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Le isole di Dio
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Le isole di Dio
E-book289 pagine3 ore

Le isole di Dio

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Info su questo ebook

Non è facile mandare avanti il Centro di Ricerca per l’Architettura Sacra, in un mondo a cui del sacro non interessa più nulla. I soldi stanno finendo e al direttore Teo Sangalgan non rimane che inventarsi qualcosa in fretta, possibilmente prima che la sua catastrofica vita privata decida di presentare il conto.
Ma la scoperta di un antico ipogeo, nascosto nel cuore dell’isola danese di Bornholm, potrebbe essere la chiave per completare una ricerca su cui ha investito tutto e ottenere i finanziamenti di cui il Centro ha bisogno per sopravvivere. Sangalgan si lancerà quindi sulle tracce di un gruppo scismatico di monaci domenicani, custodi di una religione rivoluzionaria, costretti a nascondersi dal mondo dalla minaccia di scomunica.
A complicare le cose ci si mette la misteriosa scomparsa di un giovane dottorando, che costringe Sangalgan a investigare sull’isola tedesca di Rügen, mentre i due fedeli assistenti Catia e Davide continuano le ricerche in Danimarca, tentando di mettere da parte le loro rivalità per capire chi li sta spiando.
E quando, sull’isola di Montecristo, un gruppo di ricerca rivale compie una scoperta straordinaria, il destino del Centro si troverà appeso a un filo.
All’alba dell’Era dell’Acquario, tre isole nascondono il seme di una nuova religione. Sangalgan è deciso a battere tutti sul tempo, pubblicare una ricerca rivoluzionaria e salvare il suo Centro di ricerca. E, se rimane tempo, sistemare anche sé stesso.
 
LinguaItaliano
Data di uscita18 mag 2024
ISBN9791280100979
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    Anteprima del libro

    Le isole di Dio - Matteo Corvino

    Il libro

    Non è facile mandare avanti il Centro di Ricerca per l’Architettura Sacra, in un mondo a cui del sacro non interessa più nulla. I soldi stanno finendo, e al direttore Teo Sangalgan non rimane che inventarsi qualcosa in fretta, possibilmente prima che la sua catastrofica vita privata decida di presentare il conto.

    Ma la scoperta di un antico ipogeo, nascosto nel cuore dell’isola danese di Bornholm, potrebbe essere la chiave per completare una ricerca su cui ha investito tutto, e ottenere i finanziamenti di cui il Centro ha bisogno per sopravvivere. Sangalgan si lancerà quindi sulle tracce di un gruppo scismatico di monaci domenicani, custodi di una religione rivoluzionaria, costretti a nascondersi dal mondo dalla minaccia di scomunica.

    A complicare le cose ci si mette la misteriosa scomparsa di un giovane dottorando, che costringe Sangalgan a investigare sull’isola tedesca di Rügen, mentre i due fedeli assistenti Catia e Davide continuano le ricerche in Danimarca, tentando di mettere da parte le loro rivalità per capire chi li sta spiando.

    E quando, sull’isola di Montecristo, un gruppo di ricerca rivale compie una scoperta straordinaria, il destino del Centro si troverà appeso a un filo.

    All’alba dell’Era dell’Acquario, tre isole nascondono il seme di una nuova religione. Sangalgan è deciso a battere tutti sul tempo, pubblicare una ricerca rivoluzionaria e salvare il suo Centro di ricerca.

    E, se rimane tempo, sistemare anche sé stesso.

    L’autore

    Matteo Corvino ha scoperto la sua passione un giorno di tanti anni fa, intrufolandosi senza permesso in un ipogeo paleocristiano del quinto secolo d.C., percorrendone le gallerie a carponi e ammirandone gli affreschi antichi che il tempo aveva quasi cancellato.

    Durante gli studi universitari presso il Politecnico di Milano approfondisce lo studio dell’architettura sacra, si interessa di mistica e sincretismo religioso e impara la modellazione 3D per creare la riproduzione digitale del tabernacolo di Mosè e del tempio di Salomone sulla base delle loro descrizioni bibliche.

