Certe promesse d'amore
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La lettera che pone fine a "certe promesse d'amore" è di Dlilah Széchenyi, pallida e magra fanciulla ebrea di Trieste con la quale il protagonista Aldo, ebreo torinese, condivide i sentimenti e quel “supermercato di utopie” che è il dopoguerra.
Dopo la tragedia e l’orrore, pare aprirsi un mondo di possibilità infinite. Per un giovane ebreo c’è la scommessa del sionismo, di una patria per il popolo errante, Israele, dove immaginare una società nuova. Proprio il crollo di quegli ideali, il sionismo e il socialismo, sono in contrappunto con la parabola amorosa, il tema del libro, scritto con accuratezza musicale e risultato di un raro e severo filtraggio delle parole.
Nella casa di Trieste in cui il protagonista omonimo va ospite d’estate, fra bagni di mare e campeggi, discussioni e baci, giganteggia la figura del magrissimo padre di Dlilah, il medico Giula Széchenyi, ungherese di origini, triestino di adozione, antisionista. La sua malinconica figura, che arricchisce la migliore galleria dei “grandi padri” della letteratura europea, viene evidenziata dalla temeraria stima di sé, da un’arroganza ancor più frequente dell’ira, da un’immagine di terrificante profeta.
Aldo Zargani
Aldo Zargani (19332-2020), scrittore, ebreo sopravvissuto alla Shoah, dopo la guerra ha lavorato alla Rai. Ha pubblicato Per violino solo, tradotto anche in tedesco, inglese e francese, Certe promesse d'amore (entrambi con il Mulino) e In bilico (Marsilio). Tre racconti inediti in italiano sono stati tradotti in Francia con il titolo L'odeur du lac.
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Anteprima del libro
Certe promesse d'amore - Aldo Zargani
Aldo Zargani
Certe promesse d’amore
Romanzo
© 2024 Bibliotheka Edizioni
www.bibliotheka.it
I edizione, maggio 2024
Isbn 9788869349010
e-Isbn 9788869349027
Disegno di copertina: Paolo Niutta
È vietata la copia e la pubblicazione, totale o parziale, del materiale se non a fronte di esplicita autorizzazione scritta dell’editore e con citazione esplicita della fonte.
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Prefazione
Il 2020 è stato l’anno peggiore della mia vita. Cominciò con la pandemia, della quale Aldo aveva scritto a un amico queste profetiche (ma non del tutto ahimè) parole:
Caro Edoardo,
Elena e io… di salute siamo classificati fra i morti presunti perché maggiori di anni 80, ma può darsi che i coronavirus sappiano della nostra vitalità e giovinezza d’animo: lo saprai dalle statistiche...
E adesso ti devi beccare il peggio: la mia vita era tagliata da un colpo d’ascia negli anni Trenta-Quaranta. Adesso è arrivato il secondo fendente, e mi faccio pena da solo, perché questa pandemia ha la stessa potenza della Seconda Guerra Mondiale, e noi la stessa debolezza dei nonni del ‘42. Il colpo d’ascia questa volta taglia fuori il mondo del passato e ci rende incomprensibile il mondo del futuro. Il 20 novembre del ‘42 il nonno Eugenio stava morendo di polmonite, c’erano stati i bombardamenti tutta la notte, e lui ci chiese con un sorriso radioso se eravamo andati a vedere i fochi d’artifizio
.
Quel nonno adesso sono io, ma la notte è buia, tetra e silenziosa, e nessuno fa i fuochi d’artificio.
Prima del coprifuoco mi fermavo ad ammirare San Michele Arcangelo che rinfodera la spada dell’epidemia. Ogni mattina mi accorgo che non l’ha ancora rinfoderata...
un abbraccio Aldo
Per far sapere agli infidi coronavirus la nostra vitalità e giovinezza d’animo, io suggerii di sostituire le impossibili vacanze al mare con la consuetudine già ben rodata alle letture di libri di ogni genere, ma di incrementarla con la rilettura accurata del secondo libro di Aldo, all’insuccesso del quale non eravamo mai riusciti (soprattutto io) a rassegnarci.
Non avevamo mai più letto Certe promesse d’amore. Ci eravamo ripromessi di rileggerlo in futuro per beccarne le manchevolezze, ma il tempo ci era sempre mancato e Aldo non voleva mai trovarlo: pigrizia, pudore, prudenza?
