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Dimmi che ti manco
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E-book250 pagine3 ore

Dimmi che ti manco

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Info su questo ebook

Dall'autrice del bestseller Non tradirmi mai

Second Chance Series

Il cuore trova sempre il modo per indicarci la strada...

Tess è una ragazza testarda. Forte, indipendente, determinata. Completamente sopraffatta dalla responsabilità di dover crescere il fratellino. Ma può farcela. Deve farcela. Perché non lascerebbe a nessun altro il compito di occuparsi di Noah. Ryan è felice della sua vita spensierata. Non ha intenzione di farsi coinvolgere sentimentalmente, perché ha già vissuto una delusione d’amore e adesso che ha imparato la lezione non intende ripetere l’errore. È stata Tess a spezzargli il cuore, e ora il caso la mette sulla sua strada proprio quando lei ha più bisogno di aiuto. Ma Tess non è quel tipo di ragazza e non lo lascerà entrare nella sua vita. Neanche quando Noah comincia ad affezionarsi a lui. Neanche dopo aver trascorso una notte insieme. Neanche quando comincia a innamorarsi. 

«Tutti hanno bisogno di un eroe, e Ryan è proprio l’eroe perfetto per Tess. Caldamente consigliato a chi vuole leggere un romanzo dolce, sensuale e sentimentale.»
L.E. Bross
è lo pseudonimo che la scrittrice di romanzi young adult, Lee Bross, utilizza per la sua produzione new adult. Con la Newton Compton ha pubblicato Non tradirmi mai, primo volume della Second Chance Series. Dimmi che ti manco è il secondo capitolo della serie.
LinguaItaliano
Data di uscita12 dic 2017
ISBN9788822717412
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    Anteprima del libro

    Dimmi che ti manco - L.E. Bross

    Indice

    Cover

    Collana

    Colophon

    Frontespizio

    Capitolo uno

    Capitolo due

    Capitolo tre

    Capitolo quattro

    Capitolo cinque

    Capitolo sei

    Capitolo sette

    Capitolo otto

    Capitolo nove

    Capitolo dieci

    Capitolo undici

    Capitolo dodici

    Capitolo tredici

    Capitolo quattordici

    Capitolo quindici

    Capitolo sedici

    Capitolo diciassette

    Capitolo diciotto

    Capitolo diciannove

    Capitolo venti

    Capitolo ventuno

    Capitolo ventidue

    Capitolo ventitré

    Capitolo ventiquattro

    Capitolo venticinque

    Capitolo ventisei

    Ringraziamenti

    en

    1822

    Questa è un’opera di fantasia. Ogni riferimento a fatti storici, luoghi o persone reali, è usato in maniera fittizia. Gli altri nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono frutto dell’immaginazione dell’autore e qualunque analogia con fatti, luoghi o persone, esistenti o esistite, è del tutto casuale.

    Titolo originale: Whatever It Takes

    Copyright © 2015 by Lee Bross

    First published by Pocket Books, a Division of Simon & Schuster, Inc.

    All rights reserved, including the rights to reproduce this book or portion thereof in any form whatsoever

    Traduzione dall’inglese di Stephanie Cavalli

    Prima edizione ebook: gennaio 2018

    © 2018 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-227-1741-2

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Corpotre, Roma

    L.E. Bross

    Dimmi che ti manco

    Second Chance Series

    omino

    Newton Compton editori

    Capitolo uno

    Tess

    «R accontami di nuovo della mia mamma e del mio papà», mi supplicò Noah.

    Guardai il bimbo che aveva preso il controllo totale della mia vita più di due anni fa e arruffai i suoi ricci capelli biondi. Era giunta l’ora per un altro taglio, ma ancora non riuscivo ad accorciare quei ricci brillanti e lussureggianti. Mi accadeva ogni volta. Avrebbe compiuto quattro anni il mese prossimo, ma sembrava ne avesse quaranta: troppo perspicace per averne solo tre.

    Non era così sorprendente, considerata la vita che aveva avuto fino ad allora.

    «Conosci già la storia». Tirai su le coperte fino al collo e le sistemai bene sul suo corpicino. Aveva deciso di indossare il pigiama con il camion dei pompieri quella sera, il suo preferito. Aveva un buon odore dopo il bagnetto, e i suoi occhi blu avevano uno sguardo assonnato che mi fece venir voglia di accucciarmi accanto a lui e fingere che il mondo non esistesse.

