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La casa delle mele acerbe
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E-book288 pagine4 ore

La casa delle mele acerbe

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Info su questo ebook

Prendete otto ragazzini adolescenti, due fantasmi impertinenti, un vampiro raccapricciante e una te-nebrosa femme fatale. Aggiungete un paio di mele acerbe, un pizzico di umorismo, una manciata di erotismo, acqua del Po quanto basta, una spruzzata di nebbia della Val Padana e qualche cubetto di ghiaccio. Mescolate tutto in un grande contenitore e versate la miscela in un libro con le pagine vuote. Il cocktail andrebbe gustato in un capanno di pescatori oppure seduti sulla riva di un fiume sotto l’ombra di un salice bianco o di un pioppo nero.
LinguaItaliano
Data di uscita15 dic 2014
ISBN9788868670580
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    Anteprima del libro

    La casa delle mele acerbe - Fabrizio Negrini

    Universi.

    1. Il tesoro di zia Evelina

    Tutto ebbe inizio il 29 agosto 1977. Era un lunedì. Brogio arrivò davanti al magazzino alle sette di sera quando il sole era già basso sull’orizzonte. Il portone era aperto e la sua ombra, proiettata sul pavimento di cemento coperto di polvere, ricordava un acrobata da circo con i trampoli ai piedi. I suoi genitori sarebbero rientrati dal frutteto alle sette e mezza e non gli rimaneva molto tempo.

    Aveva finalmente scoperto dove suo padre nascondeva la chiave della stanza segreta e quella sera, con una scusa, era tornato a casa un po’ prima dei suoi. Sapeva che in soffitta si aggirava il fantasma di zia Evelina, morta da poco più di un mese, ma questo non lo avrebbe fermato: non aveva paura dei fantasmi in generale, figuriamoci se poteva temere il fantasma della cara zietta.

    La chiave era nel barattolo di grasso da motore, ormai vuoto, sopra la mensola dei lubrificanti. Era da parecchi giorni che la cercava. La sera prima, per caso, aveva visto suo padre uscire dalla soffitta sopra al magazzino e riporre la chiave nel barattolo.

    Con le gambe che gli tremavano e il cuore che gli batteva un centimetro sotto il pomo di Adamo, Brogio salì la scala che portava in soffitta. Il pianerottolo era in penombra e la vecchia porta di lamiera, sporca e grigia come i muri adiacenti, si distingueva a malapena. Brogio avanzò guardingo, poi, facendosi coraggio, infilò la chiave nella toppa e fece scattare la serratura. Per un po’ restò in ascolto senza muovere un muscolo. Dall’interno non proveniva alcun rumore.

    «Se qui dentro c’è il fantasma di mia zia, di sicuro è un fantasma molto silenzioso» disse Brogio fra sé e sé.

    Spinse la porta in avanti e sbirciò dentro, ma il buio era totale. Per paura che entrassero i ladri, magari gli stessi che avevano causato l’infarto a zia Evelina, suo padre aveva sprangato le finestre della soffitta.

    Senza osare ancora mettere un piede dentro, Brogio tastò con la mano la parete interna vicino allo stipite della porta e sentì i muri freddi e umidi per la muffa. Trovò l’interruttore e la luce fioca di una lampadina da quaranta watt illuminò una soffitta piena di polvere e ragnatele. Lo stanzone era occupato dai mobili della camera da letto di Evelina che suo padre aveva portato lassù quando lei era morta: un vecchio armadio tarlato, un comodino con un piede rotto, una cassettiera con quattro cassetti, un porta catino in ferro battuto con il catino in metallo verniciato di bianco, il grande specchio in stile liberty della zia, alto come una persona e contornato da una cornice in metallo argentato dalla foggia vagamente floreale, la rete del letto, ritta in verticale e legata a una delle travi di sostegno del tetto, e un sacco di altre cianfrusaglie. In fondo alla soffitta, accanto allo specchio, c’era l’oggetto della sua spedizione: il vecchio baule della cara defunta.

    Come tutti i bauli costruiti per contenere tesori, anche quello era grosso e di legno massello. Evelina l’aveva comprato a Comacchio, da un rigattiere, subito dopo essersi sposata. Aveva la classica forma dei bauli, con il coperchio curvo e i fianchi lisci. Sebbene sbiadito dal tempo e un po’ graffiato, il mobile era ancora in ottimo stato. Era un oggetto di pregio e più di un collezionista le aveva proposto di comprarlo, ma lei era troppo affezionata a quel baule e aveva sempre rifiutato.