    Con il suo primo romanzo Berith – L’alleanza, pubblicato da AltreVoci Edizioni, ha dato vita al personaggio di Sangalgan, ricercatore universitario le cui avventure gravitano attorno ai misteri dell’architettura sacra.

    Italo-tedesco, vive in Baviera con la moglie Silvia e il figlio Elias.

    AltreOmbre

    Matteo Corvino

    Le isole

    di Dio

    Proprietà letteraria riservata

    ©2024 AltreVoci Edizioni srls

    Prima edizione digitale: maggio 2024

    ISBN: 9791280100979

    Copertina realizzata da Andrea Falsetti

    Elaborazione grafica da foto Adobe Stock e Unsplash

    I fatti e i personaggi riportati in questo romanzo sono frutto della fantasia dell’autore. Pertanto ogni somiglianza a persone reali e ogni riferimento a fatti accaduti sono da ritenersi puramente casuali.

    Prego Dio che mi liberi da Dio.

    Meister Eckhart

    I luoghi

    Montecristo

    Ruegen

    Bornholm

    Hammershus

    Prologo

    Agata non riesce a muoversi.

    Le spalle sono incastrate in un restringimento del cunicolo, non sa neanche come ha fatto a farle scivolare fino a quel punto. Solleva la testa per guardare meglio cosa l’aspetta, davanti; nel farlo colpisce la roccia con il caschetto, e questo rafforza la consapevolezza di essere schiacciata in uno spazio minimo. La piccola torcia montata sulla fronte illumina una parete di pietra viscida, a due metri di distanza. Sembra che quella sia la fine del tunnel, che oltre non si possa andare, ma Agata si dice che non è possibile; due persone sono passate di lì, prima di lei. Rimane alcuni secondi a guardarsi intorno, sempre con le spalle bloccate e le braccia distese lungo il corpo, rese ormai insensibili dalla scarsa circolazione sanguigna. Ora pensa di aver fatto un errore a passare per quell’ennesimo restringimento, che è così opprimente da togliere il fiato, ma nessuno le ha spiegato come ci si comporta, come si passa attraverso le fessure di una maledetta caverna. Non dovrebbe essere lì, e basta. Questo pensiero le fa scorrere delle lacrime lungo la guancia, che non può nemmeno asciugarsi, incastrata in quel modo. Sente montare la paura, oltre un livello che teme di non poter sopportare.

    Sbatte le palpebre per asciugarsi gli occhi, e nota che la luce della torcia viene riflessa dalla roccia di fronte a lei, ma non da quella che dovrebbe stare in basso. Muove la testa per inclinare appena il fascio luminoso, e questo si allunga nell’oscurità, senza trovare ostacoli. Capisce che si tratta di un avvallamento. Gli altri devono essere passati da lì, è l’unica via. Con le punte dei piedi riesce a fare presa sul terreno e spingersi in avanti, solo alcuni centimetri, ma quanto basta per sentire la pressione sulle braccia allentarsi. Il cunicolo deve essersi allargato, almeno un poco. Si spinge ancora più in là, fino a che la testa non sormonta l’avvallamento. Ora riesce a liberare un braccio, con un gemito di dolore muove le dita addormentate. Fa presa sul bordo della roccia e continua a procedere, riuscendo a liberare anche l’altro braccio.

    Respira profondamente, cerca di calmarsi.

    Il buio del canale è così profondo da perderci l’anima.

    Oh Dio, perché? Non voglio. Non ce la faccio.

    Si asciuga le lacrime con le mani sporche di terra melmosa che sembra argilla. Sa che non può tornare indietro, non prima di aver trovato uno spazio per girare il corpo. Urla, un urlo di rabbia che rimbalza contro le pareti, vicinissime, che la chiudono in una morsa. Guarda nuovamente il buio che le si apre di fronte.

