Giochi di ruolo (eLit): eLit
Di Linda Howard
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Giochi di ruolo (eLit) - Linda Howard
Prologo
Tornare a casa, nel Wyoming, provocava sempre in Chance Mackenzie piacere e disagio. Per natura e per educazione, non che ci fosse stata qualche forma di educazione prima dei quattordici anni, lui era un uomo solitario. Se era da solo, poteva agire senza preoccuparsi di altri che di se stesso. Il genere di professione che aveva scelto non aveva fatto che rafforzare quell'inclinazione. Missioni segrete e attività antiterroristiche esigevano accortezza, massima attenzione, segretezza, diffidenza totale nel prossimo e la necessità di non permettere a nessuno di avvicinarsi troppo.
Tuttavia... Eh, sì, tuttavia c'era la sua famiglia. Vasta, rumorosa, invadente, iperattiva, che non le permetteva mai di ritirarsi in se stesso. Doveva ammettere che ogni volta era sempre emozionante immergersi in quell'abbraccio avvolgente. Sentirsi subissare di domande, essere preso in giro, lui che terrorizzava i criminali più spietati sulla Terra. E poi essere abbracciato, baciato, coccolato, sgridato. Amato, in altre parole. Come se fosse uguale agli altri esseri umani. Chance sapeva che non lo era. La consapevolezza era lì, sepolta in fondo alla sua mente. Eppure, ogni volta veniva attratto da tutte quelle cose che lo spaventavano. Perché l'amore lo metteva in allarme. Fin da piccolo, aveva imparato a sue spese come potesse contare esclusivamente su se stesso.
Il fatto che fosse sopravvissuto dipendeva solamente dalla sua durezza e dalla sua intelligenza. Non aveva idea di quanti anni avesse, né dove fosse nato, né di come si chiamasse, se mai aveva avuto un nome. Niente. Non aveva ricordi. Né di una madre. Né di un padre. Di nessuno che si fosse preso cura di lui. Lui non aveva avuto un'infanzia. Intesa nel senso più dolce del termine.
Fame, freddo, violenza, malvagità. La sua memoria ne era piena. Ricordava di aver rubato cibo non appena aveva raggiunto un'altezza tale da permettergli di saccheggiare gli scaffali di un supermercato. Di aver rubato vestiti. Di aver dormito all'addiaccio, nei canali, sotto i ponti quando faceva caldo. Nelle stalle e in qualsiasi posto accessibile, quando faceva freddo o pioveva. Era sempre stato forte fisicamente. Qualità indispensabile per lui. Essere forte significava sopravvivere.
Una notte, un cane randagio si era accucciato accanto a lui per stare al caldo e Chance aveva provato un senso di gratitudine sconosciuto. Solo che il cane lo aveva morso a tradimento per rubargli un pezzo di carne che aveva trovato tra i rifiuti di un ristorante. Portava ancora le cicatrici sulla mano destra. Il bastardino se l'era svignata e lui era rimasto a stomaco vuoto. Ma l'esperienza gli era servita di lezione. Quando si trattava di sopravvivenza, ognuno per sé, Dio per tutti.
Anche se allora non sapeva nemmeno che esistesse un Dio.
A quel tempo, non doveva aver avuto più di sei anni. Un'infanzia tragica, non c'era dubbio, ma che lo aveva reso perfetto per il suo lavoro. Ciononostante, non l'avrebbe augurata a nessuno, nemmeno a un cane bastardo.
La sua vera vita era incominciata quando Mary Mackenzie lo aveva trovato accasciato ai lati di una strada, febbricitante per una polmonite. Non ricordava molto di quei giorni. Solo la vaga consapevolezza di trovarsi in ospedale e il terrore di essere caduto nella rete del sistema. Era un minorenne senza alcuna identità, e solo l'assistenza sociale si sarebbe potuta occupare di lui. Aveva passato tutta la sua breve vita nello sforzo di evitare una simile eventualità. Aveva persino cercato di organizzare piani di fuga. Ma era troppo debole, la mente troppo confusa.
Ricordava, tuttavia, di essere assistito da un angelo con dolcissimi occhi grigi, capelli castani striati d'argento, mani fresche e una voce affettuosa. C'era anche un uomo grande e grosso, bruno, dai lineamenti marcati, che continuava a ripetergli in tono rassicurante: «Non lasceremo che ti prendano».