Mai avremmo potuto trovare occasione migliore: una volta tanto, dov’erano le manchevolezze, se c’erano? c’erano, eccome: nella ricerca dei motivi, niente affatto oscuri, non perdemmo certo molto tempo: prima di tutto la fretta, dovuta alla sicurezza che gli aveva concesso l’inaspettato successo del primo libro, poi l’abitudine a uscire dal seminato, a voler dire proprio tutto, e di più...
Ci mettemmo di buon animo a sfoltire il superfluo, valeva la pena tentare di far emergere questo delizioso racconto di un’adolescenza infettata sì da un’infanzia troppo adulta, ma anche e perciò ricca di interessi, di impegno, di amore, di illusioni destinate a infrangersi contro la realtà.
Aldo è morto la notte del 19 ottobre del 2020 e adesso che non c’è più, sento il bisogno di confessarvi una bizzarra scoperta su di me. Quando scrivevo sotto la dettatura di Aldo, ridevo con lui, gustavo tutte le situazioni: ho amato questo libro persino, credo, più di quanto lo amasse lui.
In 65 anni di amorosa convivenza tra litigi e consigli, non avevo mai avuto un solo attimo di gelosia, nutrivo in lui assoluta fiducia. Ebbene, da quando lui non c’è più, mi è scattata una forma di gelosia postuma, come se la smorfiosa si fosse impadronita di una parte di lui che io non ho mai conosciuto: l’animo tenerello dell’adolescente terrorizzato da quel ripudio che io non ho mai nemmeno pensato di infliggergli. C’era una guerra tra i due, in cui lei era dominante, e io invece gli fui sempre complice in ogni battaglia.
Non voglio certo apparire una vittima: di lui io mi vanto di aver conosciuto l’uomo gentile, divertente, innamorato, il compagno di mille avventure.
Elena Magoia Zargani
– 1 –
Fazzoletti di lacrime
Millenovecentoquarantanove.
A Monfalcone, alla frontiera fra Italia e AMG, il Governo Militare Alleato, vicino al vecchio Adriatico accostato ai binari, vicino ai cantieri grandi come promontori, con le gru e i piroscafi mezzi finiti mezzi no, ero già sveglio, sveglio quanto basta per porgere la carta d’identità masticata e sbrindellata ai doganieri del Territorio. Di quello che fu il territorio libero di Trieste, un altro sole glorioso ma effimero.
Dopo la Seconda Guerra, Trieste fu sottoposta al Governo Militare Alleato, in attesa di quel trattato di pace che avrebbe dovuto renderla – così ingenuamente speravo, e non fu l’unico errore politico della mia vita – una città stato, libera e indipendente da tutti.
Avevo dimenticato la notte sudaticcia e squassata, notte di terza classe nella Valle Padana, la fossa dell’estate; forse ricordavo appena il bianco livido dell’alba di De-sen-za-no! Desenzano del Garda!
Ero sveglio ma sognavo. Il lavoro agricolo socialista e l’ebraismo laico, dopo la fine della prima liceo classico, si erano fusi assieme nel torrente di certe promesse d’amore.
Pochi giorni prima, anzi, un’intera vita prima, avevo misurato quanto le lezioni di ebraico antico possano manifestare talvolta influenze preoccupanti sulle fragili menti degli adolescenti.
Durante un seminario socialista sionista, Nicola Erdély, signore elegante, anziano professore, con gli occhi blu e i capelli bianchi sottili che erano stati biondi da giovani, aveva sospeso all’improvviso la lezione sui verbi regolari della lingua ebraica, che sono pochi e strampalati tanto da apparire anch’essi irregolari alla luce delle lingue normali.
Leggevamo la storia amara di Sansone e Dalila, Dlilah in ebraico, e dei capelli tagliati che tolgono la forza al giudice energumeno fino a quando non gli saranno ricresciuti nel bel mezzo del tempio filisteo.
Il professore interruppe come un matto la lettura solo per strillarci riprovazione dei nostri atteggiamenti sfacciattamente promiscui.
La promiscuità che lo indignava al seminario di Bardonecchia era quella ingenua e un po’ criminosa destinata a divenire ben presto normale.