    Appoggia le mani nell’avvallamento e si trascina fino a liberare il bacino. Non fa in tempo a godersi la sensazione, che la roccia umida e i muscoli indeboliti dalla fatica le fanno cedere la presa. Agata scivola e ruota su sé stessa, andando a sbattere la schiena contro il fondo. Il colpo non è forte, il dislivello è moderato, ma ora si ritrova a pancia in su.

    Impreca. Si costringe a fare un respiro profondo, ne ottiene un rantolo insicuro. Con delicatezza, appoggia entrambe le mani sul ventre; lo accarezza con movimento circolare, tirando su col naso.

    L’unico modo per proseguire è strisciare con la schiena dentro il secondo cunicolo. Questo è appena più largo, ma assai più basso del primo. Così distesa non può vedere come prosegue, allora si spinge con le braccia e con le gambe senza sapere cosa incontrerà la sua testa; procede piano, con un movimento di bacino da bruco ferito. Tutto il suo corpo percepisce che sta passando un altro restringimento, quindi dà un altro colpo di fianchi per infilarci le spalle. Se ne pente subito. Guarda la roccia che adesso sta sopra di lei, a dieci centimetri dal suo naso, respira velocemente, troppo velocemente, sente che il panico sta montando e che questa volta non riuscirà a controllarlo. Le gira la testa e inizia a tremare.

    Grida.

    Una mano estranea, fredda, le scivola sotto le ascelle e le stringe la pelle appena depilata; il grido si spezza in gola. Si sente tirare. La schiena striscia contro il pavimento sconnesso del cunicolo, Agata emette un gemito di dolore quando una pietra le passa in rassegna le vertebre. In un attimo, il sostegno della roccia viene a mancare, le sembra di cadere nel vuoto, ma le mani che l’hanno trascinata continuano a sostenerla. Con una mossa impacciata, in equilibrio assai precario, riesce a posare i piedi a terra.

    «Tranquilla, ce l’hai fatta», dice l’uomo.

    Agata si piega su sé stessa, appoggiando le mani alle ginocchia. Respira.

    «Non… non… Mai più, lo giuro.»

    Torsten le appoggia una mano sulla spalla: «Stai bene? Ti abbiamo sentito urlare».

    Lei si raddrizza, senza rispondere.

    Il raggio luminoso proiettato dal suo caschetto rimbalza su stalattiti di varie dimensioni, si insinua tra fessure buie, sfiora gli arabeschi di roccia; lo spazio non è ampio, ma confronto alle strettoie attraverso cui è passata, sembra un soggiorno. Si sente po’ meglio; ora, almeno, può starsene in piedi e muovere le braccia. Tocca le superfici brillanti che sembrano umide, ma che al tatto si rivelano perfettamente asciutte, solo incredibilmente lisce e levigate.

    «Siamo arrivati in fondo?», chiede.

    «Sì. O almeno sembra. Non c’è modo di proseguire.»

    «Dov’è Olaf?»

    Torsten si sposta, e le loro torce convergono sulla figura semicurva del collega, seduto su un grosso masso al centro della cavità. Tiene il viso pallido tra le mani, gli occhi chiusi.

    «Ho bisogno di un minuto», dice.

    Non ci sono né insetti né rumori, solo le loro tre figure ansimanti e le voci ovattate che rimbalzano in quella prigione senza vita. Ma potrebbe rimanere in quell’antro per sempre, pensa, piuttosto che tornare da dove è venuta. In quel momento, dubita fortemente di poter fare il percorso al contrario.

    «È stata una pazzia scendere fino a qui», sussurra, rivolta più a sé stessa che agli altri.

    «Non proprio», dice Torsten. «Abbiamo trovato una cosa.»

    1. Monaco

    La sala è piena per metà, il che è già un successo.

    Un successo incredibile, non conosco molte persone che andrebbero con piacere a una conferenza sull’architettura sacra del tardo romanico tedesco. Se proprio devo essere sincero, non ci vado nemmeno io, con piacere. Ma oggi sono io a parlare, quindi non posso esimermi dal salire i due scalini del palchetto dell’aula magna, sorridere alla gente seduta sui banchi a gradoni, e fare un respiro profondo.

