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Alvimar
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E-book274 pagine4 ore

Alvimar

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Alvimar, ragazzina quindicenne, si reca per la prima volta da sola n città osservandola con occhi diversi. Per reazione a un evento cruento che la scuote profondamente, cerca di realizzarsi attraverso il lavoro muovendosi oltre le aspettative usuali di una ragazza nei tempi in cui essere qualcosa di diverso da una madre di famiglia è difficile se non impossibile. Nella particolare situazione economica di una piccola città del Nord Italia, nel periodo che corre tra le due guerre mondiali, il fascismo e le vicende partigiane influiscono pesantemente nella vita di tutti i giorni. Nella rivisitazione di uno stereotipo che ha mostrato un'Italia monolitica e coscentemente antifascista, Alvimar si affermerà quale capitano d'industria, vivendo tragedie, affetti e l'amore in un'esistenza sostanzialmente solitaria.
LinguaItaliano
Data di uscita9 apr 2014
ISBN9788869092879
Alvimar

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    Anteprima del libro

    Alvimar - Dario Tesser

    srl


    Aveva sì e no quindici anni. Si era messa per l’occasione, una camicetta bianca, con doppia abbottonatura, chiusa fino al collo e una gonna grigia che arrivava a coprirle le scarpe vecchie, tenute ancora bene.

    Veramente in città era stata altre volte, però assieme ai genitori e vestendo roba da bambini, come blusotti e gonnelle. Stavolta era sola e oramai grande.

    Da un pezzo si preparava all’evento; i fratelli partivano presto la mattina, così di buonora che il pranzo non poteva essere pronto e bisognava pur che l’avessero e caldo abbastanza. L’intervallo per mangiare alla Storer, dove lavoravano i maschi, era assai breve e troppo lunga la strada fino a casa. Allora si doveva portare il paniere, verso mezzogiorno, ai cancelli della Ditta.

    La faccenda, da principio, l’aveva messa in agitazione. Avventurarsi fuori della contrada, camminare per tutto lo stradone sotto il sole e con notevole peso al braccio, era piuttosto preoccupante ma, questo era il peggio, percorrere le vie del centro, trafficate di carri, piene di gente agitata, vociante, certo tutto ciò le avrebbe riempito la testa di confusione e rumore. Anche automobili dovevano esserci: figurarsi! Quando ne transitava qualcuna sullo stradone, le urla delle madri richiamavano imperiose i figli ai bordi della via da dove guardavano passare, tra la curiosità e la paura di finire sotto le ruote, l’autovettura rombante. E adesso rischiava di vedersele capitare addosso da ogni parte, con quell’incrociarsi di vie, complicato.

    Nonostante tutto ciò non si era persa d’animo, quando aveva saputo di dover andare e non si sarebbe tirata indietro, adesso che c’era.

    Appena attraversata la barriera - le aveva detto sua mamma - giri a destra. Dopo poco trovi, sulla sinistra, un ponte: lo attraversi… sta attenta a non finire in acqua ché il parapetto è poco sicuro…

    Stava quasi per risponderle che era grande e sapeva badare a se stessa, ma non ne era molto sicura e preferì stare zitta.

    … c’è, a sinistra, quel castello che abbiamo visto col babbo, ti ricordi? Quando siamo andati in chiesa al Duomo, per San Liberale?

    Certo che se ne ricordava perché erano rare le volte che andavano in chiesa e anche quel giorno fu solo per vedere la famosa statua del Santo che dicevano essere d’argento puro.

    A quel punto, quasi ci sei. Devi solo prendere per Via Tolpada, che è dritta davanti a te, appena girato il bastione. Il primo cancell0 di ferro, grande, che vedi sulla destra, sei arrivata. Tu aspetta là e non ti muovere. I tuoi fratelli ti cercheranno loro; arriveranno di corsa, con la fame che hanno.

    Non c’era da sbagliarsi, la mamma era sempre molto precisa nelle sue spiegazioni. Stavolta sembrava persino più desiderosa del solito di farsi capire. Segno che un poco preoccupata lo era anche lei, Alvimar però non si agitò a questo pensiero. Sentire la preoccupazione negli altri anzi la rinvigoriva di più, le dava una carica speciale.