Nel dopoguerra risultava però intollerabile per un uomo d’età, laico, che si era portato dietro da Budapest una bella fetta di moralismo di Kakania, austroungarico cioè.
Una certa Dlilah Széchenyi si era messa d’accordo con me per una burla da fargli, perché gli volevamo impartire noi due una lezione come si meritava: «...a quel vecchio puritano lì, reazionario che non è altro».
Cominciammo così a ostentare davanti al glottologo indignato tenerezze che credevamo di fingere e che pensavamo oltraggiose. (Invece, nello stesso istante della simulazione, divenivano vere).
Noi due, inesperti lubrichi, gli facevamo vedere brividi invisibili che solo noi provavamo, e lui nemmeno ci guardava.
Non ci guardò, e sentimmo, con una sorpresa che tacevamo perché la negavamo a noi stessi, brividi...
Dlilah mi invitò a casa sua a Trieste, per passare qualche giorno al mare, prima dell’apertura dell’anno scolastico 1949-1950 della nostra seconda liceo. Ci saremmo rivisti più volte, io e lei, prima della scuola, era certo.
Le estati sono lunghe, e divengono infinite quando le si affolla, da giovani, di cose strane e impegnative.
In quella eterna estate voci nitide di altoparlanti sulla interminabile linea a vapore Torino-Milano-Venezia-Trieste ripetevano, quando il treno era già partito: Desenzano del Garda! I salti delle traversine urlavano, a me invece che a Gordon Pym: «Dli-lah! Dli-lah! Dli-lah».
Ricordavo, ma non sapevo di ricordare, l’odore triste-dolce del lago – trote luccicanti sotto il pelo dell’acqua, ami, lombrichi come esche – e poi, poco dopo, il profumo putrido del ponte austriaco sulla Laguna.
Invece, dopo i cantieri navali della frontiera, non mi sono accorto mai che il treno pian piano abbandona l’Adriatico e, finita l’immensa pianura, si mette a salire sull’altopiano del Carso, si infila nel panorama grigio di deserto del Nord, polvere infetta di trincea, di silicio e di abbandono.
Quando ci si è di nuovo e da poco accasciati sui sedili, già sazi della monotonia velenosa del deserto e rassegnati ai salti delle traversine – oggi i treni corrono lisci, muti del loro drammatico canto, liberati dal ritmo che sarà relegato agli addii letterari – comincia la disperata frenata che non finisce mai, di stantuffi bloccati, sbuffi di vapore, stridere di ruote nel precipizio blu del fiordo di Trieste, il punto più a Nord toccato dai mari caldi, un grosso dito pollice blu che indica l’Europa centrale ma che, per miraggio ferroviario, sembra un mare nuovo, che giace più giù, molto più in basso dell’Adriatico piatto di Venezia.
Il mio treno del venerdì mattina precipitava verso la settima giornata, già il Sabato.
Chi non è ridotto male, anzi malissimo, come me al terzo e ultimo viaggio, quando il glorioso TLT, il territorio libero, era già un sole malato che morì l’anno dopo nel 1954, è costretto dalla gioia a correre ogni volta al corridoio e tirare giù il vetro. Tirare giù il vetro? Non si può fare oggi: con la confortevole aria condizionata dei vagoni moderni i finestrini sono bloccati. Allora, i treni erano ancora ottocenteschi, i finestrini dei vecchi vagoni fumosi avevano in basso, sul lato inferiore, una lingua di cuoio frusto che si doveva tirare con violenza verso il proprio addome per far precipitare il vetro con fracasso di ghigliottina fra le lamiere untuose del vagone. Tirare, tirare forte bisognava per far abbandonare al finestrino gli stop nascosti arrugginiti e incancreniti dal fumo della vaporiera e delle sigarette. I più esperti mollavano addirittura pugni con la mano sinistra sul finestrino in alto coordinati con le trazioni della destra alla lingua di cuoio in basso. Più l’operazione era efficace, più sembrava uno scoppio d’ira furibonda e insensata. E attenzione a non lasciare le dita negli infetti pertugi stritolafalangi; non appena il finestrino cede all’assalto, staccarsi subito bisogna, con le mani nerofumo alzate in segno di resa. Piombato giù sbadabang il vetro, si può sentire sulle gote la felicità, affondare la faccia nel vento marino fresco, vedere Miramare sotto e più in là il castello di Duino e Trieste grigio-nera a sinistra che appare e scompare fra una galleria e l’altra. Dli-lah! Dli-lah! Dli-lah! e fischi offerti dalla locomotiva per rincuorare gli innamorati smarriti e ansiosi.
