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Legami covalenti
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E-book194 pagine2 ore

Legami covalenti

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Info su questo ebook

“Non c’è tregua per nessuno, né serenità durevole. La vita prima o poi incontra il dolore, la sofferenza, come un debito da saldare, un peccato originale da espiare, qualcosa che ci aspetta dopo una festa con gli amici o alla fine di una notte d’amore”.
Questo aveva pensato Libero, il protagonista, dopo aver appreso della madre di Antonio. Il suo è il racconto del dramma di una perdita. Del dolore, di questa condizione umana capace di cambiare radicalmente la vita delle persone. Anche la sua famiglia incrocerà la tragedia, la più drammatica che una madre e un padre possano incontrare nella propria esistenza. Ognuno dovrà confrontarsi con questo triste fatto, con le proprie difese, le angosce, cercando, attraverso vecchie appartenenze e nuovi sentimenti, forme diverse per ridare senso alla vita.
LinguaItaliano
Data di uscita1 dic 2018
ISBN9788829557486
Legami covalenti

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    Anteprima del libro

    Legami covalenti - Giovanni Torri

    Giovanni Torri

    Legami covalenti

    UUID: c855f142-1198-11e9-988c-17532927e555

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    http://write.streetlib.com

    INDICE

    1.

    2.

    3.

    4.

    5.

    6.

    7.

    8.

    9.

    10.

    11.

    12.

    13.

    ...lo so che c’è anche la liberazione, la liberazione tardiva.

    Una reputazione rovinata a torto o a ragione,

    la timidezza, la fatalità delle circostanze, la disgrazia,

    ecco tutto quello che rende gli uomini dei prigionieri...

    Vincent van Gogh (Lettera a Theo)

    1.

    Stavo passando un periodo difficile. Non mi ero mai sentito così impotente di fronte agli avvenimenti che si andavano sviluppando attorno a me, senza che potessi minimamente modificarli.

    Da qualche tempo le cose non andavano nel verso giusto. Sul lavoro, con le commesse che diminuivano. Con gli amici, che quasi non incontravo più, ma soprattutto con mia moglie Antonella, con la quale, dopo la morte di nostra figlia, la relazione stava mutando in qualcosa di insopportabile, trasformando la tolleranza rimasta in silenzi e in una assurda indifferenza.

    Il torpore della sua anima ormai preoccupava tutti e non erano valse a nulla le ripetute richieste del medico di sottoporsi a una visita da un collega psichiatra.

    Il suo stato si sommava al mio che non migliorava e in più occasioni mi ero riproposto di fare un controllo per capire l’origine dell’affanno che ogni sera avvertivo nel petto.

    Antonella era sempre stata una donna graziosa, disponibile all’ascolto di uno come me che aveva qualcosa da dire su tutto. L’avevo conosciuta per caso a una festa da amici.

    Sarah, nostra figlia, non era venuta subito. Dopo il matrimonio avevamo fatto il possibile per quella maternità, sino a trasformare ogni amplesso in qualcosa di diverso dall’attrazione e dal desiderio, riducendolo, più di una sera, a una mera pratica meccanica.

    Grazie ai continui tentativi, in una delle rare notti dove il desiderio pareva avesse fatto il suo dovere, mia moglie, ventiquattrenne, restò incinta e, dopo aver trascorso una gravidanza tranquilla, seguendo le precauzioni che la ginecologa le aveva suggerito, aveva dato alla luce una bella bambina che, dal viso e gli occhi blu, pareva sua madre da piccola in una delle poche immagini che aveva conservato.

    L’avevamo chiamata Sarah, nome scelto da lei che da sempre possedeva una predilezione per quelli biblici. Ci aveva trovato d’accordo entrambi.

    Altri ripresi dai parenti defunti o dalla moda che da qualche anno aveva preso piede con nomi di star del cinema, dello spettacolo o, peggio, di personaggi di qualche serial televisivo, non ci avrebbero mai interessato.

    Quando era restata incinta, dopo che l’ecografia, una pratica diagnostica da poco approdata all’ospedale cittadino, aveva annunciato il sesso del nascituro, avevamo trascorso molte sere alla ricerca del nome giusto.

