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Coma
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E-book257 pagine3 ore

Coma

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Info su questo ebook

Un popolo Masai, arretrato ed isolato dal mondo, è col tempo divenuto in grado di ingannare la propria psiche al punto da indurla a produrre impulsi che sti- molano determinate cellule normalmente non attive. Abilitate ad apportare le cure necessarie per sopperire anche ai virus più letali.

Su tale scoperta il neurochirurgo Jonatan Caine baserà una delle sue ricerche, poi abbandonata in fase di conclusione. Tale studio viene però portato avanti da altri, che giungeranno a conclusioni ben oltre le sue aspettative.
LinguaItaliano
Data di uscita25 ago 2016
ISBN9788822836496
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    Anteprima del libro

    Coma - Cristopher Mitchell

    30

    Prologo

    Caldo. Non riuscivo a pensare ad altro. Mi sentivo madido di sudore, il cuscino era la cosa più sgradevole, una sensazione di umidità, per altro non rimediabile dato che era già la seconda volta che lo giravo, nell’arco di quelle che mi sembravano essere ore; erano minuti, purtroppo.

    Avrei voluto potermi almeno addormentare per non sentire nulla, mi sarebbe bastata una doccia veloce appena sveglio e sarei stato subito meglio, ma come sopravvivere fino a quel momento? Farla subito non avrebbe avuto senso, tanto sarebbe valso dormire direttamente dentro la vasca, un’idea che forse avrei dovuto considerare più da vicino. Sopratutto data la mia condizione.

    Ero entrato in un ciclo interminabile, mi addormentavo pochi minuti, mi svegliavo, asciugavo le gocce salate di sudore dalla mia fronte aggrottata in una smorfia e guardavo l’ora, mi pentivo di aver aperto gli occhi e mi rigiravo spostando la coperta, tornavo a dormire.

    Tutto ciò ogni cinque, dieci minuti.

    Dopo tre, quattro volte, decisi di tentare la sorte ed alzarmi; mi girava la testa, mi fermai un attimo e rimasi immobile con gli occhi serrati che premevano su se stessi.

    Ripresi a camminare, non vedevo nulla nel buio, nemmeno il pavimento e la vista faticava ad abituarsi.

    La cucina non distava molto, era il luogo che avevo individuato come sede della mia caccia al refrigerio; obbiettivo designato: un qualsivoglia liquido gelato.

    Niente, non vedevo niente, allungavo le mani e non tastavo nulla, sembrò strano, eppure casa mia la conoscevo bene; un corridoio di ingresso dove tenevo un vecchio attaccapanni, subito a destra la cucina, ampia e con una sala da pranzo adiacente, dove avevo ben disposto una poltrona che allora, data la sua posizione vicino alla finestra, sembrava più invitante che mai.

    Proseguendo a ritroso rispetto alla mia direzione di marcia c’era la sala principale, la biblioteca con tutti i miei romanzi preferiti, i libri di Carson e altri trattati.

    Oltre alle due camere da letto e al bagno non c’era altro, il mio vanto era al piano di sopra, dopo lo studio, la zona relax: vecchi cabinati di videogiochi e simili, la filmografia intera di dei miei registi preferiti sopra la quale troneggiava il poster incorniciato di Pulp Fiction, stessa disposizione era dedicata ad altri registi o attori da me amati; il pezzo forte, oggetto di invidia per tutti coloro che entravano in questo mio piccolo mausoleo, era il bar, un piano di legno reperito in un cantiere e rimesso a nuovo dietro al quale c’era un’architettura formata da lastre di vetro sostenute da cavi di metallo tesi a terra e sul soffitto da grossi bulloni, sembrava quasi una scala di corda, su di essa si arrampicavano le mie deliziose bottiglie di liquori, alcune ancora sigillate.

    In fondo era un’accozzaglia di stili differenti, scarso risultato del mio tentativo di improvvisarmi arredatore di interni (fortunatamente nessun mio amico o collega poteva vantare tale area di sicurezza interdetta a mogli e figli, e ciò bastava a renderlo il loro sogno).

    Pensavo alla topografia della mia abitazione per farmi un’idea di dove fossi, curiosa come circostanza, mi colsi intento a immaginarmi visto dall’esterno durante questo breve tragitto camera-cucina, pensai sarebbe apparsa alquanto buffa come situazione.

