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Fantastico nero
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E-book199 pagine2 ore

Fantastico nero

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Info su questo ebook

Trame fantastiche, geniali ma nerissime con scheletri, fantasmi e spiriti. Ombre che si stagliano minacciose nella vita di tutti i giorni e ombre della nostra anima che si fanno spazio all’improvviso per spaventarci, metterci in guardia, farci riflettere. Accade oggi come nel passato e come, ancora, si verificherà in futuro: i mostri peggiori che popolano i nostri incubi sono quelli che abbiamo dentro. Fantastico Nero è una raccolta di racconti al limite, proprio come è la penna del loro autore Donato Altomare, il maestro del fantastico in Italia.
LinguaItaliano
Data di uscita10 ago 2021
ISBN9788869601279
Fantastico nero

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    Anteprima del libro

    Fantastico nero - Donato Altomare

    1770x2500.jpg

    Donato Altomare

    Fantastico

    nero

    racconti

    per non dormire

    tranquilli

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    Titolo dell’opera:

    Fantastico Nero

    © 2020 by Donato Altomare

    ISBN: 9788869601279

    © Altrimedia Edizioni è un marchio di

    Diòtima srl - servizi e progetti per l’editoria

    Prima edizione digitale: luglio 2021

    Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore.

    È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.

    Dedicato a tutti coloro convinti

    che uno scrittore del fantastico

    non possa mai vincere

    il Nobel per la letteratura.

    La casa degli Scheletri Amanti

    Omaggio a Ludmila Freiovà

    Praga, 14 settembre 1989. Ore 14.30. Piove. Ludmila Freiovà, la scrittrice italianista che mi fa da guida e interprete, mi ha dovuto lasciare per accudire la tomba di famiglia. Intanto piove. E le cornacchie devono mettere a dura prova la loro pazienza.

    Quando l’aereo proveniente da Zurigo ha toccato il suolo ceco, un nugolo di cornacchie, con il nido tra i cespugli a fianco della pista d’atterraggio, è volato via butterando il cielo di virgole in movimento. Poi l’aereo si è fermato. E le cornacchie sono tornate. Le ho osservate librarsi in volo per il sopraggiungere di un altro aereo, ritornare per pochi minuti e rifuggir via, e ancora nel nido, con il ritmo degli atterraggi e delle partenze. Sì che loro ne hanno di pazienza!

    Ma ora piove e persino la pioggia ha paura di farsi sentire, forse perché, in fondo, la sua è una protesta ed è meglio non gridare troppo forte in certi luoghi.

    Qui, la Praga dalle cento torri è vittima e carnefice al contempo e la pioggia, che a tratti tace, s’insinua tra le fessure delle case, e gocciola sotto i tetti, e sgretola gli intonaci, e se picchia le tegole, pare lo faccia con discrezione, forse nel timore che qualcuno possa capire la sua voce e riconoscere il suo messaggio di libertà.

    Anche le persone non hanno fretta di vivere e sembrano tutte uguali, e sono tutte uguali. Guai a indossare qualcosa di diverso. Poi non sorridono. Mai. Anche la loro pazienza è messa a dura prova. Come quando, dietro gli sportelli, impiegati indifferenti ti guardano e parlottano tra loro. Sanno bene che sei lì perché hai bisogno di qualcosa, ma loro continuano a guardarti e a parlottare, e tu resti in paziente-incredula attesa sperando che il loro discorso duri da parecchio e che sia lì lì per finire. E, quando l’argomento è chiuso, ti fissano quasi fossi apparso loro davanti all’improvviso e sollevano le spalle se non ti capiscono e sollevano le spalle anche se ti capiscono, ma non hanno ciò che cerchi. Pazienza.

    E fuori continua a piovere. Sono senza ombrello e nell’ufficio postale dal quale ho telefonato a casa in Italia tra poco non ci sarà più nessuno. Non so cosa fare, l’albergo è lontanissimo e ho detto a Ludmila che l’avrei aspettata all’uscita del cimitero. Frugo nelle tasche. Non ho neanche un pezzo di carta su cui spuntare qualche impressione. Un impiegato mi vede sulla soglia mentre sbircio il cielo plumbeo. Forse preso da qualche scrupolo o soltanto perché deve chiudere, mi si avvicina e mormora alcune parole. Io lo guardo, forzo un debole sorriso e scuoto il capo. Lui capisce che io non capisco e scandisce: «B A R». Poi solleva l’indice e mi indica un’insegna lontana non molto chiara.