    Veramente tanto sicura non si sentiva e non solo per la confusione, per i pericoli del traffico cittadino; erano piuttosto i giovanotti che avrebbe incontrato, a darle pensiero. Avrebbero potuto infastidirla con i loro commenti salaci che bruciavano addosso come uno schiaffo.

    Era cambiata negli ultimi tempi, cambiata fisicamente. Alta, era alta uguale però si era arrotondata nelle forme. I bottoncini di stoffa che chiudevano la camicetta erano, appunto, ben tesi, quasi lì, lì per schizzar via da un momento all’altro.

    Gli uomini infatti - non solo i ragazzi ma anche i vecchi, sposati - la guardavano con insistenza e questo l’infastidiva parecchio. Già quelli che passavano per lo stradone erano abbastanza indisponenti… ed era il transitare di un attimo sopra qualche carro che portava la roba in centro, figurarsi se avesse trovato qualche crocchio di sfaticati in città!

    Atterrita dai pensieri che le si affollavano nella mente, nuovi per lei, che sfioravano faccende delle quali mai si era resa ben conto, immagini che procuravano rossore perché implicavano parole come seno, sesso, maschio e femmina, ma con significati diversi dal solito, per tutto ciò di nuovo e conturbante, camminò veloce, curva nelle spalle provando a nascondere, senza riuscirci, la prepotenza di un seno stupendo.

    Alvimar era bella, non appariscente ma di lineamenti delicatamente proporzionati. I capelli, che lei stessa amava definire ‘castano dorato’ e per i quali, un poco era vanitosa, incorniciavano l’ovale del viso, pettinati alti in uno chignon rigoglioso. Occhi vivacissimi, scuri; naso piccolo, aristocratico, dalla linea greca purissima. La bocca piccola, naturalmente rossa, si apriva sui denti regolari, piccini, da bambola. Non era appariscente dunque ma, su di lei, gli sguardi si trattenevano volentieri, ritornavano per una conferma, indugiavano convinti di sorprendere una bellezza che invogliava a godere, senza saziare mai completamente.

    Arrivò ai cancelli senza accorgersene avendo dato, passando tra questi pensieri, solo un’occhiata al castellaccio pretenzioso. Era presto, non ancora mezzogiorno. Stette, addossata ad una colonna, al di là della strada aspettando che suonassero la sirena. Passatosi più volte, da un braccio all’altro, il cesto pesante, lo appoggiò a terra. Il cibo, ben coperto, non si sarebbe impolverato in ogni modo. E poi era stanca. Guardò in giro e contemplò le case di città che aveva già visto, però senza mai considerarle attentamente. Erano enormi, come aveva notato da bambina - semmai ora le parevano meno imponenti - ma, che fossero così vicine le une alle altre, non l’aveva mai notato; sembrava che i tetti si avvicinassero tanto, fino quasi a toccarsi sopra la strada, nascondendo quel poco di cielo.

    Un pizzicotto la fece emergere dai suoi pensieri, di colpo.

    Avvampando in volto, si girò inviperita per fulminare l’impertinente villano. Una sonora risata accolse il suo scatto: erano i fratelli. In mezzo ai suoi sogni, non li aveva sentiti arrivare.

    Ehi, scimmietta, è un bel po’ che ti chiamo! esclamò Vittorio, aggiungendo al pizzicotto una pacca sul sedere.

    Alvimar guardò lui e Aldo ancora con gli occhi pieni di rabbia poi, riconoscendoli, lo sguardo le si addolcì. La tensione le era cresciuta dentro senza che se ne rendesse conto e il pizzico l’avrebbe fatta scoppiare di certo; fosse stato qualche sconosciuto a permettersi un gesto del genere, sarebbe stata capace perfino di dargli uno schiaffo.

    Ma erano i suoi fratelli e scoppiò a ridere a sua volta.

    Maleducato, villano! Non ti permettere più, sai? disse a Vittorio, quasi seria. Stava aggiungendo perché, se no, lo dico alla mamma ma si trattenne. Ora era una signorina, si sarebbe difesa da sola.