    Continuavo a muovermi nella stessa direzione, la vista faticava a prendere confidenza con le tenebre e un’aria insolitamente calda mi accarezzava quasi scostandomi leggermente i capelli. Temevo continuamente di andare a sbattere contro una porta accostata o di infrangere il ginocchio contro qualche spigolo.

    Pensai allo spazio percorso e al tempo trascorso. Ma quanto era grande questa casa? Continuavano ad attraversarmi la mente pensieri ridicoli come questo.

    Forse ero in sala, sentivo della polvere sotto i piedi, e considerato che avevo acquistato un aspirapolvere automatico mi sentii un po’ idiota.

    Voltai la testa e proseguii, il mio obbiettivo era cambiato; puntavo ora al bagno, la mia ultima speranza era farmi una doccia freddissima e tornare a letto. A patto di trovare la strada.

    Feci alcuni passi e sbattei contro qualcosa di appuntito, mi bloccai, allungai una mano per tastare ciò che mi ostacolava, solo aria. Ciò che mi aveva colpito era ai miei piedi, alta fino alle ginocchia. Non era una struttura solida, si piegava, sembrava che si muovesse leggermente o almeno vibrava, sobbalzai. Che non sia entrato un animale? Pensai, inorridendo alla sola idea.

    Impossibile. Già dalla forma e dalla consistenza pareva essere qualcosa di diverso, e poi abitavo in città. Ci misi un attimo a comprendere che si trattava di una pianta, ipotizzai che Julia avesse deciso di passare il suo tempo libero allestendo una serra nella nostra vasca.

    Mi balenò un’idea in testa. Che non stia sognando? Non vedevo nulla, polvere che più che polvere sembrava sabbia e decisamente mi trovavo in un luogo che non era casa mia.

    Era decisamente un sogno, tanto meglio, almeno uno dei miei obiettivi, addormentarmi, era compiuto.

    Decisi di rimettermi a letto anche se evidentemente ormai anche quello sarebbe stato solo parte del mio sogno, ci misi un attimo stavolta a tornare indietro, forse perché allora, pensavo, ero consapevole di cosa stesse accadendo realmente. Chiusi gli occhi.

    Mi risvegliai subito, ero di nuovo lì. Stavolta, però, c’era molta più polvere e l’aria calda si era fatta più forte, cominciavo ad essere preoccupato, più che un sogno ricordava un incubo ora. Mi rimisi a letto.

    Ero entrato nuovamente in un loop, non capivo più nemmeno se ero sveglio.

    Aprii gli occhi una terza volta, una luce accecante mi colpii, gli occhi mi lacrimavano, li coprii con una mano e formai uno spiraglio tra le dita. Mi guardai intorno, vedevo due grosse macchie di colore azzurro e arancione.

    La vista mi migliorò, ora era meno sfuocata, vidi un’altra macchia di colore verde.

    Poi finalmente tornai a vedere lucidamente. Mi trovavo in quello che era inequivocabilmente un deserto, nessuna traccia di altro che non fosse sabbia e un arbusto di fronte a me, tutto rinsecchito. Non pareva più essere un sogno.

    Parte Prima

    1

    «Vi preghiamo di allacciare le cinture, tra pochi minuti avrà inizio la procedura di atterraggio.»

    I miei occhi si spalancarono lentamente; impastati e brucianti, cercai di assumere una posizione più comoda sul sedile. Una fitta mi colpì al collo, ero stato fermo nella stessa posizione per troppe ore: quasi ventisette.

    Eravamo partiti alle sei e dieci dall’aeroporto di San Francisco, alle quindici eravamo a New York, dal quale era partito un conto alla rovescia di quattordici ore, fuso orario incluso, fino a Zurigo. Finalmente alle sette eravamo in dirittura di arrivo per il Jomo Kenyatta International di Nairobi, Kenya.

    «Jon.»

    Sbattei le palpebre e mi girai verso la mia compagna di viaggio e moglie, Julia.

    «Tutto bene, amore?»

    Mugugnai qualcosa senza nemmeno accorgermene, stiracchiandomi e deglutendo per inumidire la gola secchissima.

    «Ho dell’acqua nella borsa.»

    «Passamela» risposi.

