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Liberazione
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E-book99 pagine1 ora

Liberazione

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Liberazione da che cosa? Dai pregiudizi, dalle ipocrisie, dalle false bontà. La prima parte del libro, movimentata e ironica, a volte boccaccesca, descrive la castrazione psicologica di una società, in un piccolo paese del’Italia meridionale, dopo la seconda guerra mondiale, su un ragazzo timido e intelligente, dotato, per sua fortuna o sfortuna, di un marcato spirito di ribellione contro chi ha una concezione medioevale, inquisitoria, della religione e della morale.
Nella seconda parte si parla sempre dello stesso protagonista, diventato ora adulto che, insofferente ancora ai lacci del conformismo e della corruzione, intraprende un viaggio senza meta, più che altro interiore, costellato dei vari episodi che formano (o deformano) questo tipo di società dalla quale egli cerca (invano) di fuggire.
Dunque, benché variegato e dilatato nel tempo, relativo alla vita umana, vi è un filo conduttore che caratterizza il protagonista, sempre in bilico tra genialità e follia, tra realtà e allucinazione, tenace comunque lottatore contro la massificazione e l’appiattimento esistenziale.
Sogno, aspirazioni, utopie e realtà nel libro s’intrecciano e si fondono, creando un mondo nuovo, un mondo in cui tanti vorrebbero vivere e cui comunque leggendolo si ha la sensazione di avvicinarsi.

A.P.
LinguaItaliano
Data di uscita13 lug 2014
ISBN9786050312706
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    Anteprima del libro

    Liberazione - Antonio Pontoriero

    PREFAZIONE

    Liberazione da che cosa? Dai pregiudizi, dalle ipocrisie, dalle false bontà. La prima parte del libro, movimentata e ironica, a volte boccaccesca, descrive la castrazione psicologica di una società, in un piccolo paese del’Italia meridionale, dopo la seconda guerra mondiale, su un ragazzo timido e intelligente, dotato, per sua fortuna o sfortuna, di un marcato spirito di ribellione contro chi ha una concezione medioevale, inquisitoria, della religione e della morale.

    Nella seconda parte si parla sempre dello stesso protagonista, diventato ora adulto che, insofferente ancora ai lacci del conformismo e della corruzione, intraprende un viaggio senza meta, più che altro interiore, costellato dei vari episodi che formano (o deformano) questo tipo di società dalla quale egli cerca (invano) di fuggire.

    Dunque, benché variegato e dilatato nel tempo, relativo alla vita umana, vi è un filo conduttore che caratterizza il protagonista, sempre in bilico tra genialità e follia, tra realtà e allucinazione, tenace comunque lottatore contro la massificazione e l’appiattimento esistenziale.

    Sogno, aspirazioni, utopie e realtà nel libro s’intrecciano e si fondono, creando un mondo nuovo, un mondo in cui tanti vorrebbero vivere e cui comunque leggendolo si ha la sensazione di avvicinarsi. 

    A.P.

    Sogni e legnate

    L’adolescente vive principalmente di sogni. Nandino viveva esclusivamente di sogni. E di legnate. Il cui uso su di lui, figlio della guerra e della cattiva sorte, veniva fatto dai genitori, dagli insegnanti, dal prete, dagli zii. Minati ca crisci, incitavano vicini e parenti, che sui loro figli facevano altrettanto. Ma per Nandino venivano riservati trattamenti speciali: schiaffi se disubbidiva, o se diceva di non voler mangiare (o se mangiava troppo), pedate se veniva sorpreso a sognare ad occhi aperti. E lui sognavo sempre.

    Ma come non rifugiarsi nei sogni se la realtà era così avvelenata? Le fantasticherie erano il suo rifugio; il risveglio l’abbiamo detto.

    E la dose di legnate veniva aumentata se si trattava di questioni amorose.

    La prima dura lezione gli fu impartita quando Pasqualina sollevò una mano sopra la siepe e gli toccò la spalla dicendogli: "Vuoi essere u fidanzato mio?" Figuriamoci se lui avesse detto di no! Con quella continenza forzata, e la repressione cui era continuamente sottoposto, non avrebbe guardato certo per il sottile; e non stava certo a dar peso alle sue lentiggini, o al naso aquilino, o al petto che sembrava piallato. Avrebbe detto di sì persino alla capra di compare Annunziato che, in effetti, dall’altra parte del viottolo lo guardava da tempo con gli occhi languidi.

    La proposta di Pasqualina fu dunque più che provvidenziale. Una proposta però stroncata sul nascere perché, pochi minuti dopo, fu aggredito con pugni e calci da suo padre, un uomo tozzo e quasi calvo, dagli zigomi sporgenti e dalle labbra sottili, che lo picchiò con furore finché non lo vide steso a terra.