    Allora, come va? aggiunse subito, dimenticando lo scherzo e curiosa di sapere del nuovo avvenimento. Si rivolgeva a tutti e due ma particolarmente ad Aldo che era il più vecchio e parlava meno a vanvera. Non che Vittorio non sapesse ciò che diceva però, spesso, portato dalla facilità di parola, si lasciava andare a bei discorsi, perdendo di vista il succo del problema.

    Rispose Vittorio, infatti, più pronto.

    Bene, bene… insomma, quasi. Lavoro ce n’è e noi ci diamo da fare. Io dico che ci tengono.

    Lo penso anch’io. – aggiunse brevemente Aldo. Fece una carezza sulla testa alla sorella, prendendole il canestro dalle mani. – Un po’ leggerino, eh?

    Avevano sempre fame, quei due.

    Mangiate quello che c’è. – ordinò, adesso che era grande. - Devo correre via; la mamma aspetta di sapere qualcosa.

    Non era il primo lavoro dei due giovani ma questo pareva il più serio, quello che prometteva maggiori garanzie per il futuro. La Ditta era grande abbastanza e anche se avevano iniziato come apprendisti, la prospettiva di imparare un mestiere, esisteva davvero.

    Aldo e Vittorio salutarono la sorella con un gesto della mano, prima che girasse l’angolo di Via Tolpada. Si sedettero sul timone del carro che serviva a trasportare la carte e scoprirono il canestro: minestra di fagioli, uova sode, radicchio e una fetta di polenta abbrustolita. C’era anche una mezza bottiglia di vino, una foresteria per il loro primo giorno di lavoro in città. Non c’era da illudersi, però, non sarebbe andata sempre così.

    La mamma aveva messo l’aceto in una boccetta a parte, in modo che il radicchio non si lessasse per strada.

    Aldo mangiò piano, masticando meticolosamente, più per non distrarsi dai suoi pensieri che per la necessità di una dieta corretta. Vittorio mischiò tutto: fagioli, radicchio, uova e sopra, una bella spruzzata d’aceto. Mandò giù di gusto e in fretta, poi aspettò che il fratello finisse. Avrebbe ruttato con piacere ma, fratello o non fratello, queste erano manifestazioni non permesse a casa loro, se non con una mano davanti alla bocca e possibilmente, senza far rumore. E allora, che gusto c’era?

    Aldo ci stava mettendo un sacco di tempo e lui si annoiava. Avrebbe scambiato volentieri il vino con l’aceto, per vedere se suo fratello si scuoteva. Forse neanche se ne accorgeva; era talmente distratto da non notare la differenza però poteva arrabbiarsi davvero e allungargli un cazzotto, magari per ridere, ma tanto pesante.

    Soffocò la voglia di muoversi; in ogni modo doveva fare qualcosa. Non gli restò che mettersi a parlare.

    Tra noi, sul serio, come ti sembra ‘sto lavoro?

    Aldo ci mise un momento, prima di mettere a fuoco che stava parlando con lui, poi stette ancora a pensarci su un tempo che, come sempre, a Vittorio pareva interminabile. A seconda dell’urgenza che lo prendeva, a volte pensava che suo fratello fosse un filosofo, altre... un poco indietro di comprendonio.

    Non so, - si decise a dire Aldo – la questione non è la mancanza di lavoro. Qua dentro ce n’è per tutti: hanno troppo bisogno di gente. Noi non ci tiriamo indietro, se si tratta di faticare, per cui non dovremmo aver paura di niente. Dopo tutti i lavoretti da poco che abbiamo fatto qua e là, questo è il primo che mi va bene sul serio. Potrei farlo tutta la vita. Mi piace.

    Tutta la vita… beh, andiamoci piano! Staremo a vedere… lavorare in machina piace anche a me, però, tutta la vita… vedremo.

    Aldo guardò il fratello con una certa preoccupazi0ne. Non era mai tranquillo. Sempre lì ad agitarsi; chissà cosa cercava.

    Oggi – continuò Vittorio – mi hanno fatto pulire solo i cilindri ma presto lavorerò proprio in macchina. Me l’ha detto Severin.