    Bevvi un paio di sorsi e gliela porsi.

    Julia era sempre preparata a tutto, aveva una borsa che si portava sempre dietro durante i viaggi e nella quale stipava di tutto. Io la prendevo sempre in giro, e tacevo quando invece mi ritrovavo ad avere bisogno di ciò che si portava dietro.

    Ci preparammo a scendere, prendemmo i bagagli a mano e ci dirigemmo verso l’uscita, dove una delle hostess ci salutò invitandoci a fare riferimento alla compagnia di volo in caso di reclami. Avevano tutte la stessa uniforme di un blu elettrico e lo stesso cappello in tinta. Parlavano e si truccavano tutte nello stesso modo e chiunque uscisse dall’aereo poteva essere certo di sentirsi ripetere la stessa frase di saluto.

    Recuperare i bagagli dalla stiva fu un’altro paio di maniche, attendemmo tre giri del tapis-roulant prima di intravedere il primo dei due, e un’altro prima di recuperare l’altro. Una bambina nel frattempo si era pure presa la briga di far cadere dal suo zainetto rosa un pupazzetto con la forma di un maialino dagli occhi a palla vestito con una salopette. Impigliatosi nella maniglia di un’altro bagaglio era strato trasportato via abbandonando la biondina che urlava fragorosomente.

    «Taxi!»

    Ne fermai uno al volo. Una delle compagnie principali del posto dipingeva le sue vetture di bianco lucido tenendo solo i paraurti cromati. Avevano la stessa forma dei più familiari taxi statunitensi ma il colore era decisamente meno appariscente e schermava meglio la luce del sole.

    Il clima era caldo, non era un giorno eccessivamente umido ma il secco contribuiva a mozzarmi il fiato.

    Indossavo una leggerissima camicia di lino bianca e dei pantaloncini marrone chiaro arrotolati, scarpe da ginnastica e un paio di occhiali da sole con la montatura di tartaruga. Julia invece aveva preferito indossare un paio di jeans che dire corti era un eufemismo, i quali puntualmente davano vita alle fantasie mie e dei passanti, una canottiera azzurra sottilissima con le spalline ridotte ad un filo e dei sandali di cuoio che non riuscivo a non associare agli stivali di un gladiatore, per via degli intrecci sulle caviglie e sui polpacci. Persino il guidatore della nostra vettura le aveva rivolto uno sguardo. Un uomo sulla quarantina, capelli scurissimi brizzolati, pelle marrone scuro bruciata dal sole e un vestito che ricordava la moda araba, pantaloni da fachiro e una lunga e larga vestaglia in tinta, con alcuni disegni sulle maniche.

    Non feci nemmeno in tempo a posare lo zaino tra le gambe che si rivolse a me con un enfatico tono ruffiano, "Dove la porto caporale?". Qualcuno avrebbe dovuto spiegargli meglio i titoli coi quali riferirsi ai passeggeri.

    Durante il tragitto non potei evitare di ammirare il paesaggio. Questo fino a che non ci affiancò un convoglio di tir diretto chissà dove.

    Prendemmo la Mombasa Road che costeggiava per un breve tratto anche il Nairobi National Park; uno spettacolo indescrivibile. Era strano sopratutto il contrasto tra la città di Nairobi, che dopo una mezz’ora già si intravedeva distintamente, e il parco. Anche se da lontano si potevano vedere zebre e giraffe che correvano.

    In meno di un’ora fummo in Kuwinda Road, nella prestigiosa zona di Karen.

    Pagammo l’autista che ci scaricò i bagagli fino al cancello, dove non dovemmo attendere per essere accolti.

    «Siete Jonatan e Julia?»

    «Sì» rispondemmo quasi all’unisono sorridendo.

    L’uomo che ci stava venendo incontro era Abasi Qwara. Lo avevo conosciuto anni prima quando era venuto a far visita a Steve, un amico che lavorava con me e che era già stato più volte in Kenya. Ci aveva messi nuovamente in contatto lui e avevamo parlato per telefono.