    A Brogio non interessava il mobile, ma ciò che conteneva. Guardandosi intorno con circospezione si avvicinò al baule. La soffitta era molto lunga e la lampadina da quaranta watt non riusciva a illuminarla tutta, ma lui era stato previdente e aveva portato con sé una torcia elettrica. Mentre passava davanti all’armadio – ancora pieno dei vestiti tutti pizzi, chiffon, lamé, paillettes che la zia adorava indossare quando era in vita – Brogio sentì un rumore provenire dal fondo della soffitta: era come un rapido e leggero ticchettio e sembrava provenire dal baule o dalle sue vicinanze.

    «Topi!» esclamò con un brivido. Lui odiava i topi quasi quanto i ragni, e l’idea di essere in compagnia di quegli animaletti pelosi lo rendeva nervoso. Ma se non l’aveva fermato il pensiero di incontrare il fantasma della zia, figuriamoci se potevano fermarlo alcuni stupidi roditori e qualche ragnetto. Ancora pochi passi e Brogio fu davanti al baule. Solo allora si accorse che la maniglia era stata fermata con un lucchetto.

    «Accidenti! Questo non riuscirò mai ad aprirlo.»

    Si avvicinò al baule e con un gesto di stizza diede un calcio al lucchetto. La maniglia sobbalzò e il lucchetto cadde sul pavimento con un tonfo sordo.

    «Cacchio! È aperto» gridò mentre prendeva la maniglia con due mani e tirava verso l’alto. Con un sinistro cigolio il coperchio ruotò verso l’alto e andò ad appoggiarsi contro la rete del letto producendo uno scricchiolio metallico. Brogio puntò la torcia verso l’interno del baule e restò deluso. Sembrava che il baule contenesse solo capi di abbigliamento: sciarpe di seta, scialli con lunghe frange, cappelli con piume di struzzo, c’era anche il soprabito color kaki che la zia indossava la domenica quando andava a giocare a bridge con le amiche. Ma Brogio era sicuro che dentro al baule ci fosse anche il tesoro di zia Evelina perché una sera, poco dopo la sua scomparsa, aveva sentito suo padre che ne parlava con la mamma.

    Brogio appoggiò la torcia sopra a un tavolino di bambù e cominciò a svuotare il vecchio mobile. Via gli scialli, via le sciarpe, via i cappelli, il soprabito, le scatole da scarpe e tutto il resto. Per essere sicuro di averlo svuotato completamente, prese in mano la torcia e la puntò verso il fondo del baule: vuoto.

    «Le scatole da scarpe!»

    Aprì le scatole una ad una, ma non contenevano tesori, solo scarpe. Pazientemente rimise tutto a posto cercando di pensare dove la zia avesse potuto nascondere il suo tesoro. Nel rimettere le cose a posto notò un particolare curioso: oltre ai vestiti e alle scarpe il baule conteneva un candeliere d’argento alto una trentina di centimetri. Quando l’aveva tolto e appoggiato per terra si era accorto che il candeliere era più basso del bordo superiore del baule. Una volta rimesso dentro, in verticale, l’oggetto collimava perfettamente con il bordo del mobile. Dunque c’era un doppio fondo. Le superfici del baule erano lisce, ma si scorgeva una specie di griglia disegnata nella parte bassa: le linee curve erano davvero disegnate, ma quelle diritte erano in realtà sottili fessure.

    Brogio cominciò a tastare la parete del baule in vari punti a casaccio, poi provò a premere sotto alla base. Il mobile aveva quattro piedini che lo tenevano leggermente sollevato dal pavimento. Infilò le dita in quello spazio angusto, prima nella parte frontale poi sotto ai fianchi, e avvertì una specie di piccola cavità di forma circolare. Infilò un dito nel buco e spinse. Si udì un tac, e subito un cassetto largo un terzo della lunghezza del baule si staccò di poco dalla parete frontale. Sotto al baule Brogio trovò altri due pulsanti che fecero aprire altri due cassetti.