    Ci sentivamo giovani sposi alle prime armi con le responsabilità di una famiglia che si andava formando. Ma quelle armi, anzi le frecce del nostro Cupido, da qualche mese si erano spuntate, forse a causa dei continui amplessi, ripetuti con l’unico scopo di una maternità.

    Pure l’idea della figlia in arrivo non era riuscita a trasformare l’indifferenza dei nostri rapporti in qualcosa che somigliasse ad un sentimento capace di creare affetto.

    Era come se, in un qualche momento del recente passato, la felicità avesse subito un trauma dal quale non era più riuscita a risollevarsi.

    Il caso gioca spesso con le emozioni, disponendole nei momenti della vita quando più ne hai bisogno: così fu per noi quella bambina, in viaggio per cercare di ridare sostegno a una passione infiacchita e quasi spenta.

    Di ognuno di quei nomi Antonella aveva cercato di rintracciare il posto occupato nelle sacre scritture, la storia e l’etimologia.

    Alcuni avevano un suono molto esotico, decisamente orientale: Gezabel, Atalia, Bezabea, Ruth. Altri, più usuali, da sempre nel lessico comune: Marta, Elisa, Gessica, Michela. E anche Sara. Tuttavia decidemmo di dare a nostra figlia quel nome lasciando l’h finale. Com’era nella Bibbia.

    Attorno ad altri nomi spesso si erano aperte diatribe a non finire, ma Sarah, la principessa, convinse subito entrambi.

    Antonella conosceva molto bene Vecchio e Nuovo Testamento. Da giovane, la domenica, per un lungo periodo aveva frequentato l’oratorio del suo paese, insegnando catechismo; poi quella pratica aveva perso il valore di un tempo e anche lei, dopo che si era trasferita in questa città con i genitori e, soprattutto dopo il matrimonio, pur continuando a frequentare la parrocchia, si era decisa a fare altro, rivolgendo la sua indole caricatevole verso nuove attività.

    Da un po' di tempo, dopo che certe amiche l’avevano convinta, incontrandola ripetutamente la sera a casa nostra, frequentava un’associazione di volontariato cattolico impegnata in varie attività che sfociavano tutte nella raccolta di denaro per contribuire al finanziamento di opere di bene.

    Io no, di pratiche religiose e di volontariato non mi ero mai interessato. Non che non ne comprendessi il valore, ma quel tipo di impegni, che a volte, venendo prima di ogni altro dovere, travalicava qualsiasi interesse, non mi aveva mai convinto completamente.

    Scorgevo in quelle azioni una forma di autocompiacimento, un fare spesso rivolto a sé stessi più che agli altri, una sorta di riscatto di qualche senso di colpa, celato in chissà quale luogo dell’anima. Un agire che in qualche misura contribuiva ad alimentare il disinteresse e il disimpegno dello Stato verso questi temi.

    Quindi mai a messa, nemmeno a Natale o Pasqua. Mai a vendere piantine o quant’altro per questa o quella pur nobile causa.

    Antonella ci andava con le amiche, ogni domenica, a volte anche più sere la settimana e, solamente quando aveva qualche malanno, tralasciava questi appuntamenti che la vedevano impegnata oltre il necessario e che nessuno, tanto meno io, sarebbe mai riuscito a farle disdire.

    Sarah aveva trascorso i suoi primi anni tranquilla, serena, in un clima ovattato, ove ognuno di noi evitava, come fosse un contratto sottoscritto, qualunque rumore potesse giungere inaspettato alle sue orecchie.

    Aveva passato molti weekend dai nonni materni, non ancora troppo anziani e a volte più giorni durante la settimana e, lentamente, la loro presenza aveva assunto una funzione suppletiva che però non era mai sfociata in sterili antagonismi.

    Loro erano i nonni e noi i genitori, ma per Sarah questa sorta di famiglia allargata, col passare del tempo, aveva generato uno strano distacco dal significato che tali ruoli avrebbero dovuto assumere.

    Non era una cosa evidente, ma il suo linguaggio denotava chiaramente questo atteggiamento. Da tempo ormai chiamava i nonni nonni, e noi due con il nostro nome: Antonella, ma spesso Anto, sua madre, e Libero suo padre. Neppure da grandicella, quando discorreva con le amiche o con i nonni, non si riferiva a noi dicendo: mia madre o mio padre, ma semplicemente usando il nome di battesimo.

