Il canto della Fenice. Il libero jazz di Jeanne Lee
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Info su questo ebook
Questo libro ricostruisce l’entusiasmante storia artistica e umana di Jeanne Lee (1939-2000), una donna poliedrica e raffinata che, in vita, non sempre ebbe il meritato riconoscimento. Arricchiscono il volume le interviste a due dei più noti jazzisti italiani che collaborarono con lei, Paolo Fresu e Enrico Rava.
L'AUTORE. Gabriele Guglielmi è cantante, esperto in vocologia artistica, didatta e direttore corale. Diplomato in Canto Jazz presso il Conservatorio “A. Vivaldi” di Alessandria e laureato presso l’Università di Genova in “Informazione e Editoria”. Ha lavorato alternando progetti in piccole e grandi formazioni jazz/pop a partecipazioni in spettacoli di prosa o di teatro musicale. Dirige diverse realtà corali (gospel, pop, musical) e svolge attività come insegnante di canto per enti, associazioni e scuole nella provincia di Alessandria. www.gabrieleguglielmivoce.it
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Anteprima del libro
Il canto della Fenice. Il libero jazz di Jeanne Lee - Gabriele Guglielmi
INDICE
Copyright
Informazione sull’Autore
Brevi cenni sulla vocalità nel free jazz
La voce ritrovata
1. Una e tante Jeanne
Jeanne Lee in breve
Primi passi
Una voce fra terra e cielo
«Canta con la luce»
Un approccio interculturale e multidisciplinare
2. Suono nuovo
In principio era il duo
«The Newest Sound Around»: guida all’ascolto
1963: viaggio in Europa
Il tesoro musicale riscoperto
3. Incontri d’avanguardia
Il richiamo della danza e delle parole
Nessuna routine
Jeanne e Gunter Hampel
Jeanne e Archie Shepp
Jeanne e Sunny Murray
Jeanne e Marion Brown
Jeanne e Carla Bley
Jeanne e Anthony Braxton
Jeanne e Rahsaan Roland Kirk
Jeanne e Enrico Rava
Jeanne e Gracham Moncur III con la Jazz Composer’s Orchestra
Jeanne e Andrew Cyrille
Jeanne e Bob Moses
Jeanne e Cecil Taylor
Jeanne e Marcello Melis
Jeanne e l’avanguardia extrajazzistica
4. Nessun viaggio / Solo una danza
Forme estese
Respiro condiviso
Naturali affinità
5. Ritorno al duo
Fuori da una nuvola
Nel tempo dell’anima
Fino alla fine
6. La rottura dolce di Jeanne
La musica è teatro
Creare l’unità
7. Conversazioni intorno a Jeanne e al free jazz
Intervista a Paolo Fresu
Intervista a Enrico Rava
Ringraziamenti
Bibliografia
Discografia
Gabriele Guglielmi
IL CANTO DELLA FENICE
Il libero jazz di Jeanne Lee
Con interviste a Paolo Fresu e Enrico Rava
Logo LeMus EdizioniQuesta pubblicazione è la versione aggiornata e ampliata di Il canto della Fenice. Sulle tracce di Jeanne Lee, tesi di laurea di Gabriele Guglielmi (Conservatorio A. Vivaldi
di Alessandria, a.a. 2021-2022).
© 2024 LeMus Associazione
Gabriele Guglielmi
Il canto della Fenice. Il libero jazz di Jeanne Lee
Con interviste a Paolo Fresu e Enrico Rava
Le traduzioni dei testi dei brani di Jeanne Lee e delle citazioni bibliografiche sono di Gabriele Guglielmi
I edizione digitale giugno 2024
ISBN 9788831444-347
Basato sull’edizione cartacea ISBN 9788831444-330
Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta o trasmessa in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo elettronico, meccanico o altro senza l’autorizzazione scritta dei proprietari dei diritti e dell’editore.