    Avevano avuto il posto alla Storer, proprio perché Severin era un amico del loro padre. Molto lavoro in giro non c’era e per dei ragazzi senza esperienza, con qualche anno di scuola ma niente più, non sarebbe stato facile trovare un posto con qualche prospettiva. Ma Severin aveva parlato a Filippini che era il proto e questi aveva preso i figli di Toni che, anche se era socialista, era un uomo onesto e lavoratore. Filippini lo sapeva bene e aveva preso su i suoi figli. Non si arrabbiò nemmeno che il favore gliel’avesse chiesto Severin e non Toni stesso, perché sapeva che Toni non avrebbe domandato niente a nessuno.

    Questa era un’idea di Severin solamente.

    Aldo lo avevano messo a scomporre. Prima aveva sistemato nel casellario le righe, le mezze righe, i punti da otto, da quattro poi, prendendo tra pollice e indice una riga di piombo, aveva lasciato cadere i singoli caratteri nei rispettivi scomparti, con attenzione e spesso riprendendone in mano qualcuno, per controllare se li mollava giù correttamente.

    Fare il tipografo gli pareva un buon lavoro.

    Comporre, penso, mi piacerà. Si, il lavoro mi va. Mi par bene. – tacque qualche attimo - C’è però il discorso della tessera…

    Se abbiamo la tessera? Severin l’ha chiesto anche a me. Gli ho detto di no. Dice che così è più difficile che ci tengano… potremmo anche iscriverci, cosa ne dici?

    Al partito fascista? No. Rispose laconico Aldo.

    Capisco che il papà si seccherebbe, ma dobbiamo pur lavorare, se vogliamo guadagnare! rispose Vittorio.

    Seccarsi? Non si seccherebbe, ci piglierebbe a calci in culo, ecco tutto. Tra l’altro, non è la prima volta che mi fanno questi discorsi e sono stufo di sentire che ci vuole quella maledetta tessera dappertutto!

    Vittorio stette zitto. Aldo non aveva torto ma, in fondo, cos’era una tessera? Una formalità e nient’altro. Se bastava quella per restare…

    Non poté chiarire il concetto a suo fratello: suonava la sirena. Mancavano cinque minuti all’una.

    Il cavalier Storer però non doveva tenere molto alla famosa tessera perché, ne’ Severin, ne’ Filippini ce l’avevano e i due ragazzi non se ne preoccuparono più; intanto stavano imparando il mestiere. Il proto sembrava contento di loro, così almeno andava dicendo al cavalier Rossetti, il direttore, un giorno che questi lo chiamò in mezzà.

    Bene, bene, mi fa piacere. Ce ne sono pochi di giovani che hanno voglia di lavorare, al giorno d’oggi. Di questi tempi, in stabilimento fanno tutti i socialisti: meno ore, meno lavoro, più soldi… Il bastone ci vuole, altro che! Comunque non importa, se non hanno voglia di fare il loro dovere, qui non ce li vogliamo, eh Filippini?

    Sicuro cavaliere, lavorare bisogna. Comanda altro? tagliò corto Filippini. Lui, il direttore, l’aveva visto sempre lavorare poco: affari suoi e della sua coscienza professionale. Però, in passato, almeno, se ne stava tranquillo; si limitava ad approvare caldamente le idee – tutte - del vecchio padrone. Adesso diventava sempre più fascista.

    No, non c’è altro… ah, per quel lavoro per il Circolo degli impiegati, me lo faccia al più presto, mi raccomando. Cosa vuole, è un piacere che mi hanno chiesto.

    E’ in macchina. disse Filippini seccato. L’ordinativo gli era arrivato appena il giorno prima e voleva già il lavoro fatto.

    Ma va a farti un brodo. Pensò. Cercò di andarsene in fretta, prima che il direttore lo richiamasse.

    Filippini!

    Porca malora, - mugugnò il proto - cosa vuole ancora?

    Scusi Filippini, una cosa importante. Sa mica se i due nuovi… i figli di quel Toni, quell’anarchico, sa mica se si iscrivono al Partito?

    Filippini, insolitamente, stava per bestemmiare. Si trattenne a stento.

    No, - rispose brusco – non lo so e non mi interessa. Non credo sia anarchico. Posso andare adesso?