    Questo modo di fare pareva seguire una moda sempre più diffusa. Altri figli di nostri conoscenti utilizzavano questo criterio e i loro genitori, come pure Antonella, parevano fieri, come se il sentirsi chiamare per nome, invece di mamma e papà, fosse una sorta di riconoscimento evolutivo della specie. Un attributo di maturità che invece lasciava fuori la storia e, con essa, il significato antropologico legato a questi appellativi.

    Io non la pensavo così, ma non avevo mai voluto insistere o dire cose che potessero modificare un’abitudine ormai radicata. Difficilmente sarebbe cambiata, nonostante questo fatto mi infastidisse ogni qual volta Sarah pronunciava il mio nome come fossi un coetaneo o qualche caro amico.

    I miei genitori, poco più anziani di quelli di Antonella, fin dall’inizio della nostra relazione si erano tenuti in disparte. Soprattutto mia madre che non aveva visto di buon occhio che frequentassi: " Quell’impiegatuccia delle poste venuta chissà da dove". In lei aveva sempre albergato una specie di gelosia verso chiunque si avvicinasse troppo al suo unico figliolo.

    Era una donna tutta d’un pezzo, ambiziosa, il vero capo della famiglia e mio padre, forse per pigrizia o per rassegnazione, non aveva mai voluto spodestarla da questa posizione.

    Si erano sposati appena possibile, dopo che il papà aveva trovato un lavoro sicuro in fabbrica. Erano andati ad abitare in un piccolo condominio di recente costruzione.

    La nostra era una di quelle famiglie normali, dignitosa, né borghese, né tantomeno ricca, tuttavia questo non aveva mai impedito alla mamma di sentirsi superiore a tutte le sue amiche, forse perché leggeva ogni sorta di libri, soprattutto narrativa, ma anche certi saggi impegnativi che probabilmente nemmeno comprendeva.

    Questa inclinazione verso la cultura l’aveva sempre coltivata, ma da quando aveva iniziato a frequentare la Camera del Lavoro cittadina, ogni momento libero era l’occasione giusta per prendere un libro tra le mani.

    Col tempo si era creata una biblioteca personale alla quale avevo sempre guardato con ammirazione. I miei erano praticanti quanto bastava per farsi vedere in chiesa la domenica e in poche altre ricorrenze, ma i temi religiosi non erano mai stati al centro di nessuna discussione e a me, oltre al nome, avevano sempre trasmesso una visione laica della vita.

    Il papà aveva fatto carriera in fabbrica. Era nato poco prima che la guerra finisse. Veniva da un paesino della Valtellina, arroccato contro ripide pareti di granito.

    Da quelle parti una delle poche attività era cavare e tagliare quella roccia, modellandone la forma in blocchi sagomati, così si riusciva a sfamare la famiglia, spesso numerosa.

    Pure lui, come molti altri ragazzini, aveva seguito il padre in quel lavoro fin da giovane, riempiendosi i polmoni di silice e silicati. Come lo zio Battista, suo fratello gemello che però, appena aveva potuto, era emigrato in Belgio.

    Di lui sapevo poco. Qualche lettera e a volte una telefonata a Natale. L’avevo visto quando un male incurabile in pochi mesi aveva portato via sua madre. Mi era sembrata una persona particolare, schiva.

    Al funerale si era messo dietro la bara restando in silenzio per tutto il tempo, poi era subito ripartito. Sapevo che lavorava in qualche miniera di carbone e che dopo alcuni anni aveva sposato una di quel posto. La coppia aveva dato alla luce un figlio che, come sua madre, nessuno dei parenti aveva mai conosciuto.

    La mamma un giorno mi aveva confidato, quasi svelasse un segreto da non divulgare a nessuno, che lo zio beveva e con il papà non era mai andato troppo d’accordo.

    Il nonno aveva iscritto mio padre alla scuola di avviamento. Avviamento al lavoro naturalmente, e poi lo aveva portato con sé alla cava. L’aveva iscritto nonostante il parere dei suoi che non vedevano di buon occhio che uno della famiglia potesse istruirsi, perdendo tempo con libri, quaderni e quant’altro. Per loro, in quel paesino sperduto tra monti aguzzi, il saper leggere e scrivere, appreso alle elementari, era sufficiente per districarsi nelle fatiche della vita.