    «Grazie», dico accentuando il sorriso e chinando appena il capo. Lui mi imita e torna alle sue carte infinite.

    La pioggia non è violenta, soltanto fastidiosa, un’acquerugiola continua e snervante. Fortunatamente l’atmosfera non mi contagia. Conservo quell’ottimismo tutto italiano. Così vado via, senza fretta, riparandomi sotto i balconi. Le strade sono quasi deserte. Le auto che passano si contano sulla punta delle dita e son quasi tutte tassì. Eppure siamo nella capitale. Sì, in periferia, ma pur sempre di una grande città.

    Finalmente raggiungo la porta di quello che mi è stato indicato come un bar, ma che assomiglia a una taverna. L’interno è cupo come al solito. Non sporco, soltanto poco illuminato e pregno d’odore di birra e sudore. Un gruppo di uomini è intorno a un tavolo. Bevono birra in bottiglie da 3/4. Discutono animatamente. Quando mi vedono entrare tacciono di colpo. Dai vestiti mi hanno subito classificato come uno dei tanti stranieri che affollano la loro città. Tranquillizzati dal mio sorriso un po’ ebete e dalla mia aria spaesata tornano a discutere e a bere. In tutto vi sono altri quattro tavoli nella saletta. Su due vi è il solito cartello: RISERVATO. Ho imparato a riconoscere quella parola. In ogni posto di ristoro deve esserci sempre disponibile almeno un tavolo per eventuali pezzi grossi del partito capitati lì per caso. Una volta però un ubriaco ha spiegato a Ludmila, che l’ha spiegato a me, che i camerieri mettono quei cartelli per lavorare meno.

    Gli altri due tavoli sono occupati. Da uno, due donne mi stanno fissando. Una è piuttosto anziana, sulla cinquantina, l’altra è molto più giovane, a giudicare dal visino. Si assomigliano, sicché penso a madre e figlia. Vestono in maniera modesta. Rivolgo loro un cenno di saluto. Mi sorridono, ma subito distolgono lo sguardo chinandolo, come per pudore.

    Sull’altro tavolo un uomo pare indifferente a tutto. Ma la mia attenzione è subito attratta da una stupenda fisarmonica posata sull’unica sedia accanto a quella da lui occupata. È davvero uno splendido strumento, probabilmente di fabbricazione italiana. Un po’ me ne intendo di strumenti musicali.

    In quel mentre un cameriere appare dal retrobottega. Con la mano indico prima me, poi uno dei tavoli riservati. Lui scuote energicamente il capo. Io lo scimmiotto a chiedere conferma e lui continua imperterrito. Intanto fuori la pioggia si è fatta più insistente come a dissuadermi dal cercare un altro bar. Lì però non c’è un bancone al quale appoggiarsi né un angolo libero dove mettere una sedia per attendere il ritorno di Ludmila. Ciò mi spiace perché il posto è adattissimo. C’è un’ampia vetrata che si affaccia sulla strada. S’intravede in lontananza l’ingresso del cimitero e la vedrei uscire in qualsiasi momento.

    Guardo la fisarmonica. È uno strumento troppo bello perché lo si debba mettere sul pavimento. Riporto lo sguardo sul tavolo delle due donne. La ragazza mi sta fissando. La madre se ne accorge e mi lancia uno sguardo ammonitore. Già, per loro sono il solito occidentale ricco in cerca di facili conquiste per pochi preziosi dollari. Così, per stroncare sul nascere qualsiasi mia iniziativa, poggia la borsetta sull’unica sedia vuota e richiama la figlia che si morde le labbra e abbassa gli occhi.

    Bene, lungi da me il pensiero di imporre la mia presenza. Mi giro per uscire.

    «Ehi.»

    In qualsiasi lingua quel richiamo ha un senso. Mi rigiro. L’uomo della fisarmonica mi sta dicendo qualcosa indicandomi la sedia. Sollevo le spalle. Forse m’invita a sedere o vuole soltanto farmi ammirare il bellissimo strumento. Sollevo le braccia a mezz’altezza sconsolato.