Lui, però, non si fidava. Anche se lo sconosciuto sembrava mezzo indiano. Come Chance. Il che non implicava che dovesse concedergli fiducia. Tuttavia, era troppo malato, troppo debole per fuggire, persino per ribellarsi. E mentre si trovava in quello stato di totale impotenza, Mary Mackenzie era riuscita in qualche modo a legarlo a sé. Un legame fatto di devozione, riconoscenza, amore. Un legame da cui non si era più liberato.
Non sopportava di essere toccato. Se qualcuno si avvicinava abbastanza da toccarlo, sarebbe stato capace di attaccarlo. Non poteva cacciare via i medici e le infermiere che lo maneggiavano come un pezzo di carne senza intelletto. E aveva resistito. Aveva stretto i denti, imponendosi di non reagire. Sapeva che, se lo avesse fatto, lo avrebbero legato. E lui doveva restare libero. Libero di fuggire appena avesse riacquistato le forze.
Ma lei era sempre rimasta lì. A bagnargli la fronte, a mettergli in bocca scaglie di ghiaccio. A pettinarlo, accarezzarlo. A lavarlo quando vedeva come si agitava se lo facevano le infermiere.
Lo toccava di continuo, anticipando i suoi bisogni, avvolgendolo in un bozzolo di premure, di calore che lo terrificava e nel contempo lo sopraffaceva, annullando ogni resistenza.
E, a poco a poco, in quei giorni confusi e febbricitanti, aveva incominciato a gradire la sensazione della sua mano fresca sulla fronte, la voce dolce che lo cullava. Una volta si era svegliato di soprassalto da un incubo e si era trovato stretto tra le sue braccia amorevoli, le dita leggere tra i capelli mentre lo rassicurava.
Si era sempre meravigliato di come fosse piccola e magra. Una persona con una tale volontà di ferro sarebbe dovuta essere alta due metri e pesare come minimo settanta chili, visto come ossessionava tutto il personale medico, anche i dottori, perché facessero quello che lei voleva.
Avevano valutato che lui dovesse avere circa quattordici anni, anche se era molto più alto dello scricciolo di donna che gli aveva salvato la vita, appropriandosene. Ma in quel caso non importava. Anche lui era impotente nei suoi confronti.
Non c'era stato nulla che potesse fare per lottare contro la crescente dipendenza verso le cure materne di Mary Mackenzie. Anche se ciò significava sviluppare una debolezza, una vulnerabilità che lo spaventavano. Nessuno si era mai preso cura di lui. Anzi. E così, quando fu in grado di lasciare l'ospedale, si rese conto di amare la donna che aveva deciso di fargli da madre. L'amava con la totale intensità, la cieca devozione di un bambino piccolo.
Lo avevano portato alla Mackenzie's Mountain. Nella loro casa, tra le loro braccia. Nei loro cuori. Un ragazzino senza nome era morto quel giorno sulla strada ed era nato Chance Mackenzie. Quando Chance aveva deciso il giorno del suo compleanno, dietro le insistenze di sua sorella Maris, aveva scelto proprio il giorno in cui Mary lo aveva trovato.
Fino ad allora non aveva avuto niente. Da quel giorno era stato subissato di tutto. Era stato sempre affamato. Da quel giorno c'era stato cibo in quantità. Aveva sempre avuto smania di imparare. Da quel momento era stato circondato di libri. Mary era un'insegnante nata, e lo aveva nutrito di conoscenza. E poi gli aveva preparato una stanza da sogno. Con un letto vero. Caldo. Un armadio pieno di vestiti. Scarpe. Tutto nuovo. Tutto suo. Non aveva avuto più bisogno di rubare.
Ma, la cosa più importante, lui, che era sempre stato solo, all'improvviso si era trovato immerso in una famiglia. Un padre, una madre, quattro fratelli, una sorella, una cognata, un nipotino in fasce. E tutti lo avevano accolto come se fosse stato con loro fin dall'inizio. E poi lo toccavano di continuo. Baci, carezze, coccole. Da quando si svegliava al momento in cui si addormentava.
Chance si era sempre sentito a disagio in quelle occasioni e sempre aveva lanciato un'occhiata a Wolf, l'uomo grande e grosso nonché il capofamiglia. Che cosa pensava mentre la figlia abbracciava uno come Chance? Wolf Mackenzie non era innocente. Aveva intuito le esperienze terribili che lo avevano formato. Capiva quale linfa malefica scorreva nel sangue di quel ragazzino selvaggio. Lui si era sempre chiesto se gli avesse letto nella mente, avesse scoperto il ricordo dell'uomo che aveva ucciso quando aveva appena dieci anni.