    Quello studio, con tanta pratica e le nozioni apprese, era stato sufficiente a forgiare la sua passione per la meccanica.

    Dopo qualche anno in cava, aveva trovato lavoro in una piccola azienda e lì era restato per poco, sino alla chiamata della leva.

    Terminato il militare, si era trasferito più in basso, a valle, in un paese che già aveva la forma di una città, perché alcune grosse aziende, che si erano insediate in quel territorio, avevano richiamato centinaia di operai con le loro famiglie.

    Lo avevano assunto in uno di quegli stabilimenti e in pochi anni era diventato il capo dell’officina.

    Ricordo che in fabbrica mi aveva portato una sola volta da bambino. Ai miei occhi di allora era sembrata immensa. Piena di macchinari e persone intente a farci qualcosa sopra.

    Il papà mi aveva tenuto in quell’ambiente per l’intera giornata, raccomandando, prima di entrare la mattina, di non toccare niente:

    - Tu stammi vicino, guarda e tieni le mani a posto.

    Poi, giratosi con il viso serio, aveva aggiunto:

    - Libero mi raccomando, el’gà la gamba sifolina, non metterti a ridere.

    Mi aveva presentato al portinaio: un omone grosso e calvo, con due occhi svelti e furbi che accompagnavano un sorriso di circostanza. Aveva addosso una strana divisa che a me pareva quella di un vigile o di un militare e un’andatura rallentata da una gamba offesa che trascinava, forse una protesi.

    Solo poche volte da bambino e pure da adulto mio padre si era rivolto a me usando il dialetto. Mai frasi complete, poche parole secche, intercalate nel discorso. Lo faceva per dare rilievo, autorevolezza al suo dire, incurante se capissi o no.

    Fuori dalla portineria, avevamo percorso un lungo viale che si insinuava tra capannoni e basse costruzioni con grandi vetrate scurite.

    - Quelli sono gli uffici. Ci stanno i capi e gli ingegneri.

    Giunti in officina gli operai lo salutarono, alcuni con un cenno della mano, altri alzando la testa. Uno si avvicinò con un arnese di metallo lucido e geometrico tra le mani, chiedendo qualcosa al papà che, guardandolo con attenzione, aveva dato strane indicazioni.

    Rammento il rumore e soprattutto l’odore di ferro e olio che ancora oggi, quando ripenso a quella lontana giornata, sono capaci di riportare alla mente quei visi seri, le mani occupate e svelte di quelle persone anonime, silenziosi fratelli che mi avevano dato la sensazione di essere di fronte a una grande famiglia.

    Ci sono circostanze, momenti che agli occhi di un bambino appaiono straordinari, per questo restano impressi nella memoria e che, quando per qualche ragione riemergono, danno corpo a quei ricordi, a quelle immagini, rendendoli coerenti come fossero un film, un racconto. Così erano stata quella visita, quegli odori e quei rumori. Tutto era sembrato fantastico e vedere il papà che dava ordini, indicazioni a questo e a quello, mi aveva inorgoglito, come se la sua presenza in quella officina fosse indispensabile. Lo avevo immaginato come un condottiero, una specie di eroe.

    Se ripenso a quel giorno, al suo modo di fare, alla voce, riesco a comprendere la sua natura quasi arrendevole verso la mamma. L’officina era l’habitat ideale, l’inizio e la fine del suo mondo e la pienezza del ruolo, con le responsabilità che gli competevano, con le abilità che sapeva di possedere, lo rendeva felice, appagato. Non aveva bisogno d’altro per sentirsi se stesso.

    Tra pochi mesi sarebbe andato in pensione e, anche se faceva di tutto per nasconderlo, questo imminente passaggio lo aveva reso taciturno e triste. Non era ancora troppo anziano, mancavano poche settimane ai cinquantotto anni, ma di lavoro, tra la cava e l’officina, ne aveva fatti più di quaranta. Era sempre stato un uomo forte, alto e robusto, con due mani fin troppo grandi, che parevano delle pale. Solamente negli ultimi anni il polverino di silice, affannando il respiro, gli aveva ricordato il boato della dinamite.

    Era capace di riparare ogni cosa e nel quartiere spesso i vicini lo chiamavano per questo o quel lavoretto, ma lui non chiedeva nulla, faceva tutto gratuitamente. Questa era la sua vita

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