna denuncia, se fai parte del gioco sei al sicuro, credimi.»

    «Oh sì, ti credo eccome. Ecco, questa è un’altra cosa che mi inquieta profondamente.»

    «Cosa?»

    «Sapere chi sono i giocatori, o dovrei dire i burattinai.»

    «Spiegati.»

    «Bruno, forse tu sei solo un disonesto amante dei soldi facili, ma Cometti temo che sia tutta un’altra pasta. E non venirmi a dire che non ne sai nulla.»

    «Cosa dovrei sapere? Cosa c’è che tu sai che io non so?»

    «Senti, lascia perdere, ti ho detto che questo è un gioco a cui non intendo giocare. Trovatevi qualcun altro. Rimpiazzami, sostituiscimi, sei tu no il presidente qua dentro? Ma lasciami fuori da questo schifo o dalla Finanza ci vado io stesso. Se affondo io stai pur tranquillo che qualcuno viene giù con me.» Sbatté la porta e se ne andò.

    L’ufficio del presidente era al primo piano, in una stanza con le pareti insonorizzate e due linee telefoniche, di cui una privata per suo uso e consumo.

    Turbato e amareggiato Vincenzi tornò alla scrivania e, dal telefono privato, compose un numero. Quando all’altro capo risposero disse semplicemente: «Ugo, sono io, abbiamo un problema».

    BINARIO 2

    1930

    Nel 1870 la SFAI completò e inaugurò la linea ferroviaria che collegava Castagnole a Mortara, passando per Asti e per Casale Monferrato e, oltre a offrire a molte persone un comodo e rapido mezzo di trasporto, fece sì che Ottavio e Norma si potessero incontrare.

    In una fredda mattina di marzo nel 1930 Ottavio Cacciabue, ai binari di smistamento della stazione di Asti, stava armeggiando con gli organi di aggancio di un convoglio merci da comporre entro fine mattinata. Al binario 2 si fermò un treno proveniente da Casale Monferrato. Dal vagone di coda, per ultima, scese una bella ragazza coi capelli neri raccolti in un foulard, fece due passi incerti sulla pensilina e cadde lunga distesa come fosse morta. Ottavio si precipitò a soccorrerla. Era bianca come un cencio e respirava a fatica. Lui non sapeva nulla di tecniche di rianimazione, ma si rese conto che il cuore batteva ancora e comunque, anche se flebilmente, respirava. Si mise a gridare aiuto e in pochi istanti accorsero altre persone. Insieme cercarono di rianimarla ma non sembrava reagire, non restò che sollevarla di forza e caricarla su una carrozza per portarla di corsa al nosocomio di Asti.

    Il medico che la prese in cura chiese se gli accompagnatori fossero dei parenti, ma nessuno di loro lo era. Era da sola, nessuno la accompagnava nemmeno sul treno. Ottavio disse ai colleghi che sarebbe rimasto lui, almeno finché si fosse risvegliata, e che loro tornassero di corsa in stazione a finire il convoglio, altrimenti avrebbero passato tutti dei guai.

    Tre ore dopo avvistò lo stesso medico in un corridoio e gli andò incontro per chiedergli informazioni sulla giovane donna. Visto che sembrava essere l’unico a nutrire un certo interesse per quella povera ragazza, il dottore gli confidò che si era ridestata, ma era molto debole e faticava a respirare e probabilmente sarebbe vissuta per sempre così, forse anche peggio, col passare degli anni. Il male di cui soffriva era con ogni probabilità asbestosi.

    Ottavio annuì, anche se in realtà non aveva la minima idea di cosa fosse l’asbestosi.

    Nemmeno Norma Enrichetti, allora ventottenne, aveva idea di cosa fosse l’asbestosi, però ce l’aveva per davvero. Un regalo poco gradito dei quasi sette anni passati a lavorare in mezzo alle polveri volatili dell’Eternit che si insediavano giù giù nelle più remote cavità degli alveoli polmonari, devastando a poco a poco la loro funzionalità. Era un processo cronico e irreversibile e quasi sempre lento, di norma servivano un paio di decenni per mostrare degli effetti evidenti, ma in certi casi la patologia evolveva molto più rapidamente e Norma Enrichetti era uno di questi casi.