    Abasi era un uomo alto all’incirca quanto me, spalle larghe, pelle non particolarmente scura ma visibilmente abbronzato. Erano anni che faceva la guida ai visitatori più importanti e agli amici. La sua storia mi era stata raccontata solamente in parte. Per alcuni anni da giovane aveva fatto il bracconiere, ma si era redento in fretta ed era passato sul fronte opposto, combattendo per scongiurare la caccia grossa e il commercio di animali esotici. Molti statunitensi dal portafoglio stracolmo infatti si divertivano a comprarli per esporli durante feste o serate a tema safari, altri invece li facevano impagliare li conservavano come trofeo.

    «Lei e il signor Qwara?» domandò Julia.

    «Esatto ma ti prego di chiamarmi per nome» rispose lui aprendoci il cancello ed invitandoci ad entrare.

    Prese l’altra valigia assieme a me e ci accompagnò fino a casa.

    La villa era magnifica, mura di mattoni scuri e pietra alternati a sezioni di cemento intonacato, entrammo da sotto un porticato dove un’amaca pendeva appesa a due colonne. Abasi l’aveva comprata con il patrimonio dei suoi genitori. Era stato abbandonato da piccolo quando ancora la sua famiglia era povera, il padre si era risollevato vendendo immobili e lo aveva ritrovato anni dopo, quando lui era già più che adolescente. Qwara possedeva ora un piccolissima fortuna ma tirava avanti sopratutto mostrando i parchi e le riserve ai turisti come noi.

    Ci lasciammo cadere sfiniti sulle due poltrone in salotto.

    «Jon, avete fatto buon viaggio?»

    «Abbastanza grazie, è il primo così lungo che facciamo; si sente il fuso.»

    Abasi rise sguaiatamente, per quella che in fondo nemmeno era una battuta. I suoi modi erano rudi ma aveva un fare simpatico e un accento curioso.

    «Steve non mi ha detto quanto vi tratterrete, non ho problemi ad ospitarvi come vi ho già detto, siete amici, ma in settimana mi arrivano altri ospiti da fuori città; spero non sia un problema.»

    «Non si preoccupi, staremo solo un paio di giorni, volevamo visitare il Masai Mara, siamo in viaggio di nozze.»

    «Davvero? Non sapevo che foste sposini! Come mai avete pensato al Kenya invece che all’Europa? Di solito andate tutti lì» chiese continuando a sorridere.

    «Per via dei Masai, sappiamo che qui vivono tribù ferme a secoli fa. Cose così così per noi ci sono solo nei film o nei libri, pensare di vederle dal vivo ci affascinava. Abbiamo fatto tappa a Zurigo.»

    Abasi parlò, facendo il verso a qualche legge del Kenya.

    «Beh, dovreste sapere che in generale non è permesso avvicinarsi troppo alle tribù nomadi, possono essere pericolose

    Finito il teatrino si schiarì la gola e continuò.

    «Ma detto questo non ho problemi a farvi conoscere chiunque vogliate, a dirla tutta se voleste passare la notte nel parco sarebbe un piacere per me.»

    «Quello è permesso in alcune zone ci pare, e anche vedere all’opera alcune tribù» disse Julia.

    «Brava, alcune zone e alcune tribù, sono quelle dedicate ai turisti con sandali e calzini che vogliono fare foto ai leoni e chiacchierare con qualche indigeno pieno di orecchini. Tra l’altro le tribù che vengono mostrate sono membri che si offrono come attrazione e a mio parere è disonorevole. Le vere famiglie vivono nascoste e non sono raggiungibili» rispose Abasi trionfale.

    «Non vorremmo rischiare di metterci nei guai» dissi io guardando Julia per un attimo.

    «Ma quali guai! Qui mi conoscono tutti. Guarderanno dall’altra parte e nessuno ci vedrà. Ora… Julia, Jonatan, vi prego rinfrescatevi mentre io preparo la cena.»

    Lo ringraziammo dell’ospitalità e andammo nella nostra camera per disfare i bagagli.

    «A me piace» disse Julia.

    «Abasi?»

    «Sì, dici che il tuo amico gli ha parlato?»

    «Sicuramente, ha detto che conosce molte cose che le altre guide ignorano, l’ha chiamato apposta.»

    «A te va di passare la notte fuori?»

    Esitai un secondo, l’idea mi affascinava ma non ero ancora sicurissimo di potermi fidare di Qwara.

    «Diciamo di sì.»

    Julia estrasse un accappatoio e si tolse la canottiera; io ero girato e non la vidi.