    Trepidante, infilò le dita nello spazio tra il primo cassetto e la parete del baule e tirò. Il cassetto oppose una certa resistenza, ma lui tirò più forte e riuscì ad aprirlo. E finalmente, dopo tanti sforzi, ecco il tesoro della cara zietta.

    «Maiàl!» esultò Brogio dopo un rapido esame del contenuto.

    Con i proventi della sua attività di maga, zia Evelina avevo racimolato una piccola fortuna. Si era fatta un guardaroba degno di Sofia Loren, avevo accumulato una quantità di gioielli da far invidia alla regina d’Inghilterra, aveva posseduto una bellissima collezione di monete antiche, titoli in borsa, proprietà immobiliari, libretti di risparmio e un sacco di altra roba di cui Brogio nemmeno sospettava l’esistenza. Ma a lui non interessavano i gioielli, i titoli o le monete antiche: lui era venuto a cercare i libri della zia. Molti volumi erano ancora in casa, nella stanza a pianterreno che Evelina aveva adibito a studio esoterico, ma quando la zia era morta suo padre aveva portato in soffitta tutti i libri che, a suo giudizio, un adolescente non può leggere: i libri erotici.

    Brogio cominciò a tirare fuori dai cassetti i libri proibiti e il suo cuore andò in fibrillazione. Aveva sempre saputo di quei libri e qualche volta, di nascosto, ne aveva sfogliati alcuni. Ma non aveva mai potuto esaminarli e leggerli con la dovuta calma. In quei cassetti c’era il meglio della letteratura erotica mondiale: Il Decamerone, L’amante di Lady Chatterly, Fanny Hill, Memorie di una donna di piacere, Lolita, Emmanuelle, Paura di volare, La filosofia nel boudoir, Justine o le disavventure della virtù, Histoire d’O, Teleny, Confessione sessuale, Venere in pelliccia, Vita di una donna licenziosa e molti altri

    «Porca paletta!» gridò Brogio tirando fuori un vistoso libro con la copertina nera in similpelle istoriata in oro. «Il Kamasutra in edizione integrale. Ed è pieno di figure a colori!»

    Con le mani che gli tremavano, tirò fuori tutti i libri e li accatastò per terra. Uno di quelli, un vecchio libro con la copertina rossa di cartone e senza titolo, attirò la sua attenzione. Più che un libro sembrava un album di fotografie e a Brogio venne un groppo in gola. Evelina da giovane era stata una bellissima donna e una volta aveva anche vinto il titolo di miss vattelapesca. Prima di darsi alla magia aveva fatto la modella per una rivista di moda e un giorno si era vantata con la sorella e il cognato di avere posato nuda per vari fotografi. Brogio non riusciva a deglutire all’idea che quello fosse un vecchio album con le foto osé della zia.

    Si girò verso la porta della soffitta, per accertarsi di essere solo, e aprì l’album. Le pagine erano di cartoncino rosa, come si usa negli album di fotografie per matrimoni, ma di foto nemmeno l’ombra. Brogio esaminò tutte le pagine, una per una, per essere sicuro che qualche foto non fosse sfuggita alla perquisizione – lì c’era sicuramente lo zampino di sua madre – ma alla fine dovette arrendersi all’evidenza: l’album era desolatamente vuoto. Con un sospiro appoggiò l’album per terra vicino agli altri libri e finì di svuotare i cassetti. Adesso il suo dilemma era: doveva portare via tutti i libri e nasconderli da qualche altra parte oppure prenderne solo qualcuno? Entrambe le soluzioni presentavano dei rischi: se li portava via tutti, suo padre poteva accorgersi che i libri erano spariti; lasciarne lì un po’ significava dover tornare ancora lassù, e anche questo era rischioso, senza contare il fatto che suo padre avrebbe potuto nascondere la chiave della soffitta in qualche altro posto.

    Brogio non ebbe il tempo di prendere una decisione perché in lontananza udì il rumore di un trattore che si avvicinava. In fretta e furia rimise i libri nei cassetti e provò a richiuderli. Il primo e il secondo cassetto si chiusero senza difficoltà, il terzo, invece, non voleva saperne: buttati alla rinfusa i libri occupavano più spazio di prima e non c’era tempo di rimetterli a posto. Brogio tirò fuori il vecchio album senza foto, che era particolarmente grosso, e riuscì a chiudere il cassetto.