    «Mi spiace, non capisco.»

    «Italiano?», è una parola magica.

    Annuisco vigorosamente.

    «Venga, si sieda qui con me.»

    «Lei parla italiano.» Dico scioccamente.

    «L’ho studiato all’università come seconda lingua. Sino a pochi anni fa era possibile. Ora l’hanno abolito. Ho fatto anche l’interprete. Siete migliaia a venire nel nostro paese.»

    Rinfrancato mi avvicino e guardo la fisarmonica.

    «Bella, eh!», commenta notando il mio sguardo. Pare felice della mia attenzione per lo strumento.

    «È una FARFISA, vero?», rispondo.

    «Già, come fa a saperlo? La marca era stata staccata.»

    «Ho insegnato matematica in una scuola dove ho incontrato una professoressa di musica. Conosceva tutti gli strumenti musicali, una volta mi ha portato in conservatorio e me li ha presentati uno a uno. È stata un’esperienza bellissima, anche perché lei mi piaceva, e non c’era nessuno e... lasciamo perdere. Posso?», indicando la sedia.

    «Ma certo», dice sollevando lo strumento e adagiandolo nel-

    la custodia ch’è in terra dall’altra parte. Finalmente mi siedo. Soltanto allora mi rendo conto di essere un po’ stanco.

    «Una birra?» chiede.

    «Meglio un caffè. Permetta che sia io a offrire.»

    «Per me va bene una birra.»

    «Benissimo. Ordini lei però.»

    Fa un cenno al cameriere che arriva lemme lemme. Ascolta, poi dice qualcosa che il mio ospite traduce subito: «Hanno soltanto caffè turco. Purtroppo niente espresso».

    «Va bene lo stesso.»

    Il mio amico torna a parlare col cameriere che fa un blando cenno d’assenso e si allontana.

    «Come mai è qui?»

    Sollevo le spalle: «Me lo sto chiedendo anch’io».

    Poi, notando la sua espressione perplessa, mi affretto a spiegare: «Devo partecipare a un convegno letterario».

    «A Praga?»

    «No, a Košice. Parto questa sera con il treno.»

    «E cosa fa in questo bar di periferia?»

    Gli spiego di Ludmila. Lui mi ascolta con attenzione. Pare molto interessato.

    «Questo è un ottimo posto» concludo «perché dalla vetrata è possibile scorgere l’uscita del cimitero».

    Il cielo va rapidamente scurendosi a causa della presenza delle nuvole, ma la visibilità è buona, nonostante la pioggia non la smetta di martoriare ancora le già martoriate pietre di Praga. Il cameriere ritorna con un gran boccale di birra scura e il mio caffè fumante. Pago subito, com’è d’uso, e zucchero il caffè. Poi lo porto alle labbra. Non è poi tanto male.

    «La suona lei?» chiedo indicando la fisarmonica.

    «Certo» risponde felice, «vuole sentire qualcosa?»

    La domanda mi coglie impreparato. Non sono proprio dell’umore giusto, ma temo di procurargli un dispiacere per cui annuisco, con la segreta speranza che se la cavi almeno con quello strumento molto difficile da possedere. Lui posa il boccale, solleva la fisarmonica indossandola e fa scorrere le mani sui tasti come stesse accarezzando una bella donna. Prova qualche tasto, sfiora i registri soprano e: «Conosce la Ballata degli Scheletri Amanti?»

    Rabbrividisco. Per istinto il mio sguardo va al muro di cinta del cimitero. Dio no!, non sono proprio in vena d’ascoltare una ballata macabra.

    «No, mai sentita, ma preferirei non...»

    Lui non mi lascia terminare. E comincia a suonare.

    Le prime note non sono affatto tristi. Né allegre. La musica è piacevole e subito mi cattura. Tanto che scordo il caffè tra le mani. Lui comincia a cantare con voce stentorea e intonata. Naturalmente nella sua lingua. Gli uomini intorno al tavolo smettono per la seconda volta di discutere e si girano. E, quando il suonatore ripete il ritornello molto orecchiabile, vedo le labbra dei presenti, camerieri e donne comprese, muoversi a ripetere le parole. La ragazza continua a guardarmi. La madre se ne accorge e, senza smettere di mimare il canto con le labbra, le dà una gomitata. Ovviamente non capisco nulla, ma attendo pazientemente che la ballata termini e mi unisco agli applausi. Lui ringrazia con un cenno del capo. Raggiante.