    «Siamo abituati a marcare le differenze tra romanico e gotico basandoci su considerazioni di carattere stilistico. I vuoti si amplificano e le pareti, approfittando del supporto strutturale degli archi rampanti, si fanno leggere. Gli archi sono più acuti, i pilastri diventano un fascio muscolare che si spinge fino alle altissime volte ogivali. Certo, accompagniamo le nostre considerazioni con giustificazioni di carattere teologico, dottrinale, ma sappiamo bene che le giustificazioni a posteriori lasciano il tempo che trovano.»

    Con la coda dell’occhio, noto un movimento all’altezza del quinto gradone. Il tipo che sghignazza è Baumer. Si gira verso un collega seduto al banco dietro di lui, che annuisce e ride a sua volta. Provo a ignorarli.

    «E questo lo sapeva anche l’abate Suger, a cui interessava principalmente di avere una chiesa ampia e luminosa, al di là delle sue speculazioni sulla luce divina e tutto il resto. Ma io credo che questa transizione identifichi anche qualcos’altro. Il discostarsi, con forza, da verità teologiche affermatesi negli anni precedenti, che la gerarchia ecclesiastica aveva tutto l’interesse a indebolire e, possibilmente, cancellare.»

    Baumer scrolla la testa, si gira di nuovo verso il collega, ed entrambi ricominciano a ridersela. Davide, che è seduto in prima fila, se ne accorge. Mi guarda preoccupato, poi si mette una mano sulla pancia e fa un respiro profondo, invitandomi a mantenere la calma.

    «Come già sapete, il Centro di Ricerca per l’Architettura Sacra dell’università di Siena ha dedicato molteplici pubblicazioni agli influssi del misticismo, in particolare quello d’impronta renana-Eckhartiana, sull’architettura cristiana. Da alcuni mesi, il centro ha alzato il tiro, se così vogliamo dire, concentrandosi quasi esclusivamente sulla ricerca di quelle tracce artistiche che confermeranno la nostra teoria: ci mancò assai poco all’affermarsi di un cristianesimo completamente diverso. Una religione che…»

    Mi giro verso la lavagna, afferro un gesso grande come un dito e lo scaglio in direzione dell’odioso collega. Lo manco di dieci centimetri, il gesso si frantuma contro il banco del cretino che gli sta dietro, in una magnifica esplosione di polvere bianca.

    «Ehi, Scheißgesicht! Hai intenzione di continuare ancora a lungo? Se non ti interessa, sei libero di andartene.»

    Baumer strabuzza gli occhi e mi guarda come se lo volessi ammazzare. Davide si copre gli occhi con la mano e sembra voler sparire dietro il banco. Se non altro, ora la platea è molto più interessata alla lezione.

    Raccolgo le mie carte dalla cattedra, mentre l’aula si svuota con rapidità. Quando guadagno l’uscita a mia volta, trovo Davide ad aspettarmi.

    «Hai l’ultima conferenza del ciclo domani, a Kassel, poi abbiamo finito.»

    «Ottimo. Non è andata male, no?»

    «C’era bisogno di dargli del faccia di merda? Metà della gente lì dentro era tedesca, non gli è sfuggito.»

    «Se ne dimenticheranno subito.»

    «Come no. Devi imparare a controllarti.»

    Guardo il mio assistente con sufficienza, ma so che ha ragione.

    Il corridoio pullula di studenti e ricercatori, questi ultimi solo un poco meno hipster degli altri, con il caffè della macchinetta sempre in mano e sempre a mescolare, forse l’unico modo per distinguerli dai primi. Ci dirigiamo verso quella stanza che mi hanno riservato a uso ufficio. Davide sorride a una ragazza che gli sorride di rimando.

    «Studentessa o ricercatrice?», chiedo.

    «Ancora non lo so. Finora ci siamo scambiati un altro tipo di informazioni.»