    Il giorno dopo dovevo andare all’Istituto Correzionale di Harnett per vedere mio padre. Ogni sei mesi dovevo fargli rapporto, e ogni tre mesi dovevo combattere contro la sensazione di panico che si annidava nel mio stomaco nei giorni precedenti.

    Avevo solo l’affidamento temporaneo di Noah, il mio fratellino, e ogni volta che vedevo mio padre, dovevo dimostrargli che tutto andava bene, sia a scuola sia finanziariamente. Ogni volta che lo incontravo lo pregavo di lasciarmi adottare Noah permanentemente: dopotutto, papà aveva ancora cinque anni di pena da scontare, e non sembrava si interessasse granché di lui.

    Io sì, ero pronta a fare qualsiasi cosa in mio potere per far in modo che nulla si mettesse fra me e il piccolo.

    Feci un profondo respiro. Odiavo mentirgli quando parlavo dei suoi genitori, ma quando cominciò a fare domande un anno prima, non ero riuscita a dirgli la verità: che sua madre era una ex studentessa di nostro padre e che andavano a letto insieme fino a che lei rimase incinta. La studentessa aveva diciotto anni, quindi mio padre fu ripreso solo verbalmente e fu tenuto tutto nascosto, tranne Noah, che finì a vivere con lui quando, poco prima del suo primo compleanno, la ragazza prese la decisione che non voleva essere madre.

    La seconda volta che accadde, però, mio padre non fu così fortunato.

    Avevo appena finito il primo anno all’Università Brown quando tutto andò in pezzi. Le accuse. L’arresto. Infine… mio padre fu condannato a otto anni di prigione per aver avuto rapporti con una minorenne.

    Quando mio padre andò in carcere, la madre di Noah non volle più il figlio; aveva la sua vita ed era felice, quindi o toccava a me occuparmi di lui o Noah sarebbe andato in una casa famiglia. Fu una decisione facile. Lasciai l’università e Noah divenne la mia priorità. L’unico modo per far sì che mio padre fosse d’accordo con questo piano fu promettergli di portargli ogni sei mesi gli estratti conto della banca e un foglio con i voti dell’università, di modo che potesse vedere che non solo stavo continuando a studiare, ma che prendevo anche ottimi voti.

    Tutto questo mentre lavoravo e mi prendevo cura del mio fratellino.

    Sapevo che mio padre aspettava soltanto che io fallissi per potermi dire: «Te l’avevo detto», e mettere mio fratello in casa famiglia, cancellando così l’evidenza del suo sbaglio e dei suoi problemi. Non sopportava che mettessi Noah al di sopra di ogni cosa nella mia vita, specialmente perché lui mi aveva spinto tanto affinché ottenessi successo. Ci volle tutta la mia forza di volontà per non fargli notare che era stato lui a rovinare tutto, ma non lo feci.

    In fondo aveva lui il controllo.

    Feci un profondo respiro e cominciai a raccontargli la storia come facevo sempre, massaggiando la sua schiena con piccoli movimenti circolari mentre parlavo distrattamente.

    «La tua mamma e il tuo papà ti volevano tanto bene, ma non potevano prendersi cura di te. Conoscevano però qualcuno che poteva amarti più di ogni altra cosa».

    Noah fece un sorriso e puntò il dito verso di me: «Tu!».

    «Sì, io. E ti lasciarono con me. Ora siamo una famiglia e lo saremo per sempre».

    Noah annuì con aria seria, le piccole sopracciglia aggrottate. «Tu sei mia sorella, ma fai tutte le cose che fa una mamma. Questo è quel che mi ha detto Louisa. Mi cucini la colazione, e mi porti al parco e mi baci dove c’è la bua e mi abbracci ogni giorno».

    Mi si strinse il cuore. «Già», riuscii a malapena a dire.

    Noah si accoccolò contro il mio petto, e anche se non lo avevo dato io stessa alla luce era il mio cuore. Era la mia vita. E l’indomani avrei dovuto provare ancora una volta al più grande bastardo che conoscevo che ero in grado di prendermi cura di lui.