    Che fare ora dell’album? Non poteva lasciarlo lì, suo padre avrebbe potuto vederlo e insospettirsi. Con l’album in una mano e la torcia elettrica nell’altra, si avviò verso l’uscita. Aveva appena spento la luce e stava per chiudere la porta quando vide la zia.

    Brogio aveva visto un fantasma per la prima volta cinque anni prima quando era morta la nonna di un suo caro amico. La donna si chiamava Adelaide e lui l’aveva vista una sera che vagava fra gli alberi del frutteto come se stesse cercando qualcosa. Quella volta era scappato via come una lepre, ma poi l’aveva incontrata di nuovo e non era più scappato perché aveva capito che non aveva niente da temere dal fantasma di Adelaide. E nemmeno dagli altri che aveva incontrato in seguito.

    Brogio, dunque, si era aspettato di incontrare il fantasma della zia in soffitta, ma non avrebbe mai immaginato di vederlo comparire in quel modo: zia Evelina non apparve sotto forma di ectoplasma, ma attraverso lo schermo del vecchio televisore in bianco e nero. Proprio quell’anno, in febbraio, la Rai aveva iniziato le trasmissioni a colori. Il padre di Brogio aveva comprato un televisore nuovo di zecca a colori e aveva regalato quello vecchio alla cognata. Il televisore funziona ancora benissimo, ma dopo la morte della zia nessuno l’aveva più usato e il papà l’aveva portato in soffitta in attesa di decidere cosa farne.

    Evelina stava cercando di dirgli qualcosa – Brogio lo capì dalla bocca che si apriva e si chiudeva – ma dal televisore non uscì alcun suono. Lui rimase impalato davanti allo schermo per alcuni istanti finché il rumore sempre più forte del trattore gli mise le ali ai piedi. Uscì dalla soffitta, chiuse la porta, scese di corsa le scale, ripose la chiave nel barattolo del grasso e sgattaiolò fuori attraverso la porta sul retro.

    Quando sua madre entrò in casa lo trovò seduto in cucina, chino su un fumetto di Tex, con un bicchiere di Coca Cola e il vasetto della Nutella appoggiati sul tavolo.

    2. Il paese dei campanelli

    Nel 1977 Brogio abitava ancora in campagna, in una casa rurale di un piccolo paese agricolo del comune di Berra. L’Olanda si chiama quel paesino, proprio con l’articolo, come L’Aquila e La Spezia, solo che, a differenza di quelle due grandi città, questo è un villaggio talmente minuscolo che non è nemmeno segnato sugli atlanti stradali d’Italia.

    L’Olanda è completamente circondato dalle acque: subito a nord scorre il Po, che da quelle parti è davvero molto largo; a sud c’è uno dei canali principali dell’agro ferrarese; a est e a ovest si estendono per chilometri le risaie della pianura padana orientale. C’è talmente tanta acqua attorno a L’Olanda che il paese è nascosto dalla nebbia per diversi mesi l’anno. È probabile che, quando hanno scattato le fotografie aeree per disegnare le mappe stradali, sul paese gravasse una fitta nebbia e così hanno dimenticato di segnarlo.

    Un giorno Brogio aveva provato a cercarlo su un atlante e aveva individuato i paesi più vicini: Cologna, Berra e Serravalle in provincia di Ferrara; Crespino, Villanova Marchesana e Braglia in provincia di Rovigo; perfino il minuscolo paesino di Livello, sulla strada per Ariano Ferrarese, era segnato sulla carta. Ma nel punto dove avrebbe dovuto esserci L’Olanda c’era solo una piccola area bianca, forse la nebbia fotografata dall’aereo.

    Come nell’omonimo paese del Nord Europa gli abitanti di L’Olanda sono chiamati olandesi e il mezzo di locomozione più usato è la bicicletta. Raramente, però, le bicliclette degli olandesi padani sono in condizioni perfette e manca sempre qualcosa: i freni, i fanali, i catarifrangenti; su alcune manca perfino la sella ed è già molto se ci sono entrambi i pedali. Ma un accessorio che nelle biciclette degli olandesi non manca mai è il campanello. A causa della fitta nebbia, spesso presente anche nei mesi primaverili, gli olandesi hanno preso una singolare abitudine: onde evitare incidenti suonano il campanello della bicicletta quasi di continuo. E tanto per andare sul sicuro lo suonano anche quando splende il sole e la visibilità è ottima. Per farla breve, a L’Olanda si usa il campanello come a Napoli si usa il clacson. Per questo motivo la cittadina è ormai da tutti conosciuta come il paese dei campanelli.