    Entriamo nell’ufficio, non più di dieci quadri, ma dignitosi. Apro la finestra che dà su una delle corti interne dell’università. Fa caldo, sto sudando sotto la camicia di lino. Davide si chiude la porta alle spalle, lancia i raccoglitori con gli appunti sul divanetto di stoffa grigia, su cui si lascia cadere enfaticamente, in uno sfrigolio di carta violata. Tira su le gambe e si sdraia come un paziente in attesa di psicoanalisi, con gesto rapido apre la confezione di una barretta proteica e ne azzanna metà, faticando non poco a tener dentro il boccone, proiettando qualche goccia di saliva in giro.

    Lo guardo scuotendo la testa.

    «Lo sai che ho bisogno di proteine. Mentre parlavi ti ha chiamato due volte il Centro.»

    «E cosa volevano?»

    «Ho detto che ti hanno chiamato, non che ho risposto.»

    «Sei un pessimo assistente.»

    «Stavo ascoltando la tua interessantissima lectio magistralis.»

    Mi siedo a mia volta, appoggio i piedi sulla scrivania. Le conferenze mi stressano. Ne ho fatte a centinaia e, in genere, non ho problemi a parlare in pubblico, ma quando si ha provato il terrore delle parole che muoiono in bocca, che non escono neanche pregando e degli occhi dei ricercatori che ti guardano e si chiedono cosa ti stia succedendo, a cosa sia dovuto il panico improvviso nei tuoi occhi, quando si ha provato questo anche solo una volta, ogni nuova conferenza porta in sé il seme del dubbio. Succederà ancora?

    Il cellulare suona. Sul display compare il numero del Centro di Ricerca per l’Architettura Sacra. Faccio per rispondere, ma proprio in quel momento la porta si apre. La faccia scavata del Magnifico Rettore entra prima del resto del corpo. Davide si ricompone con la velocità di un ginnasta, io tiro giù i piedi dalla scrivania di scatto, e nel farlo urto la bottiglietta d’acqua che precipita per terra. Il tappo parte come un proiettile, mentre sul pavimento si allarga una pozza di Adelholzener. Il rettore la fissa attonito per un paio di secondi, poi sposta lo sguardo su di me: «Sangalgan, la disturbo?».

    «Signor rettore, lei non disturba mai! Però non l’aspettavo, a cosa devo…»

    «Neanche io mi aspettavo che chiamasse un suo collega faccia di merda davanti a trenta stimati ricercatori, ma lei mi ha abituato a questo e altro.»

    «Oh, quello? Ma no, cos’ha capito… Una battuta! Ma, anche lei era alla conferenza?»

    «No, Baumer è venuto a lamentarsi, pretendendo che prendessi provvedimenti.»

    Il direttore si siede sul divanetto accanto a Davide, che è rigido e composto come una scolaretta; se ne sta con le mani sulle ginocchia a studiare intensamente la grande cartina geografica appesa alla parete, come se non l’avesse mai vista prima. C’è un attimo di silenzio, in cui anche il rettore si guarda intorno.

    «Sangalgan, deve imparare a controllarsi.»

    Davide continua a fissare la cartina, ma la sua espressione è eloquente.

    «Questa Università è assai felice di averla nel corpo docente, come del resto è felice di collaborare con il suo centro, ma si ricordi che lei è un esterno. Posizione precaria. Stia attento ai passi falsi. Mi sono spiegato?»

    «Perfettamente.»

    «E poi, è un anno che l’unica cosa che pubblicate sono contributi a ricerche altrui. Dov’è questo fantomatico paper sullo scisma all’interno dell’ordine Domenicano? Non aveva detto che seguiva una pista in Svezia?»

    «Danimarca. Ci stiamo lavorando. A dire il vero, abbiamo riscontrato palesi similitudini…»

    Il rettore mi tronca con un gesto della mano: «Lasci stare. Piuttosto, cerchi di non offendere nessuno domani, alla facoltà di architettura di Kassel. Ogni volta che lei si comporta in modo strano, è l’università a farne le spese, prima di tutto. Pensano: "Un professore della TUM ha tentato di ammazzare un collega con un gesso"».

    «Non si preoccupi, sarò esemplare.»