    Ma era una coreografia che ero pronta a ripetere ogni giorno per il resto della mia vita, se ciò significava che potevo tenere Noah con me.

    «Sembri stanca. Sei sicura di riuscire a fare tutto? Non vuoi tornare a studiare in un’università vera e prenderti cura di te? Prendere una vera laurea? Imparare a fare un vita dignitosa?».

    Questa fu la prima cosa che mio padre disse non appena presi posto sulla sedia di fronte a lui, nella tetra sala visite. Ripeteva la stessa cosa ogni volta che andavo a trovarlo. Dall’ultima volta che ero stata lì, si era tagliato i capelli, e nonostante si fosse un po’ incanutito alle tempie, era ancora un bell’uomo. Assomigliavo molto a mio padre, con gli stessi zigomi e lo stesso mento, una cosa che odiavo. Avrei preferito assomigliare a mia madre. Era bella, sia dentro che fuori.

    Non c’era giorno che non desiderassi che fosse ancora viva. Se, quell’automobilista ubriaco non l’avesse investita, non sarei mai andata a vivere da mia nonna a otto anni. E se mia nonna non si fosse ammalata, non sarei mai dovuta andare a vivere da mio padre, per il quale, fino a quel momento, era come se non esistessi.

    Mio padre era sempre stato un uomo egoista. Lasciò mia madre quando ero molto piccola per andare a insegnare inglese in un college privato in California. Lei voleva partire con lui. Lui, invece, chiese il divorzio. Era difficile credere che mia nonna fosse la madre di un uomo così insensibile: lei, che era la persona più amorevole che conoscessi, a eccezione di mia madre.

    Fissai mio padre. Aveva gli occhi blu e folte ciglia, e quando sorrideva, cosa che accadeva molto raramente, una fossetta appariva sulla sua guancia sinistra, il che lo faceva apparire più giovane.

    Immagino fosse grazie a questa sua particolarità che era riuscito a sedurre le sue studentesse.

    Mio padre alzò un sopracciglio, aspettando una risposta. Ovviamente non poteva considerare il college pubblico dal quale prendevo lezioni online da due anni come un’università reale. Per mio padre, se non si trattava di un’università prestigiosa, non aveva alcun valore.

    A lui non interessava che studiassi come una pazza mentre Noah faceva il pisolino o quando tornavo dal lavoro la sera tardi. Non gli importava che provassi ad assicurarmi che Noah vivesse un’infanzia felice, nonostante la difficoltà di mantenere tutto sotto controllo mentre dovevo studiare per la laurea.

    Non disse quasi nulla quando gli comunicai che avevo quasi il massimo dei voti di media.

    «No, sono soddisfatta di quello che faccio». Misi la cartellina davanti a me, quella che conteneva la mia vita negli ultimi sei mesi. Odiavo lasciare che mio padre fosse a conoscenza di ogni dettaglio. Ma lui era fatto così: voleva controllare tutto. E io dovevo sottostare al suo gioco.

    «Hai cambiato casa?».

    Il modo in cui me lo chiese mi fece capire che era già a conoscenza della verità. Non avevo voglia di parlarne con lui. I miei occhi si fecero inquisitori.

    «Come fai a saperlo?».

    Mio padre sbuffò, e disse: «Come se potessi credere a quello che mi racconti solo perché vieni da me con questa cartellina elegante. Ho qualcuno che ti controlla. Che mi dice come vanno davvero le cose».

    Sentii la rabbia crescere dentro di me. «E allora perché dobbiamo fare questa sceneggiata?», risposi, facendo riferimento alla cartellina con un gesto vago. Se sapeva già tutto, allora questo controllo a cui mi sottoponeva ogni sei mesi era una farsa. «Per ricordarmi chi è che comanda?».

    Non mancai di notare l’espressione di soddisfazione balenare sul suo volto. È sempre stato così. Lui mi diceva cosa dovevo fare e io lo facevo. Non perché volessi, ma perché dovevo. Non mi aveva mai dato la possibilità di fare scelte con la mia testa, ed era tuttora così.

    La rabbia, stavolta, fu seguita dal panico. Due mesi prima ero stata costretta a usare una buona parte dei miei risparmi per cambiare i freni della mia Honda, e in quella stessa settimana avevo anche dovuto pagare la rata del college. Avevo davvero poco da parte ora, e lui sapeva che avrei avuto bisogno di un po’ di tempo per rinfoltire il mio conto in banca.