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GABRIELE GUGLIELMI è cantante, esperto in vocologia artistica, didatta e direttore corale. Diplomato in Canto Jazz presso il Conservatorio A. Vivaldi
di Alessandria e laureato presso l’Università di Genova in Informazione e Editoria
. Ha lavorato alternando progetti in piccole e grandi formazioni jazz/pop a partecipazioni in spettacoli di prosa o di teatro musicale. Dirige diverse realtà corali (gospel, pop, musical) e svolge attività come insegnante di canto per enti, associazioni e scuole nella provincia di Alessandria. Maggiori info: gabrieleguglielmivoce.it
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Buona lettura e buon ascolto!
A Jeanne e alle voci libere.
—
Alle mie tre G.
Brevi cenni sulla vocalità nel free jazz
In un recente saggio dedicato alla vocalità nel free jazz, l’autore Chris Tonelli afferma: «Gli spazi offerti dal free jazz sono spesso spazi di incontro, spazi di ricerca. Lì incontriamo gli altri, ma incontriamo anche parti di noi stessi e dei nostri strumenti che prima non conoscevamo» (TONELLI 2020, p. 1).
Il free jazz dunque non solo ha invitato tutti gli strumentisti a esplorare, guidati da un principio di libertà, al di fuori delle forme precostituite della musica (strutture, schemi armonici, sequenze ritmiche, ecc…), ma ha anche ampliato il ventaglio dei suoni utilizzabili e fino ad allora esclusi dalla musica occidentale. Per i cantanti, nello specifico, questo ha significato un ricorso sempre più massiccio a suoni che non avevano le loro radici in un’idea di tonalità o di melodia da un lato e di significato dall’altro. Una apertura alle infinite possibilità timbriche che la voce poteva offrire, travalicando un concetto assoluto di estetica e operando in una direzione di astrazione vocale più o meno spinta.
A metà degli anni ’90 Paul Dutton – cantante, scrittore, poeta e improvvisatore – coniò il termine soundsinging
per riferirsi a questa tendenza e agli artisti vocali che intraprendevano questa strada. Interessante il fatto che il termine nacque durante una conversazione con un suo amico che riconosceva una somiglianza fra i suoi lavori e proprio quelli di Jeanne Lee, dicendo: «Anche lei canta i suoni, non è vero?» (ivi, p. 2). Il termine iniziò a essere privilegiato da Dutton in riferimento al suo lavoro perché più onnicomprensivo, includendo così anche tutti quei suoni non esclusivamente vocali e polisemici che il performer free poteva emettere: schiocchi di lingua e di labbra, digrignamento dei denti, fruscio della saliva, sfregamento dei denti, rumori di suzione, ecc. Inoltre, il termine soundsinging si contrapponeva alla locuzione extended vocal technique (tecnica vocale estesa): l’idea che questi suoni potessero essere eseguiti tecnicamente, ovvero intenzionalmente, sminuiva il potenziale creativo del cantante che, secondo Dutton, doveva essere guidato nell’atto dell’improvvisazione da un principio di sorpresa.
Rifiutando di adeguarsi pedissequamente a una tradizione vocale imperniata sulla canzone e sul testo, i cantanti free hanno liberato le loro voci e i loro corpi dalle norme e le consuetudini che li dominavano per aprirsi alla dimensione del piacere dell’esplorazione, simile a quella che hanno i bambini (e che spesso in questi ultimi viene repressa dagli adulti). Per le artiste donne questo processo si è mosso parallelamente a una negoziazione del loro ruolo nel panorama jazzistico, permettendo loro di ritagliarsi una spazio più autentico e liberatorio, lontano dagli stereotipi di genere.
Sempre Tonelli rileva come «i vocalist di free jazz siano stati ampiamente ignorati negli studi sul jazz, sulla voce e nella letteratura musicale sperimentale. Tuttavia, le pratiche vocali del free jazz hanno dato un importante contributo al corpo delle pratiche alle quali ci si riferisce con le etichette di canto
, jazz
e "musica sperimentale» (ivi, p. 16). Infatti la vocalità free si lascia ispirare, trae origine e di conseguenza tende a intersecarsi sia con la tradizione jazzistica e le pratiche improvvisative a essa afferenti (lo scat[1] nello specifico), con la musica leggera,[2] con la musica Occidentale di avanguardia (da Schönberg a Berio).