    Comunque non fu a causa della nebbia che il villaggio, una cinquantina di anni prima, era stata ribattezzato L’Olanda, e nemmeno per il fatto di essere circondato dall’acqua. Il vero motivo nessuno lo conosce, ma da anni nei bar del paese si racconta una strana storia. Forse si tratta solo di una vecchia leggenda contadina, ma in questa terra di coltivatori di riso dagli occhi a ciliegia e di mondine dalle tette a pera tutti hanno sempre dato molto credito a ciò che si racconta, la sera, nelle osterie.

    Ebbene nelle osterie di L’Olanda, tra una mano di trionfo e una partita di briscola, si racconta la storia di Gigione Culone, al secolo Luigi Colasanti, il ragazzo che, secondo la leggenda, aveva salvato il paese dall’alluvione che nel novembre del 1951 devastò il Polesine. Luigi era detto Culone per via della sua stazza, e in particolare del deretano fuori del comune. Negli anni Cinquanta Luigi Colasanti era un ragazzotto come tanti; lavorava nei campi insieme al padre, e nei periodi di piena del Po si univa alle squadre di volontari che sorvegliavano l’argine per scoprire in tempo e segnalare eventuali tracimazioni o falle.

    Una sera, mentre controllava la zona di sua competenza, Luigi vide una grossa pozzanghera che si era formata alla base dell’argine. Pioveva a dirotto, e lampeggiava, ma quella specie di piccolo lago non poteva essersi formato a causa della pioggia e nemmeno della piena. Il Po era molto grosso e lambiva la sommità dell’argine; l’acqua, scura, schiumosa e piena di detriti, faceva davvero paura e si vociferava che in alcuni punti avesse cominciato a tracimare, ma in quella zona l’argine era molto alto e l’acqua, pur minacciosa, non stava ancora debordando. La pozzanghera doveva essersi formata per altri motivi.

    Tenendo alta la lampada a petrolio, Luigi scese lungo l’argine e si avvicinò alla pozza. Proprio in quel momento un lampo squarciò il cielo illuminando a giorno il paesaggio e Luigi vide il fontanazzo: era poco a monte della pozza e non sembrava particolarmente grosso, ma poteva crescere in fretta e minare la stabilità dell’argine. Luigi tirò fuori la pistola lanciarazzi, la diresse verso il cielo e tirò il grilletto.

    La pistola fece cilecca.

    Luigi riprovò a sparare due o tre volte, ma senza risultato. Forse l’arma era difettosa oppure troppo bagnata. In ogni caso con quella lui non avrebbe potuto avvertire nessuno.

    La pozzanghera, intanto, si allargava sempre di più. Se fosse andato di persona a cercare aiuto, forse non avrebbe fatto in tempo: l’argine poteva cedere da un momento all’altro. Il suo compagno più vicino doveva essere almeno a tre chilometri, e con quel suo culo enorme, per giunta avvolto nella tuta di gomma, non poteva certo mettersi a correre.

    Luigi maledisse quell’irrefrenabile appetito che lo aveva reso così grasso, ma alla fine si disse che le maledizioni non potevano risolvere il problema e, senza pensarci troppo, fece ciò che il suo istinto in quel momento gli suggerì: si diresse verso l’imbocco del fontanazzo e vi si sedette sopra. Se il suo sedere non gli permetteva di correre, lui l’avrebbe usato in modo più costruttivo.

    Lo ritrovarono il mattino seguente, esausto ma felice di aver salvato il suo paese da una possibile inondazione. E quando Gigione Culone seppe che il Po aveva rotto gli argini dalla parte di Rovigo e che tutto il Polesine era stato allagato, il suo soprannome non fu più per lui fonte di frustrazione, ma motivo di vanto. Il parroco del paese, per festeggiare e tramandare ai posteri quell’episodio – e memore, dagli anni della scuola, di un evento analogo che aveva avuto come protagonista un ragazzino olandese che, con il suo coraggio e con un dito, aveva salvato i Paesi Bassi dall’alluvione – propose e ottenne che il paese dei campanelli mutasse il suo nome da La Palude a L’Olanda.