    Quella, però, era l’ultima rata, e sarei stata in grado di mettere più soldi da parte da quel momento in poi.

    Stavolta non aprì la cartellina. A momenti non la guardò neanche.

    «Torna tra tre mesi e mostrami qualcosa che valga la pena leggere, o sarò io a prendere delle decisioni al tuo posto, Tess». Quindi, senza neanche guardarmi, si alzò e mise la sedia a posto. La guardia si avvicinò e mio padre se ne andò.

    Rimasi seduta, in uno sbalordito silenzio.

    Mio padre aveva appena minacciato di togliermi la cosa più importante della mia vita, e non c’era nulla che potessi fare.

    Capitolo due

    Ryan

    «P apà», chiamai, mentre bussavo alla porta. «Ti ho portato degli hamburger da quel posticino in fondo alla strada che ti piace tanto».

    Sistemai le buste sul tavolo della cucina e cominciai a togliere i giornali e il piatto che erano rimasti lì dall’ora di pranzo. Almeno quel giorno aveva mangiato qualcosa. A volte tornavo a casa e sembrava che lui non si fosse neanche mosso dalla poltrona, se non per prendere le lattine di birra che poi giacevano vuote tutte intorno a lui.

    Non era una novità.

    Era sempre stato così negli ultimi sei anni, da quando mia madre se ne andò. Non sapevo cosa fosse successo, cosa le fece prendere la decisione che non fossimo abbastanza importanti per lei. Quando ci lasciò, chiesi a mio padre cosa fosse accaduto, ma si rifiutò di parlarne con me, un sedicenne dal cuore spezzato.

    Da allora, smisi di essere un ragazzino.

    Non avevo brutti ricordi di mia madre. Ricordo che i miei genitori non litigavano e non gridavano quasi mai. Lei era la madre con i biscotti appena sfornati quando tornavo da scuola, e la nostra roulotte era sempre pulitissima e profumava di vaniglia e fiori.

    Non credo fosse infelice, ma a ben pensarci, non credo neanche che fosse davvero felice. Non riuscii mai a chiederglielo perché persi ogni contatto quando se ne andò, ricevevo una cartolina da lei solo per il mio compleanno. Ma non c’era il mittente, né un numero di telefono, o un indirizzo email.

    Era chiaro che non mi voleva più nella sua vita, quindi accettai la realtà e voltai pagina. Papà, d’altro canto, si chiuse in se stesso e non ne uscì più fuori. Smise di interessarsi alla sua piccola impresa di ristrutturazioni, che era sempre stata il suo orgoglio e la sua gioia, e cominciai a sostituirlo mentre finivo le superiori. Negli ultimi due anni di scuola, imparai tutto il necessario grazie ai corsi di formazione professionale, e lavorai ogni giorno dopo le lezioni.

    Nel corso dei quattro anni dopo il diploma, avevo tirato su una buona impresa. Mi ero fatto un nome ed ero diventato un punto di riferimento per chi avesse avuto bisogno di fare qualche lavoro di ristrutturazione. Avevo messo da parte abbastanza per andare a vivere da solo; avevo anche pensato di acquistare un appartamento mio, ma quella non era un’opzione fattibile. Mio padre era in quelle condizioni da tanti anni, e aveva bisogno che mi occupassi di lui.

    Così decisi di andare via da dove vivevamo, le Granite Estates. Pensai che il cambiamento ci avrebbe fatto bene, ma papà ebbe una crisi di nervi. Dove si trovava doveva solo pagare l’affitto del terreno perché la roulotte era a suo nome. Non l’avrebbe mai venduta. Puntò i piedi e non ebbi altra scelta.

    Una parte di me si chiese se questo avesse a che vedere con mia madre, ma non glielo domandai.

    Quindi o lo avrei lasciato solo, oppure sarei rimasto con lui.

    Fu così che a ventidue anni ero obbligato a vivere a casa, mentre mi prendevo cura di mio padre.