    Chisti sugnu cosi du diavolu, soleva dire anche la zia Vincenzina, una donna rimasta zitella e divenuta quasi perpetua per essere sposa del Nostro Signore Gesù, come diceva lei, o per accogliere nel letto preti e frati, come si vociferava in paese. I quali religiosi, che non tralasciavano nulla, andavano volentieri a trovarla a casa, soprattutto quand’era sola; e non avevano paura del freddo o della canicola nel percorrere i lunghi tratti di strada a piedi. Ciò avveniva comunque solo negli anni Quaranta, poi per gli umili fraticelli sono arrivate le Lambrette e, più tardi, le automobili.

    Ma la zia Vincenzina, benché avesse superato ormai i cinquant’anni, compensava i sacrifici dei pazienti servi di Dio ricevendoli con tutta la generosità di cui era capace, riservando spesso loro un posto caldo nel letto, persino a chi non era più tanto giovane e camminava curvo, più sotto il peso degli anni che della fatica.

    Naturalmente, l’accoglienza peccaminosa lasciava dei sensi di colpa nella magnanima zia, ma ad essi rimediava con delle laute offerte. Offerte più che gradite, dal momento che loro andavano a trovarla principalmente per questo, visto che della sua bellezza, un tempo indiscussa, ora rimanevano solo le tracce. E lei sembrava non fare nulla per impedire tale disfacimento: i capelli cespugliosi, i peli sul mento (un ciuffo vi cresceva come innaffiato), la sciatteria dei vestiti ne erano la chiara prova. Per giunta, da alcuni anni andava incurvandosi in avanti e la sua andatura, divenuta oscillante, la costringeva, invece di camminare diritta, a procedere a zig-zag. L’originalità del movimento appariva in tutta la sua evidenza soprattutto quando c’era qualche funerale accompagnato dalla banda. Schierata nelle prime file, lei sembrava marcare la marcia funebre, non solo con la testa, ma con tutto il corpo, dando così vita ad una forma artistica che sfuggiva ai coreografi più esperti.

    E così, i benedetti fraticelli, ogni volta che si recavano da lei, ricevevano prima il suo corpo e poi il pane della famiglia, giacché non viveva sola. I suoi genitori in un primo momento si erano opposti a tale missione, ma poi si erano arresi, consapevoli che qualsiasi lotta sarebbe stata inutile. E poi pensavano che, in fondo in fondo, avere una religiosa occupata a tempo pieno per le questioni dell’Aldilà, oltre ad essere indice di importanza sociale, sarebbe stata una garanzia per qualche beneficio ultraterreno. E così, ogni volta che il nonno di Nandino li vedeva arrivare, da un lato imprecava tra i denti, ben sapendo che avrebbero affondato le mani nella credenza, dall’altro si toglieva il cappello e con un inchino dava loro il benvenuto.

    Questa benefica zia percepiva una pensione d’invalidità, grazie più alle raccomandazioni che alle cattive condizioni di salute, ed aveva quindi tutto il tempo che desiderava per seguire la religione, anzi i religiosi. Oppure faceva lunghe visite a chi aveva la malasorte di essere suo parente o suo conoscente, ai quali portava, diceva lei, la parola del Vangelo. Le soste più lunghe, a volte interminabili, le faceva a casa di Nandino, il quale si chiedeva perché mai il Padreterno si servisse di siffatti ambasciatori.

    E poi la zia Vincenzina non aveva solo messaggi divini da trasmettere. Lei si occupava anche di tutto ciò che accadeva (e di quanto non accadeva) nel paese, blaterando per ore, a volte trafelata, al punto da chiedere da bere solo con i gesti, per proseguire poi con le sue cantafavole, che facevano venire la sonnolenza persino alle mosche, le quali si sentivano sicuramente a loro agio sulla sua pelle.

    Durante quelle logorree a casa di Nandino, ricorreva spesso ad un tema a lei caro: l’ammonimento ai suoi genitori a vigilare sempre sul ragazzo, poiché era stato prescelto da Nostro Signore Gesù per essere un suo umile servo, ovverosia per entrare in convento. E già in cuor suo lo faceva partecipe della sua generosità. Una volta infatti che Nandino stava per salire la scala di legno a casa sua, fermandolo con la mano, gli disse:

    Aspetta, aspetta, salgo prima io. L’aveva fatto per dargli la possibilità di guardarle le cosce, un gesto che provocò nel nipote l’immediato rimescolamento del sangue, con un susseguirsi di vampate sul volto, e la paralisi finale. Spaventata di quella rigidezza, più che altro per paura che il ragazzo avrebbe potuto riferire ad altri quanto era successo, la zia cambiò repentinamente tattica e passò alle intimidazioni, esclamando:

    "Non mi avrai per caso guardato il culo? Sporcaccione! Se lo hai fatto, dirò tutto a tua mamma, anzi a tuo padre. La cinghia

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