Nicovid: Piccoli momenti di buio
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Si compone così un mosaico di storie i cui personaggi subiscono continue mutazioni. La dimensione onirica si alterna a momenti di apparente normalità che lasciano intravedere spaccati di un’umanità disorientata e vulnerabile.
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Anteprima del libro
Nicovid - Miky Marrocco
torre
La fuga
Era da mesi che non lasciavo Milano. Dopo una manciata di chilometri il paesaggio mi restituì una sensazione di vastità che avevo scordato. La pianura si estendeva all’infinito; i campi, tracciati con precisione, si incastravano tra di loro formando un mosaico dalle dimensioni incalcolabili. Le nubi si accumulavano sopra alla linea piatta dell’orizzonte. C’era qualcosa di opprimente in questo panorama sterminato e regolare. Qualcosa che sentivo risuonare nel mio umore.
Presto mi avrebbero trasferito in una clinica fuori città, i miei ritmi sarebbero cambiati, così come le mie aspirazioni. Ma non era quello ad atterrirmi. Temevo che tutto quel vuoto si riversasse dentro all’abitacolo.
Proseguii fino a quando vidi spuntare le prime colline.
Imboccai una strada secondaria che si arrampicava fino al paese; era talmente stretta che mi chiesi come potessero passarci due automobili, ma non incrociai nessuno durante la salita. Nel cielo si era condensato un manto livido attraverso il quale si indovinava appena la sagoma spettrale del sole. Vidi alcune baracche costruite con lamiere e blocchi di cemento. I campi erano coltivati con cura e i piccoli trattori a gasolio, parcheggiati lungo le traverse, sembravano appena usciti dalla fabbrica nonostante provenissero da un’altra epoca.
La strada era in pessimo stato. Mi dovetti fermare un paio di volte per aggirare i crateri nell’asfalto.
Parcheggiai di fronte all’unico bar del paese. Nel centro della piccola piazza c’era una specie di tabernacolo in pietra. Le case erano state gettate a casaccio intorno al misero centro, alcune sembravano disabitate, altre mostravano segni di vita: della biancheria stesa, alcune finestre socchiuse.
Faceva ancora più freddo che in città, alzai il bavero del cappotto e mi diressi verso il bar.
Entrai nel locale. Il barista era molto alto, la sua magrezza risultava quasi fastidiosa. Restava leggermente curvo sul bancone. Mi sorrise appena mi affacciai dall’ingresso, non sembrava per nulla sorpreso dalla mia presenza.
«Buongiorno, dottore» mi disse.
«Il solito?» aggiunse. Mi guardava con sincera complicità.
In quell’istante mi accorsi di non ricordare bene da dove fossi partito quella mattina e se, effettivamente, non fosse mia abitudine entrare in quel bar e parlare con quell’uomo che, tutto sommato, mi risultava familiare.
«Le ho preparato il suo tavolo, dottore» disse il barista notando il mio smarrimento.
Mi guardai intorno: c’erano due tavolini da campeggio rivestiti con tovaglie di plastica e, in un angolo, una scrivania in metallo e formica. Ero l’unico cliente nel locale.
Sopra alla scrivania erano posati alcuni raccoglitori che riconobbi subito, si trattava del mio archivio. Negli anni avevo annotato ogni conversazione con i miei pazienti: i loro flussi di coscienza, le loro risposte fuorvianti, i loro sogni e le loro fantasie. Persino alcuni colloqui occasionali scambiati con persone incontrate nei luoghi che frequentavo abitualmente. E si trattava dei casi più sorprendenti, le persone tendono a essere più spontanee se ignorano di trovarsi di fronte a uno specialista.
C’era una lampada snodabile che puntava dritta su quello che sembrava il mio laptop, ormai datato.
Sul bancone comparve un caffè lungo, leggermente macchiato a freddo, si trattava proprio della mia tipica ordinazione. Sul piattino, oltre al cucchiaino, due compresse di Nicovid.
«Niente insetti, nei dintorni» disse il barista. «Ho verificato personalmente».
Fui invaso da una sensazione di sollievo e mi ritrovai a sorridere a mia volta al barista. Presi la mia ordinazione e mi avvicinai alla scrivania. Posai la tazza vicino al laptop e lo avviai. Mi accomodai sopra uno sgabello girevole che sembrava regolato sulla mia statura. Restai qualche minuto a guardare i faldoni consunti del mio archivio. Poi pescai il primo fascicolo. Buttai giù le compresse con un sorso di caffè. Regolai l’inclinazione del monitor in modo che la luminosità non mi infastidisse troppo.
E iniziai a scrivere.
Isabel
Non ne potevo più, davvero. Ed era da parecchio che non mi sentivo così.
Isabel mi aveva steso, un’altra volta, praticamente nella stessa maniera.
Dovevo fare qualunque cosa, altrimenti sarei impazzito o, peggio, mi sarei attaccato al telefono insultando ulteriormente la mia dignità.
C’erano due possibilità, forse tre, ma la terza la scartai. Alla fine decisi di andare al Soviet, era praticamente dietro casa, c’era sempre un certo movimento e si beveva bene. Nel mio ideale di serata c’era una qualche avventura, qualcosa che mi cancellasse dal cervello il sorriso e lo sguardo di Isabel. In ogni caso avrei buttato giù abbastanza roba da non riuscire a riconoscere la mia auto, figuriamoci quell’angelo sterminatore che viaggiava nelle mie sinapsi come un barracuda.
Isabel.
Bisognava muoversi. Misi lo stesso maglione che indossavo da giorni, mi stava decisamente stretto, i pantaloni ancora di più. Avevo messo su troppo peso e il mio metabolismo sembrava non collaborare.
Mi concessi una birra in anticipo, direttamente dal frigo. Mi infilai il giubbotto, sistemai i capelli in qualche modo e scesi in mezzo alla nebbia mentre la birra iniziava a fare il suo lavoro. La mia auto era al solito posto, incastrata fra l’edicola e la Wolksvagen del mio vicino. Il locale distava meno di dieci minuti, ma accesi comunque la radio per sentire un paio di pezzi che mi misero dell’umore giusto.
Parcheggiai a pochi metri dall’ingresso del Soviet, in tutto c’erano forse una quindicina di auto, un buon risultato per la vigilia di Natale. Il locale sorgeva su una piccola altura e ospitava una bocciofila nell’ala laterale. In mezzo alla nebbia spiccavano alcune luminarie che il gestore aveva piazzato sul balconcino del primo piano. Una renna spiritata mi osservava con un ghigno intermittente.
Nel locale c’era caldo e musica, buona musica. Un pezzo dei Thin White Rope mi convinse che