    Papà ciabattò verso il tavolo con una lattina di birra piena e si mise a sedere. Indossava una vecchia camicia di flanella che avevo lavato il giorno prima e un paio di jeans logori. Aveva delle occhiaie scure intorno agli occhi rossi, un effetto causato dallo stare tutta la notte a guardare la tv. Almeno questa sera prese posto accanto a me per mangiare. Tirai fuori un cheese-burger con patatine e glieli misi davanti.

    «Com’è andata oggi?». Gli feci la stessa domanda che avevo l’abitudine di chiedere a ogni cena, e ricevetti la solita risposta.

    «C’è stato un dannato baccano tutto il giorno. Qualcuno è venuto a vivere nel lotto accanto», borbottò.

    «Credo sia una donna. Appena è arrivata ha appeso un sonaglio a vento. E da allora quella cosa non ha mai smesso di fare rumore».

    Guardai papà. Quella era stata la frase più lunga che gli avevo sentito dire da tempo.

    «Dopo un paio d’ore sono andato alla porta e le ho detto di togliere quella dannata cosa».

    Merda. Ora avrei ricevuto una visita da una vicina arrabbiata a causa della maleducazione di mio padre.

    «Sai che cosa mi ha risposto?».

    Scossi la testa.

    «Mi ha risposto che il mio chi aveva bisogno di essere ripulito e che il sonaglio mi avrebbe aiutato. Quindi mi ha sorriso e se n’è andata. Dannata donna», mormorò. «Non so cosa sia il chi ma il mio sta bene così».

    Mi trattenni dal ridere. Chiunque fosse, mi era già simpatica. Era una vita che papà si agitava solo per i suoi reality in tv.

    Presi un enorme boccone dal mio hamburger e l’accompagnai con una bibita. «Che aspetto aveva?»

    «Capelli neri, arrotolati in una specie di nodo sulla testa. La sua gonna lunga aveva un milione di colori e la sua maglietta continuava a scivolarle sulla spalla. Sembrava una specie di zingara. Quella dannata donna non aveva neanche le scarpe. E braccialetti, da qui a qui», disse, indicando con il dito dal polso al gomito.

    Penso che la mandibola mi arrivò al tavolo. Era incredibile che avesse notato tutti questi dettagli. Avevo costruito un tavolo nuovo con delle sedie un po’ di anni fa e ci aveva messo più di anno per accorgersene. Anche allora disse che quello che avevamo prima andava benissimo.

    «Le hai chiesto il nome?», domandai.

    Papà sbuffò: «Perché diavolo avrei voluto sapere il suo nome?».

    Terminò il suo hamburger, prese le sue patatine e tornò alla sua poltrona. Appoggiò il piatto sulle gambe, reclinò la seduta e si rilassò con un lungo sospiro. Jeopardy!¹ apparve in tv.

    Finii la mia cena e preparai la busta dei rifiuti per portarla fuori. Il secchio era pieno e sapevo che papà non se ne sarebbe curato – non faceva più molto in casa – quindi annodai la busta e uscii per andare al bidone. Si trovava solo a qualche roulotte più in là, e passai davanti alla casa della nuova vicina. La porta era aperta, e riuscii a sbirciare dentro attraverso la zanzariera. L’interno era illuminato come se fosse Natale e un filo di lucine adornava il corrimano delle scale davanti all’entrata.

    Non importava quanto avesse irritato mio padre, i profumi che arrivavano dall’interno erano incredibili. Speziati e dolci, mi venne l’acquolina nonostante avessi lo stomaco pieno. Quando rientrai, il mio telefono vibrò.

    Hai voglia di stare insieme venerdì sera?.

    Shari. Feci un sorriso e risposi subito: Assolutamente sì.

    Shari era la migliore amica di Avery, e Avery era la ragazza del mio migliore amico. Era un po’ che uscivamo tutti insieme, ma io e Shari non eravamo una coppia vera e propria. Io non ero interessato ad avere una relazione, e Shari stava attraversando un periodo di libertinaggio prima di sistemarsi con un figlio di papà.

    Fino a quel momento, però, ce l’eravamo spassata. Solo rapporti occasionali: senza legami, senza aspettative. Solo due persone che si piacevano. Io ero perfettamente felice così, e non avrei mai voluto di più. Avevo visto con i miei occhi che cosa significasse amare un’altra persona. Aveva spezzato mio padre

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