    «Vada a vederla di persona, se crede» disse il medico a Ottavio.

    «Ma io veramente non so nemmeno chi sia, non vorrei esser poco opportuno.»

    «Mi sembra che nessun altro l’abbia accompagnata, adesso cercheremo di capire da dove viene e se ha qualche parente da avvisare. Veda lei, mi sembra una signorina triste e malata, un gesto di interesse, quand’anche da uno sconosciuto, non potrà certo farle male.»

    «Viene da Casale. È scesa dal treno che viene da Casale, io lavoro alla stazione e ho visto bene.»

    «Ecco, vede, ne sa già più lei di noi» gli sorrise il medico. «La saluto, ora ho altri pazienti da visitare.»

    Ottavio rimase incerto per qualche minuto, poi si armò di coraggio e andò a cercarla.

    La trovò distesa in un letto in una stanza con altre quattro donne, tutte caratterizzate da un aspetto poco salubre e prese da accessi di tosse. Si accorse di avere il cappello in testa, a marzo faceva ancora freddo, se lo tolse subito imbarazzato stringendolo al petto. La guardò, aveva ripreso un po’ di colorito ma aveva gli occhi cerchiati. Dietro l’aspetto malato si intravedeva un viso dai lineamenti delicati e graziosi, lo sguardo era triste e affaticato, ma al tempo stesso vivo e speranzoso.

    «Signorina, buongiorno» bofonchiò. Lei lo osservò stupita. «Ecco, ehm...» continuò «l’ho portata io qui, io e i miei colleghi della stazione voglio dire, quando è scesa dal treno ed è caduta. Ricorda?»

    «Oh sì» sorrise «ricordo sì, grazie, grazie mille, davvero».

    Il suo sorriso sembrava un fiore che sbocciava. Ottavio era confuso ed estasiato.

    «No, non mi ringrazi, era il minimo, non potevamo certo lasciarla lì per terra.»

    «Già, qualcuno prima o poi avrebbe inciampato su di me» rise alla sua stessa battuta.

    Rise anche Ottavio, sincero. Si chiedeva come facesse quella giovane donna, che poco prima sembrava quasi morta, a ridere e scherzare sulle sue stesse sventure.

    «Senta signorina…»

    «Norma, mi chiamo Norma» lo interruppe.

    «Oh certo, ha ragione, le chiedo scusa, non mi sono nemmeno presentato. Ottavio Cacciabue, al suo servizio» si avvicinò a lei porgendole la mano.

    «Norma Enrichetti» cercò di tirarsi su a sedere ma un attacco di tosse la costrinse a desistere. «Mi scusi, questa tosse proprio non mi dà tregua.»

    «Non si preoccupi, signorina Norma, ci mancherebbe, stia comoda e pensi a riprendersi. Il dottore mi ha chiesto se ero un suo parente o se conoscevo qualcuno da avvisare.»

    Norma si oscurò in volto poi disse che i suoi parenti erano lontani e non c’era bisogno di avvisare nessuno, lei se la cavava da sola. Ottavio rimase perplesso e pensò che gli stesse nascondendo qualcosa, ma in fondo non erano affari suoi.

    «Capisco» le disse «credo che la terranno qui per qualche giorno finché non si sarà un po’ rimessa. Se per caso ha bisogno di qualcosa me lo dica.»

    «La ringrazio ma le ho già creato troppo disturbo, non si preoccupi per me. Anzi, forse lei ha altro da fare, le ho già fatto perdere troppo tempo.»

    «Allora io vado, signorina Norma, e cerchi di rimettersi.»

    «Lo farò» gli promise.

    Il giorno dopo Ottavio tornò all’ospedale e lei non parve poi così dispiaciuta della cosa.

    «Buongiorno signorina, perdoni la mia invadenza, ma ho pensato che questi potevano farle comodo» le porse una borsa, dentro c’erano degli abiti femminili puliti. Lo stupore si dipinse sul suo volto.

    «Ma questo è troppo, non posso accettare!» gli disse porgendogli indietro la borsa.

    «Mi permetta di insistere, altrimenti mia madre mi tirerà le orecchie quando rientro a casa» disse lui ridendo. «Non è stata un’idea mia, devo essere sincero. Ieri sera ho raccontato a mia madre la sua disavventura e lei ha pensato che degli abiti puliti possono tornare molto utili quando si deve stare in ospedale. Li accetti, non è un regalo, poi me li restituirà quando non le serviranno più.»