    Uscì sbattendo la porta. Non lo sopportava più, quel tanghero. Ma che lo chiedesse a loro, se voleva interessarsi a certi particolari! In ogni modo, i figli di Toni diventare fascisti? Aveva grossi dubbi in proposito.

    . . .

    Quel viaggio in città Alvimar dovette rifarlo molte volte. Oramai, i ragazzi lavoravano là da un bel po’.

    Col passare del tempo il canestro s’era fatto meno pesante. O lei più forte. Fatto sta che la passeggiata - tale le sembrava ora - si faceva sempre più piacevole. Non rischiava nemmeno di diventar monotona: a parte lo stradone, che era sempre lo stesso, gli itinerari per arrivare in Via Tolpada se li sceglieva lei, variandoli di volta in volta.

    Le case erano rare fino alla barriera; una ogni tanto, come se avessero interesse a restare isolate. Tra le mura di cinta ed il fiume, invece, sbocciava tutto un contorcersi di viuzze che faticavano a farsi spazio in mezzo a palazzi che a lei apparivano belli, anche i più cadenti, confrontati con le misere casette del suo borgo.

    Qualche villa si ergeva a Sant’Antonino, ma isolata, sprofondata nel verde e nella riservatezza dalla quale poco o nulla emergeva, nemmeno il chiasso dei bambini che pure l’abitavano. Anche dalla parte di SS.Quaranta, dove un tempo c’erano gli orti, avevano costruito delle villette. Le case dei professori, le chiamavano e infatti, poco oltre sorgeva, addossato alle mura, il Liceo. Eppure per quanto vicini, appiccicati fossero codesti fabbricati, la città rimaneva ariosa, ridente e sempre piacevole si rivelava il girovagare per le sue contrade.

    La ragazza si mise a camminare in fretta, percorrendo i bastioni. L’itinerario nuovo, l’aveva portata più lontano del voluto. Era mezzogiorno e bisognava correre altrimenti i fratelli si sarebbero morsi i pugni dalla fame. Li amava quei due brontoloni: uno scarmigliato nell’aspetto e nell’animo - ma attento a recitare il ruolo nei modi scelti da lui - e l’altro all’apparenza così tranquillo, posato, misurato nei gesti e nelle parole eppure capace di immediati trasporti affettuosi. Alvimar faticava però a confessarsi che qualcos’altro la spingeva ad andare più in fretta. Le veniva irresistibilmente da ridere. Correndo giù per il pendio delle Mura, sentiva traboccare dall’animo suo un’allegria mai sentita. Era una contentezza diversa questa, non di giochi infantili, piuttosto senza motivazioni apparenti; le pareva che il mondo fosse meraviglioso e basta.

    In fondo, una ragione precisa non c’era, a parte il fatto che Gigi le parlava con simpatia o così le sembrava. Cos’avesse il giovane da attrarla in quel modo, non le era ben chiaro, ma era accaduto. Le piacevano i suoi capelli, molti, pettinati all’indietro nell’intenzione ma ribelli tanto che gli stavano come un’aureola. Incorniciavano un volto magro, occhi profondi e un mento che sarebbe stato anche troppo volitivo se una fossetta nel mezzo, non l’avesse addolcito interrompendone la severità. Il fisico asciutto dava l’impressione di una vitalità eccezionale, il che doveva rispondere al vero dato che l’avevano soprannominato ‘argento vivo’, poi diventato per tutti ‘Argento’ e basta.

    La vita era bella con questi pensieri in testa, anche se faceva un caldo soffocante. Alvimar si senti percorrere da uno spasmo leggero all’idea che Gigi sarebbe potuto essere cancelli dello stabilimento, assieme ai suoi fratelli. Lo attribuì alla fame.

    Arrivò in Tolpada che il campanone della piazza aveva appena smesso di suonare mezzodì; era un poco in ritardo.

    Strano, i due maschi sarebbero già dovuti essere al cancello.

    Che mi siano venuti incontro, non vedendomi arrivare? –pensò agitata – Non è giusto farli aspettare, il tempo che hanno per mangiare è già poco.