Giù, nelle acque del fiordo, l’occhio blu, galleggiano lontane le cannoniere, piccole come schegge di ferro, le navi da guerra della flotta inglese, all’ancora di guardia a ventaglio, che stanno attente come mastini con le prue da Miramare ‘al Valon de Muja. Era lì, sotto il dirupo, la Home Fleet, la flotta imperiale degli oceani sconfinati. Alla fine del precipizio, con l’urlo del vento azzittito dai fischi laceranti del vapore che chiede strada, «per carità-a-a-aa!», c’è la Staziòn tutta nera, magazzino di carbone, pronta a parare i colpi dei treni in arrivo, come un catcher di baseball col guantone di pelle nera.
Il buio della notte passata, il sonno, la pertinace memoria olfattiva, la lenta salita e la ripida discesa nel sole del venerdì mattina congiurano per dare al viaggiatore tramortito l’illusione di essere arrivati in un altro mare circondato da altre montagne.
Un posto mai visto che sembra l’estremo del mondo, ma è invece l’inizio di una vastità dimenticata che fu un tempo il punto finale dell’Impero dell’Est che ora non c’è più.
Trieste non è un inizio: è il cardine di una porta della quale si sono persi i battenti nei cervelli della città, fuori dai gangheri.
Lo dice una scritta gigante, in sloveno, su un muro davanti alla stazione: TRST JE NASA! Trieste è nostra! e lo conferma la risposta, scritta a mano in lettere giganti in dialetto triestino: SE NASA, MA NO SE TOCA! Si annusa ma non si tocca!
Millenovecentocinquantatré. Sul treno per Trieste, al mio terzo viaggio, non vedevo, non sentivo, non aprivo finestrini, correvo disperatamente in fuga lontano da una lettera breve e perentoria, in una busta color crème che aveva incendiato la mia testa, la portineria di casa mia, e forse tutta Torino.
Un addio per sempre, tutto lì, scritto con grafia nitida e sicura, un addio normale, ma non per me, e ancora mi domando perché.
Oh! come sarebbe confortevole, dignitoso, e anche elegante, ricordare il sé giovanotto che apre la busta, legge la lettera lievemente accigliato, non esce dal portone, si volta, riflette, risale titubante le scale con la mano destra sul mancorrente e la sinistra con la lettera aperta di fronte al viso aggrondato, risale passo passo pensieroso, poi si siede allo scrittoio – nel caso mio il tavolo di marmo mortuario della cucina sul quale sono nato – riflette qualche istante, intinge la penna nel calamaio, e, con una mano sulla fronte, si accinge a vergare una breve, mesta risposta!
Non fu così. Con la lettera in mano stropicciata, corsi pigolando come un papero piumarello a Porta Nuova, mi arrampicai sul primo treno per Trieste, che quella volta arrivava a sera inoltrata, chiedendomi continuamente il perché.
Perché, perché, perché? Non lo so, non capisco nemmeno io il perché, certo non ha un altro ragazzo, non lo credo, anzi ne sono convinta, lei non me ne ha mai parlato. Quanto ho pianto, quanto l’ho pregata, perché non ti scrivesse quella brutta lettera
ripeteva la mamma di Dlilah, seduta sul bordo del letto matrimoniale vuoto del terrificante e amato marito Giula.
Nel letto di colui che dirigeva il mondo e ne pativa la responsabilità, mi trovo sdraiato, fetido di treno e in pigiama di gramaglie, col fazzoletto in mano brombo di lacrime e nessuna vergogna di me.
«Non capisco» continuava, mentre agitavo sul cuscino la testa in un ritmico no, fisso in una domanda senza risposta: «Ma perché, perché, perché...». Cercava di bloccare lo spasmo nutans del mio testone, riflesso spontaneo riemerso pari pari dall’infanzia neonatale.
La mamma della ragazza che mi aveva lasciato di brutto per iscritto mi accarezzava il volto per curiosità sua oltre che conforto di me, la curiosità di conoscere le gote blu di barba non fatta.
Insisteva: «non capisco...», e intanto si faceva