    Era stupita e commossa. In effetti era stata un’idea eccezionale, che solo una donna poteva aver avuto, iniziava già a sentirsi sporca negli abiti del giorno prima e non aveva altro con cui cambiarsi. «Allora, se le cose stanno così, ringrazi moltissimo sua madre da parte mia e le dica che glieli restituirò puliti e stirati» disse tra un colpo di tosse e l’altro.

    Rimasero in silenzio per un po’. Poi lei gli chiese: «Perché fa questo per me, Ottavio? Non mi conosce nemmeno e io non voglio esser di peso a nessuno».

    Cosa rispondere? Iniziava a sentirsi imbarazzato.

    «Perché no?» disse lui. «Mi ha detto che è da sola e non ha nessuno da avvisare, ecco, a me farebbe piacere, nella stessa situazione, se qualcuno si prendesse cura di me. Adesso devo proprio scappare al lavoro, signorina, tornerò appena posso, se ha ancora bisogno di qualcosa.» Finì velocemente tutto d’un fiato e se ne andò rapidamente, quasi da maleducato, si sentiva accaldato e aveva bisogno d’aria.

    Tornò il giorno seguente. E quello dopo ancora. Le portò dei fiori, la qual cosa fece ammiccare le compagne di stanza di Norma e fece affiorare un sorriso negli occhi di lei. Si conobbero un po’ meglio e iniziarono a darsi del tu e a chiamarsi per nome. Ottavio scoprì che erano pressoché coetanei, 28 lei 30 lui, e scoprì che lei lavorava da anni nei reparti produttivi della Eternit a Casale Monferrato, che aveva una famiglia abbastanza numerosa con cui non andava per nulla d’accordo, il fatto stesso che lei, donna, lavorasse proprio non andava giù al padre, ma lei non se ne curava. Era venuta ad Asti in seguito all’ennesimo attacco di tosse, ma questo era stato più violento del solito con evidente perdita di sangue dalla bocca, sperava che qui all’ospedale avrebbero potuto curarla e poi sarebbe tornata a Casale. Invece le cose andarono diversamente. Il quinto giorno i medici la dimisero, ma le dissero che con ogni probabilità i suoi problemi erano legati all’ambiente di lavoro, ne avevano già visti molti in condizioni simili alle sue provenire dalla stessa fabbrica, non poteva essere solo una coincidenza e che se fosse tornata a lavorare lì probabilmente presto ne sarebbe morta. Solo che lei un altro lavoro non ce l’aveva e non aveva nemmeno nessuno che la potesse mantenere e per nulla al mondo sarebbe tornata a casa con la coda tra le gambe a mendicare cibo e pietà a suo padre e sua madre.

    Reso edotto di tutto ciò, tra mille imbarazzi, Ottavio si permise di chiederle se avrebbe accettato di trasferirsi a casa sua. Lui e la madre vivevano insieme appena fuori Asti in una casa che un tempo era una cascina, la casa non era molto bella ma era grande e c’erano stanze in abbondanza, inoltre sua madre non era più molto in salute e avrebbe accettato molto volentieri la presenza di qualcuno che le desse una mano nelle faccende di casa, naturalmente avrebbe ricevuto un compenso per i suoi servigi. Era convinto che lei avrebbe rifiutato, non solo, l’avrebbe anche insultato per essere stato così avventato nei confronti di una giovane donna sola e malata, come poteva pensare di approfittare di lei in questo modo? Certo, pensava tra sé Ottavio, è un po’ imprudente una richiesta così, anzi decisamente inopportuna. Si era pentito di averglielo domandato nel momento stesso in cui aveva finito di farlo. Eppure lei disse di sì. Accettò ponendo una sola condizione, che se fosse stata in grado di trovarsi un lavoro nel senso stretto del termine nessuno le avrebbe impedito di accettarlo e se ne sarebbe andata a vivere per conto suo per non pesare più su di loro.

    Poi andò che Norma si trovò meglio del previsto, la madre di Ottavio era una signora deliziosa, testarda e orgogliosa, un po’ come lei in fondo e si trovarono bene l’una con

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