    Girolamo Bassetti, il padre di Brogio, era un contadino di vecchio stampo, di quelli che dicono pane al pane e vino al vino. Era un omone grande e grosso, alto, muscoloso e pieno di peli. Aveva una voce forte, baritonale, e chiacchierava volentieri con tutti. Quando andava in piazza, nel giorno di mercato, anche in mezzo alla calca era sempre riconoscibile. Gli amici lo chiamavano Girolimoni, come il fotografo romano divenuto famoso, soprattutto grazie al film interpretato da Nino Manfredi, come il mostro di Roma. A lui quel soprannome non piaceva affatto, e aveva provato più volte a cambiarlo, ma senza successo.

    La moglie, Caterina Bontà, era una santa donna. Oltre che nel nome, aveva la bontà nel cuore e tutti la chiamavano Maria, in riferimento alla Madonna. Ma suo figlio, quando era con gli amici, la chiamava Susan Storm, come la famosa eroina dei fumetti definita la donna invisibile. Perché era proprio questo che Brogio pensava di sua madre: che fosse invisibile. Per dirla tutta, Caterina non era né alta né bassa, né grassa né magra, non vestiva mai in modo vistoso, parlava poco, e quando parlava diceva solo cose di buon senso, non scherzava mai, rideva raramente e mai in modo sguaiato, aveva poche amiche e quando usciva da sola era per andare a messa o a fare la spesa. Con Brogio era una buona mamma, lo sgridava poco e non lo aveva mai picchiato – a quello ci pensava suo padre – nemmeno una sculacciata. Insomma era una donna che, nell’ipotesi inverosimile che si fosse presentata a un concorso di bellezza, non avrebbe preso nemmeno un voto dalla giuria, ma non perché fosse brutta, bensì perché sarebbe passata del tutto inosservata.

    Se da un lato era invisibile, Caterina era instancabile sul lavoro. Girolamo era vice fattore di una grande azienda agricola. Caterina lavorava insieme al marito e faceva tutto quello che c’era da fare: guidava il trattore, raccoglieva la frutta, faceva i trattamenti antiparassitari, parlava con i commercianti per la vendita del prodotto. Tutto quello che faceva lui, anche lei era in grado di farlo. E a volte lo faceva anche meglio. In più aveva una casa e un figlio a cui badare. Girolamo, invece, come casalingo era proprio una frana. Quando tornavano dal frutteto, al tramonto, mentre la moglie si faceva in quattro per preparare la cena, fare il bucato e dare da mangiare al cane, lui si faceva una bella doccia e poi si spaparanzava sul divano davanti al televisore aspettando che fosse pronto in tavola.

    Girolamo non aveva una proprietà sua né i soldi per comprarsela. Una decina di anni prima era stato assunto come operaio nell’azienda agricola di Venanzio, un ricco imprenditore di Padova che non aveva né il tempo né la voglia di occuparsi personalmente del podere. La gestione dell’azienda era affidata a un certo Pericle, uomo di grande esperienza ma piuttosto avanti con gli anni. Dopo il pensionamento di Pericle, Venanzio aveva mandato sul posto un nuovo fattore di sua fiducia, tale Pietro Gamba, originario di Cavarzere, che aveva una moglie di nome Enrichetta, signora simpatica e gentilissima, e un figlio diciottenne chiamato Oreste. A L’Olanda non si era mai visto un ragazzo antipatico, bugiardo, ruffiano e attaccabrighe come lui. Brogio e i suoi amici lo avevano soprannominato Gambadilegno.

    Pietro Gamba aveva preso subito in simpatia Girolamo e lo aveva nominato vice fattore e responsabile dei frutteti. Grazie all’aumento di stipendio, dopo dieci anni di fidanzamento Girolamo aveva potuto coronare il suo sogno d’amore e sposare Caterina. Brogio era nato un anno dopo il loro matrimonio.

    Ambrogio Bassetti aveva quindici anni, frequentava il secondo anno del Liceo Scientifico ed era un ragazzo normale: altezza media, magro, con i capelli neri leggermente mossi. Assomigliava un po’ a Charlot, tranne per il fatto che lui non portava i baffi. Andava in

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