Questa molteplicità di riferimenti musicali si unisce anche agli stimoli che la vocalità free ricevette dalle nuove tecnologie (registratori a nastro, campionatori e altri dispositivi di riproduzione o di sintesi ed elaborazione del suono) e dalle discipline diverse dalla musica (arti visive, poesia, teatro, scultura, arte concettuale).
Per la complessità e la ricchezza delle sue suggestioni e derivazioni e per la sua portata simbolica, il canto free ha rappresentato dunque un vero e proprio movimento di liberazione vocale
, così come lo definisce in un’intervista il vocalist Phil Minton:
Penso che l’umanità sia stata ingannata in un modo o nell’altro. Nella società cristiana occidentale, ci è stato detto: «Questo è quello che la voce fa». Pensa a come parlano i politici o i preti, ci danno continuamente informazioni su ciò che giusto e sbagliato. Un’oppressione vocale, direi… Siamo stati vocalmente igienizzati… Io penso che la voce umana sia stata soppressa e mi piace pensare che sono parte di una liberazione, del movimento di liberazione vocale. [ivi p. 40]
[1] Lo scat è un’improvvisazione vocale tipica del jazz che fa uso di fonemi privi di senso letterario, a imitazione del suono degli strumenti musicali.
[2] Artisti come i primi rocker di colore – Little Richard, Fats Domino – furono di ispirazione, così come altri artisti del calibro di Muddy Waters, James Brown, Aretha Franklin, Yma Sumac, Miriam Makeba per il loro modo innovativo di utilizzare la voce.
La voce ritrovata
Se non hai un occhio adatto a vedere il Simorgh,
non avrai neanche un cuore brillante come uno specchio per rifletterlo. […]
Lo specchio è il cuore. Guarda nel cuore e vi vedrai la sua immagine.
(Farīd ad-dīn Attār, La lingua degli uccelli)
Il 25 gennaio 2019 veniva pubblicato per l’etichetta A-Side Records uno dei più importanti album di inediti degli ultimi anni nell’ambito della musica jazz. Una doppia raccolta di brani registrati tra la fine del 1966 e l’inizio del 1967 presso gli studi della radiotelevisione belga VRT e rimasti per cinquant’anni dimenticati negli archivi prima di essere riscoperti.
L’album di cui stiamo parlando è The Newest Sound You Never Heard e il suono che non abbiamo mai sentito
evocato dal titolo è quello del duo formato da Ran Blake al piano e dalla voce di Jeanne Lee. I due, dopo un esordio non molto fortunato negli Stati Uniti con il loro primo e più celebre album, The Newest Sound Around (1961), erano stati accolti in maniera più entusiastica in Europa dove furono in quegli anni a più riprese in tour (prima nel 1963, poi nel 1966-67).
Il loro era un nuovo suono
frutto delle più varie influenze musicali, artistiche, culturali del periodo. «Eravamo giovani allora», racconta Blake a Jazziz Magazine qualche mese dopo il lancio dell’album riscoperto. «Io ero un bambino troppo cresciuto, sui 31 o 32 anni, e lei era tre anni più giovane di me. Penso che fummo più che apprezzati in Belgio, ma presto dimenticati. Non avevo idea che questo materiale fosse stato conservato» (WEINBERG 2019, p. 20).
Purtroppo solo Blake ha potuto sorprendersi del ritrovamento. Jeanne era mancata diciannove anni prima, nell’ottobre del 2000, a soli 61 anni a causa di un cancro.