Eppure, quell'uomo dai lineamenti marcati e dal sangue misto lo aveva preso in casa, chiamandolo figlio e, come Mary, lo aveva amato.
I primi anni di vita avevano insegnato a Chance che l'amore era sinonimo di pericolo. Tuttavia non era stato capace di non amare i Mackenzie. Non aveva mai smesso di spaventarlo quella crepa nella sua corazza. Ciononostante, solo quando era in famiglia riusciva veramente a rilassarsi, perché sapeva che in mezzo a loro era al sicuro. Non poteva stare lontano a lungo da quella casa. Presto o tardi sentiva il bisogno di tornare, di immergersi nel loro calore disinteressato e sincero.
Ormai si erano impadroniti totalmente del suo cuore e lui aveva dedicato tutto il suo talento e la sua intelligenza per proteggere il loro mondo. Certo, non gli facilitavano le cose. Lo assalivano sempre con espressioni di affetto. I fratelli si erano sposati, dandogli delle cognate da amare, dei bambini da adorare. Quando era arrivato, c'era solo John, il figlio di Joe e di Caroline. Da allora era stato un crescendo continuo, e Chance, come tutti gli altri membri della famiglia, si era trovato a combattere con pannolini, biberon, manine paffute e tenerissime che si attaccavano ovunque. I nipotini erano arrivati a quota dodici, più una nipotina contro la quale lui era totalmente impotente, con gran divertimento di tutti.
Tornare a casa era sempre un po' snervante, ma ne aveva bisogno come dell'aria che respirava. Ogni volta si ripeteva che doveva cercare di staccarsi, di isolarsi, tuttavia il cuore lo riportava sempre da loro.
1
Chance amava le moto. Quelle grosse e potenti come la Harley-Davidson che stava guidando sulla stretta strada di montagna. Il rombo del motore vibrava aggressivo, dandogli un senso di potere e di pericolo. Una sensazione viscerale che non finiva mai di stupirlo.
Piacere.
Anche il pericolo, come il sesso, poteva avere un che di erotico. Ogni guerriero, ogni combattente lo sapeva. Suo fratello Josh ammetteva candidamente che atterrare con un caccia sul ponte di una portaerei lo eccitava da morire. E Joe, che poteva guidare qualsiasi jet, si limitava a sorridere, sornione.
Quanto a Zane e a se stesso, Chance sapeva che quando emergevano da una missione difficile, che di solito includeva pallottole e pericolo, non desideravano altro che una donna sulla quale scaricare tutta la tensione. Sfortunatamente, soddisfare quel desiderio non sempre era possibile. Il luogo doveva essere sicuro, doveva esserci una donna disponibile e soprattutto bisognava tornare a essere persone civili.
Ma, per il momento, c'erano soltanto la motocicletta e lui, la carezza sferzante dell'aria di montagna e il solito miscuglio di gioia e timore.
Arrivò in cima alla salita e la casa di Zane comparve nell'ampia valle sottostante. Una grande costruzione con cinque camere, quattro bagni e nessuna ostentazione. Zane aveva fatto in modo che non attirasse l'attenzione. In apparenza non sembrava così grande, perché alcune stanze erano sotto il livello del suolo. Tra l'altro, a causa del suo lavoro, l'aveva fornita di tutti i sistemi di sicurezza più sofisticati. Vetri antisfondamento, porte in acciaio, serrature a prova di bomba, pareti con anima in ferro, telecamere, sensori ovunque. Vie di fuga segrete.
Quando Chance imboccò il viale di accesso, capì che il suo arrivo era già stato segnalato.
Il loro lavoro era pericoloso, e la prudenza non era mai troppa. Zane, poi, aveva sempre un piano d'emergenza.
Chance spense il motore, rimase per qualche istante seduto per riprendersi, poi smontò, bloccando la Harley. Infine tirò fuori dal vano oggetti un dischetto e si avviò verso il portico.
Era una calda giornata estiva e il cielo era di un azzurro intenso, non si vedevano nubi all'orizzonte. Alcuni cavalli pascolavano poco lontano. Le api ronzavano attive e laboriose intorno ai fiori, mentre gli uccellini cantavano tra gli alberi. Wyoming. Casa. Mackenzie's Mountain non era molto lontana, con la grande residenza che si allungava in cima alla radura e tutto ciò che contava per lui.
«La porta è aperta.» La voce di Zane risuonò attraverso l'interfono. «Sono nello studio.»
Chance entrò, dirigendosi verso il corridoio. Alle sue spalle, le