    Si angustiava per aver cambiato strada stupidamente, senza una ragione. Forse le stavano andando incontro lungo la via che lei avrebbe dovuto percorrere, se non fosse stata così sventata. Dispiaciuta, non tanto per la sgridata che mai sarebbe arrivata, ma per il disagio che procurava ai fratelli, stava per rifare la solita strada nella speranza di incontrarli quando li vide arrivare direttamente dallo stabilimento.

    Il contrattempo non era dipeso da lei.

    Non fece in tempo a rallegrarsene perché, immediatamente, si accorse dei musi lunghi che avevano.

    Cos’è successo? - chiese preoccupata. – Non avranno mica combinato qualche guaio. pensò.

    Ci ha chiamati il cavalier Rossetti. rispose Aldo, stavolta per primo.

    Vittorio sembrava il più arrabbiato dei due e un po’ in confusione.

    Io mi domando come si permette di parlarci così: ma chi si crede di essere? Brutto bastardo!

    Calmati, - disse Aldo – vedrai che Filippini sistema tutto.

    Ma, volete dirmi cosa vi capita? chiese Alvimar, ancora più preoccupata.

    Niente, niente… una vaccata, ecco cos’è! - sbottò Vittorio - Il direttore ci ha chiamato in mezzà, ci ha detto che il Paese è in un momento particolare, un momento nel quale bisogna confrontarsi tra veri italiani, bisogna dimostrare di tenere fortemente al bene della Patria e che… bisogna essere fascisti, insomma!

    In altre parole, - aggiunse Aldo – chi non ha la tessera, la tessera del Partito Nazionale Fascista, se non era chiaro, chi non ce l’ha non lavora. Tutto qua, se ti sembra poco. O fai parte del PNF o vai a casa… ma questo lo dice lui. terminò rivolgendosi a Vittorio per rassicurarlo.

    E cosa vuoi fare? E’ lui che comanda.

    Fino ad un certo punto; non sarà mica più del padrone?

    Alvimar intuì subito la gravità della faccenda; sia che il signor Storer, una volta interpellato, avesse avallato i propositi del cavalier Rossetti, ma anche se avesse sconfessato il suo Direttore, tutto poteva prendere una brutta piega. Nel secondo caso, quest’ultimo, avrebbe potuto rendere assai difficile la vita in fabbrica ai due giovani.

    Non vi ha, però, ancora messi alle strette.

    Cercava di alleggerire la tensione. Avrebbe voluto che evitassero lo scontro diretto, ma sapeva che non sarebbe andata così: orgogliosi come il padre e altrettanto testardi erano quei due.

    E il babbo?

    Alvimar si chiese come poteva prendere un fatto del genere. Meglio non dirgli niente; il loro padre si era già fatto notare per le sue idee e a chi non aveva capito il perché della sua cravatta nera, a fiocco, s’era preso la briga di spiegare cosa ne pensasse del fascismo e del Duce. Con parole sue, naturalmente.

    Meglio non buttare altra legna sul fuoco. Per scherzare, dicevano, gli avevano già promesso l’olio di ricino.

    No ma, io, dal signor Storer, ci vado lo stesso; non accetto ricatti.

    Aldo aveva deciso il da farsi e, presa una decisione, anche la meno conveniente per lui, a nulla sarebbe valso chiedergli di andar cauto. Non lo avrebbe condotto a più miti consigli, nemmeno il fatto che la loro paga era fondamentale per il bilancio familiare; praticamente vivevano solo con il salario dei due giovani, da quando il padre era dentro e fuori di prigione.

    L’aver detto in giro le sue opinioni, oltre alla promessa della purga, fruttava a Toni dei giorni di galera, ogni qualvolta arrivava in città qualche autorità. pericoloso anarchico l’avevano definito e lo sbattevano dentro. Lui, che aborriva ogni tipo di violenza, rimaneva sotto chiave due o tre giorni, onde prevenire, sostenevano, qualche suo proditorio, inverosimile attacco alle Istituzioni. Non accadeva nulla di tremendo; non lo picchiavano né gli facevano altro torto se non quello di toglierli la libertà: passava la ‘politica’, lui prendeva la borsa, sempre pronta con un cambio di biancheria e se ne andava salutando la sua Luigia e i figli.

    Bell’uomo e

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