Una vita senza confini
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Anteprima del libro
Una vita senza confini - Maria Teresa Amore
PORTA
1 LA SERATA DELL’ADDIO
GENOVA. PORTO ANTICO. UNA SERA DI PRIMA ESTATE.
Fabrizio, il cantante più amato dai genovesi, e non solo, aveva deciso diabbandonare le scene. Le urla dei suoi fan che occupavano a migliaia gli spazi delPorto Antico per salutarlo con l’enfasi consueta, riempivanol’area circostante fino a coprire ogni altro rumore. Le finestre delle case affacciate sul mareincorniciavano i numerosi volti in attesa, simili a grappoli accatastati fino all’inverosimile. Un complesso impianto stereofonico era stato messo a punto dagiorni, in modo che la voce, potenziata da un impianto sonoro in simbiosi con i suoi toni, potesse librarsi nell’aria per un ultimoaddio. Il suo timbro, caldo e suadente, era in attesa di offrirsi senza risparmi alla folla che, già dal primo pomeriggio, aveva iniziato ad accaparrarsi le postazioni migliori. Per la maggior parte giovani, ma non solo. Molti coraggiosi nostalgici coetanei del cantante, che nel passato avevano incrociato la sua strada condividendo un’amicizia avara nell’esternarsi, avevano sentito la necessità, e ritrovato il piacere, di ascoltare per l’ultima volta la sua voce dal vivo, sfidando le urla di un esercito di fan decisi amanifestare la propria emozione. Quando le luci, sapientemente distribuite, esploderanno dando il via allo spettacolo in una sarabanda di colori, quella moltitudine, perfettamente integrata nel suo ruolo, sitroverà già inserita nel meccanismo dell’evento. L’imbrunire avvolge le centinaia di persone in attesadell’arrivo diFabrizio, che aveva deciso di chiudere il suo percorso lì da dove l’aveva iniziato, rendendo omaggio alla sua città nell’unico modo che gli era congegnale: senza parole, senza discorsi di rito, senzaenfasi, insieme alla suachitarra, con i suoi versi e la sua musica.Solo così era in grado di uscire allo scoperto,esorcizzando la solitudineintroiettata e la paura di fondo che l’avevano sempre accompagnato. Il palcoscenico, per l’occasione allestito sul mare, splendeva di mille luci intermittenti che lo specchio dell’acqua rifletteva, dilatava, trasformava, scansionandone i colori. Fabrizio non era impegnato nelle prove. Nonprovava mai in prossimità di un concerto: per superare l’impatto con i suoi fans, aveva bisogno di calma e disilenzio.Il rumore, le grida, la costrizione ad esternare se stesso, erano sempre stati il suo limite
ma anche la sua catarsi.Paradossalmente, eranoproprio le inquietudini nascoste nelle pieghe della sua sensibilità, l’intensità introspettiva ed il suo essere schivo, ad affascinare i suoi ammiratori e, poco importa, in un’accezione di gloria da tramandare ai posteri, se il prezzo da pagare era stato, ogni volta, così alto.
Mentre la folla si accalca lungo l’area del Porto Antico, già stipata in prossimità del palco, che sembrava galleggiare sui riflessi delle luci espanse sul mare e proiettate nel buio incipiente della notte, luiavverte il bisogno di restare solo. Come sempre, prima dei concerti, incontra la sua paura. Una vecchia conoscenza, quella paura simile alla droga: distruttiva ed eccitante come l’odio e la dipendenza. Due aspettifigli della fragilità, di un’inquietudineatavica che dilatava la sua sensibilità, senza impedirgli, tuttavia,di raggiungere i livelli più alti della sua potenza espressiva. Il successo, il suo anelito, la voglia di emergere, generano spesso una sorta di strisciante timore d’inadeguatezza che assomiglia molto alla disistima, ma, come una droga, si avvalgono di un grande potere seduttivo. Lavorare su se stessi costringe ad evocare fantasmi insistenti, figli di percorsi lontani, a volte dimenticati, spesso soffocati e,