Tuttavia, grazie anche al ritrovamento e alla pubblicazione di queste registrazioni inedite, Jeanne Lee torna a far parlare di sé. Rinasce, come una fenice, la voce, ma anche lo spirito di un’artista che ha fatto della trasformazione e dell’evoluzione una costante del proprio percorso. Continuamente aperta alle suggestioni del mondo che la circondava, alle vicende sociali e politiche, alla collaborazione con altri artisti di diversa estrazione, al dialogo fra le arti. Non è un caso che nel maggio 2021 Jazz Magazine la inserisca nell’elenco delle dieci voci da (ri)scoprire d’urgenza. Insieme alla Lee, artisti del calibro di Abbey Lincoln, Andy Bey, Roberta Flack, Mark Murphy, Lou Rawls, Esther Marrow, Fontella Bass, Helen Merrill, Randy Crawford (DAROL 2021, p. 38-40). «Un’artista – scrive Adam Shatz sul New York Review – che vorresti che tutti conoscessero, ma che vorresti anche tenere tutta per te. La sua voce aveva il timbro e l’estensione di un violoncello e la bellezza di una nuvola; ti avvolgeva come gli scialli che indossava sul palco» (SHATZ 2020).
Jeanne è stata la voce dell’avanguardia del jazz (nera ed europea), ma ha saputo andare anche oltre. Protagonista di una vicenda artistica difficile da etichettare, spinta continuamente da un’urgenza espressiva che fluidamente oscillava fra la musica, la composizione, il canto, la danza, la poesia. Voce del suo tempo, delle battaglie di una comunità che continuava a soffrire la disuguaglianza nonostante le manifestazioni politiche e civili di quel periodo. Artista al servizio delle proprie visioni e di quelle altrui, così da rendere la sua discografia tanto frammentata quanto ricca di suggestioni e di sorprese. Vicina all’underground jazzistico e artistico in generale, quanto alla musica contemporanea di derivazione colta (si veda la collaborazione con John Cage).
Una figura, inoltre, consapevolmente in equilibrio fra i ruoli di artista, di donna e di madre, pronta a giocare con queste etichette e stravolgerle, uscendo dagli stereotipi di genere e dei generi. Anche per questo è importante riscoprirla in un momento come quello attuale in cui, come ricorda Enrico Bettinello sul Giornale della Musica (sull’onda dell’iniziativa #womentothefore promossa dallo Europe Jazz Network a marzo 2021), nel mondo jazzistico si fa più forte la tensione verso una coscienza maggiore della gender balance, quindi verso una progressiva parità di genere nelle musiche creative (BETTINELLO 2021a).
L’avventura di Jeanne inizia in quegli anni Sessanta così tumultuosi, in cui le vicende politiche e sociali negli Stati Uniti e nel mondo hanno condotto a un ribollire di idee, istanze, ideologie. La Rivoluzione Nera raggiunge la maturità attraverso i suoi capi carismatici, si afferma una Nuova Sinistra americana che accresce il dissenso interno negli Stati Uniti, si diffonde la rivolta degli studenti e fiorisce la controcultura underground. Crollano valori, miti e tabù considerati fino ad allora intoccabili.
È in questo fermento che in ambito musicale nasce la cosiddetta new thing, la nuova cosa. Diversi musicisti di colore non si accontentarono più di rielaborare i materiali offerti dalla tradizione del jazz e di rispettare quei canoni estetici che ancora restavano vitali fino al finire degli anni Cinquanta. È difficile individuare l’inizio esatto di questa tendenza. Probabilmente Pithecanthropus Erectus (1956) del contrabbassista e compositore Charles Mingus può essere considerata una delle prime composizioni a uscire fuori dai confini precostituiti, con le sue venature espressioniste, i suoni stridenti, gli strumentisti che si muovono con una libertà selvaggia, come in una moderna giungla urbana. Nello stesso periodo emergeva anche il pianismo percussivo ed energico di Cecil Taylor, che prevedeva evoluzioni in senso atonale. Non si può di certo escludere da coloro che aprirono la strada alla new thing il sassofonista John Coltrane, il quale, già attivo nei complessi di Miles Davis e Monk, arriva alla piena maturità artistica proprio all’inizio degli anni Sessanta. Nel 1960 Coltrane fondò il suo quartetto e successivamente si impose come nuova guida dei jazzmen del periodo, prima attraverso album come My Favorite Things (1961), poi col capolavoro A Love Supreme (1964), che prelude alla sua svolta free con Ascension e Interstellar.