    «Naturalmente non ha capito nulla.»

    «Un paio di parole che ho già sentito, null’altro. La musica però mi ha affascinato. Lei suona meravigliosamente.»

    Sorride: «Prima sapevo far anche di meglio». Mi mostra le mani. Soltanto allora mi accorgo che sono deformi, come se le ossa fossero rotte e rinsaldate in maniera innaturale.

    «Mi spiace, come...»

    «Storia passata. Ma, mi dica, davvero non ha mai sentito parlare di questa ballata? È famosa qui.»

    «Cosa vuole, sono a Praga da pochi giorni.»

    «Se le va gliela racconto.»

    Ancora una volta mi chiedo se la mia abituale gentilezza non mi trascini nuovamente in qualche tedioso ascolto. Incerto annuisco. Al peggio avrei ingannato l’attesa.

    «Bene. E non si preoccupi, non è una storia triste. Soltanto strana. Ma VERA.»

    Nota lo scetticismo che si legge sul mio volto e si affretta a dire: «Guardi lì, quella casa a ridosso del muro del cimitero. Se ne scorge la parte superiore e il tetto». Osservo nella direzione indicata e vedo la costruzione. È alquanto malmessa e annerita.

    «Lì è avvenuto tutto», riprende a dirmi con foga «se non ci crede, potrà trovare le prove di quanto le sto per narrare negli archivi della polizia. Ammesso che glieli lascino leggere. Quella era la casa del guardiano del camposanto. Dopo la storia degli Scheletri Amanti nessuno ci ha mai voluto più metter piede».

    «Perché?»

    «Perché il custode e sua moglie furono trovati scheletri poche ore dopo essere stati visti, vivi e vegeti, accudire alle loro quotidiane mansioni. Scheletri. E abbracciati.»

    «Come abbracciati

    «Sì, come sorpresi in un amplesso mortale.»

    «Come mai in quella curiosa posizione?»

    «Tutt’intorno c’era una grande confusione. L’intera casa era bruciacchiata in migliaia di punti. Sul pavimento gli scheletri. La polizia accusò i topi e archiviò la pratica, fanno così quando non ci capiscono nulla e non vale la pena fare indagini. Ma non è stata colpa dei topi, proprio no. Non soltanto non c’erano tracce di sangue o di orme dei roditori, ma almeno le ossa avrebbero dovuto conservare i segni dei loro denti. Io… Io l’ho visto un cadavere rosicchiato dai topi, ho visto le ossa messe a nudo e rigate dai denti. Invece quelle degli Scheletri Amanti erano linde, pulitissime, quasi come quelle dei martiri quando nell’antichità si bollivano i loro corpi per far staccare completamente la carne dalle ossa e conservare lo scheletro senza problemi.»

    «Vuol farmi intendere che lei sa cosa sia davvero successo?»

    «Sì, io lo so.»

    «E come mai?»

    «Ho buoni informatori.»

    «Che, presumo, la polizia non ha.»

    Lui aggrotta la fronte. Poi scoppia in una fragorosa risata, quasi abbia detto qualcosa di molto divertente. Mi dà una manata sulla spalla: «Lei mi piace. Credo proprio che le racconterò l’intera storia». Sempre senza attendere comincia: «C’era un tubo, un grosso tubo...»

    C’era un tubo, un grosso tubo nella cucina. Un regolatore di pressione faceva sì che il fornello fosse alimentato dalla giusta quantità di gas. Il tubo saliva nella cappa del camino e sbucava dal comignolo. Poi, seguendo la parte superiore della grondaia scendeva sul muro del cimitero e raggiungeva un minuscolo sgabuzzino entro il quale si agganciava a un distillatore in grado di separare il gas metano dagli altri componenti volatili o dalle scorie. Dallo sgabuzzino partivano quattro tubi più piccoli, da un pollice, che, con differenti direzioni s’infilavano in quattro settori del cimitero. Infine ciascuno si frantumava in una dozzina di altri tubicini che s’innestavano in alcuni complessi

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