    «Amore posso fare prima io la doccia?» domandai cercando il caricatore del telefono.

    «Ci stavo entrando io.»

    «Va bene però svelta che ho fame» mi voltai e la fissai, il suo reggiseno bianco ora giaceva sul parquet di legno ai suoi piedi.

    «Possiamo sempre farla assieme, ci metteremmo meno» piagnucolò.

    «Sì, potrebbe essere una buona idea, sì» annuivo velocemente con gli occhi spalancati.

    Più tardi scendemmo a cena.

    Qwara era un cuoco più che discreto, ci rimpinzammo piluccando una lunga serie di specialità che tentò con successo di imitare.

    «Se non siete troppo stanchi ci terrei ad offrirvi un sorso del mio Konyaghi» disse sollevando l’ultimo piatto da tavola.

    Accettammo volentieri.

    «È una miscela particolare, simile al brandy. Normalmente è prodotto con l’orzo ma alcuni partono anche dalla canna da zucchero con cui solitamente si produce la Kenya Cane, una grappa. Quello che ho io contiene anche una base di thè.»

    Ci fece accomodare nel salottino dove quel pomeriggio ci aveva accolti. Ebbi occasione di osservare più accuratamente le pareti che erano piene di sue foto. Alcune lo ritraevano a fianco di animali dalla parvenza poco incline al riaminarsi. Proprio sopra alla finestra era appeso invece un trofeo di caccia, la testa di un cervo. In realtà vi erano molte altre cose totalmente fuori contesto, oggetti provenienti da varie parti del mondo. Una lanterna cinese sporgeva da dietro una libreria intarsiata a fianco della quale era appeso un arazzo ritraente una scena di vita indiana, una donna intenta a tuffarsi in un laghetto pieno di ninfee. Più che un collezionista sembrava un accumulatore seriale, quella casa sarebbe potuta essere un museo.

    «Cosa volete vedere domani?» proruppe lui accasciandosi nella poltrona di vimini.

    «Il parco Masai» replicai.

    Abasi annuì interrogativo.

    Il Masai Mara era una zona nella pianura di Serengeti, nel Kenya occidentale.

    «Vorremo poterli vedere da vicino, le loro pratiche rituali» continuò Julia.

    Qwara ci sorrise. Si alzò e si allungò fino allo scaffale superiore di una credenza, la aprì e ne estrasse una bottiglia dalla forma insolita, ricordava molto un Narghilè.

    Tornò da noi e avvicinò un tavolo di ghisa e vetro sul quale posò sei bicchieri, tre piccoli e tre da cognac.

    «Prego, bevete prima un po' di acqua, bisogna sciacquarsi la bocca da altri sapori.»

    Versò il liquore, era di un color rosso scurissimo.

    Bevve un sorso e finalmente ci rispose.

    «Il Masai Mara di cui mi avete parlato prima è un’attrazione come le altre, ve l’ho detto. Sono oltre trecento chilometri quadri attraversati dal Grand Rift Valley che unisce il Mar Mediterraneo al Sud Africa. La maggior parte della fauna è concentrata nella zona occidentale dove ci sono meno turisti per via della palude. Per quello che interessa a voi dobbiamo spostarci al Serengeti.»

    Julia nel frattempo aveva sorseggiato dal suo bicchiere, mentre io lo avevo quasi finito.

    «Non mi è chiaro cosa pensa di mostrarci» chiese.

    «Quello che vi ho detto, altre cose. Non voglio rovinarvi la sorpresa. Potrete, forse, ammirare veri rituali di passaggio, con cui i ragazzi diventano uomini. I Masai sono originariamente un popolo magico, prevedono il futuro attraverso i sogni, entrando ed uscendo da essi.»

    «Che intende?» i miei occhi brillavano di curiosità.

    «Intendo dire cose che voi non avete mai visto e che non vedrete mai, fidatevi di me, vi prego.»

    Non potevamo fare altrimenti, non sembrava intenzionato a rivelarci nient’altro; aveva una decisa tendenza alla teatralità.

    «Avete sacchi a pelo e tutto l’occorrente per la notte?»

    Non ci mancava nulla, solo una tenda, Abasi si offrì di fornircene una.

    «Domani mattina vi consiglierei di riposarvi, partiremo subito dopo

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