Nel 1960 il già citato Cecil Taylor prese sotto la sua ala il tenorsassofonista Archie Shepp, che avrebbe avuto poco dopo un grande peso nel movimento dell’avanguardia jazzistica. Inoltre approdò a New York dalla California Eric Dolphy (altosassofonista, flautista, clarinettista e compositore), che collaborò con Mingus e Coltrane oltre a prendere parte al gruppo di strumentisti che inaugurò ufficialmente il free jazz, indicandone le traiettorie.
Il free jazz infatti (ovvero l’altra etichetta utilizzata per indicare la new thing del periodo) prende il suo nome dall’album omonimo di Ornette Coleman (1961), vera e propria pietra miliare del genere. Una lunga improvvisazione ad opera di due quartetti (quello di Coleman e quello di Dolphy) che fa della libertà la sua essenza. Libertà dai temi e dalle sequenze armoniche, cioè da quelle regole e convenzioni condivise entro le quali fino ad allora il jazz si era mosso.
Questo distacco dalle convenzioni è anche una presa di posizione politica, una rivolta in musica contro l’oppressione non più tollerabile della comunità afroamericana da parte dell’America bianca, la quale nei decenni precedenti si era anche appropriata del linguaggio musicale nero edulcorandolo e separandolo dalle sue radici ancestrali e dall’afflato libertario che percorre sotto pelle tutte le sue espressioni.
Altra pietra miliare del movimento è We insist! Freedom Now Suite (1960) di Max Roach, manifesto in musica della lotta di liberazione della comunità nera americana. Il titolo è esplicativo: non solo un generico anelito alla libertà vissuto come dramma individuale e introspettivo (come nella Freedom Suite di Sonny Rollins datata 1958), ma una richiesta veemente di giustizia nell’immediato, ora. Un imperativo che si solleva da un’intera comunità. La Freedom Now Suite è un’opera volutamente provocatoria (fin dal titolo, come abbiamo visto, e dall’immagine di copertina ispirata alle rivolte di Greensboro),[3] pensata per smuovere le coscienze e favorire la presa di consapevolezza di un popolo. La suite è infatti composta da cinque brani che ripercorrono idealmente il cammino storico degli afroamericani dalle piantagioni di cotone ai ghetti urbani. Nel progetto furono coinvolti alcuni dei migliori musicisti della scena jazz dell’epoca: Coleman Hawkins, Booker Little, Julian Priester, Walter Benton, James Schenck, oltre a percussionisti africani e caraibici (Michael Olatunji, Ray Mantilla, Tomas du Vall). Non ultima compare la voce di Abbey Lincoln (futura moglie di Max Roach), artista che fece da apripista nel promuovere un nuovo tipo di vocalità jazz e fu di ispirazione per le colleghe di qualche anno più giovani, fra le quali anche Jeanne Lee.
Fin dalla giovinezza Jeanne fu un’anima curiosa e aperta alle contaminazioni, completamente immersa nelle suggestioni del suo tempo, pronta a esplorarle e approfondirle in una prospettiva multidisciplinare che coinvolge suono, voce, parola, corpo, movimento. Non a caso fu vicina anche ai movimenti dell’avanguardia artistica come Fluxus e la sound poetry. In questo modo Jeanne divenne la voce dell’entropia del suo tempo.
Un concetto scientifico, quello di entropia, che indica il grado di disordine di un sistema, derivato dal secondo principio della Termodinamica e poi assunto per la sua rilevanza dalla Teoria dell’Informazione, in merito alla conformazione delle comunicazioni. Per estensione, dunque, è riferibile anche a quei messaggi che hanno una funzione estetica (come quelli artistici). Un discorso che parta dal concetto di entropia per inquadrare la musica di questo periodo, il free jazz nello specifico, è perfettamente ammissibile, come suggerito da Polillo. Infatti esso è convergente con le poetiche dell’intero ventaglio delle espressioni artistiche dell’avanguardia occidentale in generale. Tutte queste infatti si distinguono per la «predilezione per le strutture gracili, vaghe, aperte (nelle quali a volte il livello di entropia è tanto elevato da potersi parlare di quasi-caos), una altrettanto grande ambiguità dei significati, conseguenza diretta dell’apertura delle strutture, il ricorso all’alea