    Il rettore si alza. I pantaloni gli scivolano dritti sulle lunghe gambe, appesi come su un attaccapanni, la figura longilinea e il viso affusolato ricorda Indro Montanelli e incute rispetto. Apre la porta, fa per uscire, poi si gira verso Davide: «Lei chi è?».

    «Nessuno. Anzi, non dovrei nemmeno essere qui.»

    Il rettore lo fissa per un momento, poi guarda me, e dall’espressione sembra chiedersi come il massimo livello di istruzione scolastica abbia potuto cadere così in basso. Esce, lasciandosi la porta aperta alle spalle.

    «Non dovrei nemmeno essere qui», dico a Davide. «Ricordami perché ho usato i fondi del Centro per assumerti.»

    «Perché sono il miglior ricercatore che tu potessi trovare.»

    Di nuovo il cellulare suona, di nuovo il Centro.

    «Sangalgan.»

    «Sono Catia. Finalmente hai risposto.»

    «Avevo una conferenza, finita un quarto d’ora fa.»

    «E quel cretino di Davide non poteva rispondere? Cosa te lo porti dietro a fare?»

    Catia non è di buon umore. Non che lo sia mai stata, da quando la conosco.

    «A proposito, bentornata. Come è andato il tuo viaggio-studio?»

    «Mmm, niente di speciale. Senti, il proprietario del sito a cui volevi accedere, quello in Danimarca, come si chiama quel posto…»

    «Vuoi dire Østerlars, Bornholm?»

    «Esatto. Ha detto che ti lascia entrare, se sei ancora interessato.»

    «Porca t… Questa è una notizia fantastica. Ma sei sicura? Com’è che ha cambiato idea?»

    «Non gliel’ho chiesto.»

    «È un mese che ce lo lavoriamo e non ci ha degnato di una chiamata, adesso si sveglia e ci lascia entrare? Così, out of the blue

    «Esatto.»

    «Non ti sembra strano?»

    «Semplicemente, non mi interessa. Ti sto solo riferendo il messaggio.»

    A volte Catia può essere insopportabile. Di solito è odiosa.

    «Catia, questa è una gran cosa. Lì sotto ci sono, ci potrebbero essere, le conferme che cercavamo. Capisci?»

    Davide alza la testa, mi guarda e aggrotta le sopracciglia. Ho risvegliato l’arrivista che è in sé. «Østerlars?», chiede sottovoce.

    Annuisco.

    «Senti, ti ha detto quando ci lascia entrare? Posso andarci già all’inizio del mese prossimo. Prima torno giù a Siena, preparo la roba e mi organizzo per bene. Dovrò fermarmi almeno un paio di settimane, a Bornholm, per fare le cose come si deve…»

    Davide allarga gli occhi, mi fa segni con la mano, che vogliono chiaramente dire io vengo con te. Rispondo alzando il dito medio.

    «Richiamalo e digli che sarò su per il 3 o il 4 del prossimo mese. E ringrazialo!». Faccio per metter giù, ma la voce di Catia mi raggiunge una frazione di secondo prima.

    «Ha detto che devi andare lì subito.»

    «Come?»

    «Devi essere lì entro giovedì, o non se ne fa niente.»

    «Giovedì è dopo domani! Ma perché?»

    «Non gliel’ho chiesto.»

    «Come non… Ma cosa stai dicendo?»

    «Senti, il contratto di ricerca che mi hai intestato, come lo vogliamo usare? Per farmi fare la segretaria? Arrangiati.»

    «Oh Catia, sei proprio…»

    La chiamata viene interrotta. Stizzito, lancio il cellulare sulla scrivania, che scivola lungo la superficie fino a raggiungerne il bordo e rovinare per terra, con un tonfo plastico misto schizzi di Adelholzener. È appena rientrata da un viaggio-studio – definizione sua – di due settimane. In Francia, se ricordo bene. Non mi sembra che l’abbia aiutata a rilassarsi.

    Davide se la ride e scuote la testa.

    «È proprio una stronza.»

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