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L'orto fascista
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E-book207 pagine2 ore

L'orto fascista

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Info su questo ebook

Valle Camonica, 1943. Con l’occupazione tedesca, anche a Breno i fascisti hanno rialzato la testa. Nel bar Monte Grappa, tra un torneo di briscola e una bevuta, si ordiscono le trame e si ordisce un piccolo attentato, allo scopo di dare una lezione ai quei dannati tedeschi. Non tutto procede per il verso giusto. Persino i collaborazionisti, da don Pompeo alla “Signora Maestra” Lucia, stimata Custode dell’Orto Fascista, vengono coinvolti in una girandola di equivoci. Tra un sidecar che salta in aria e qualche rappresaglia, anche i bambini prendono parte a una singolare tragicommedia che a volte sfiora la pochade.
LinguaItaliano
Data di uscita3 lug 2017
ISBN9788868672522
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    Anteprima del libro

    L'orto fascista - Ernesto Masina

    pochade.

    I

    Il Federale aveva attraversato tutto il corso principale, ergendosi a bordo della sua vettura scoperta con la boria di un conquistatore e sventolando in alto la mano destra in un prolungato saluto romano.

    Rispondeva con sussiegosa cordialità ai tanti Eia! Eia! Alalà! delle camicie nere schierate ai lati della strada, alle quali si univa, più per convenienza o curiosità che per convinzione, qualche residente.

    Con la mente unicamente rivolta a Roma e al suo Duce, era giunto, circondato da un nugolo di camicie nere, a inaugurare il locale Orto di Guerra, detto anche Orto Fascista.

    Dopo aver lanciato nel 1925 la Battaglia del Grano, Mussolini, vista la situazione economica dell’Italia, da sempre dipendente dall’estero nel settore agro-alimentare, aveva indetto la campagna dell’Orto di Guerra, invitando tutti i comuni d’Italia ad affidare alla popolazione la coltivazione delle aree pubbliche. Si era in piena guerra, tra il 1941 ed il 1942.

    L’invito, che era sentito come un obbligo dagli amministratori locali, timorosi di essere giudicati dei sovversivi se non si fossero adeguati in tempo agli alti insegnamenti del Duce degli italiani, in Valle Camonica non era stato accolto con grande entusiasmo.

    Persino a Breno, considerato il paese della valle più vicino al Duce e agli ideali fascisti, tanto da annoverare tra i suoi concittadini più illustri persino un docente di Mistica Fascista all’Università di Milano, la creazione dell’Orto era stata continuamente rinviata.

    Alla fine il Segretario della locale sezione del Partito Nazionale Fascista aveva costretto il Podestà a prendere una decisione:altrimenti avrebbe informato il Segretario Provinciale dell’ostruzionismo del primo cittadino al volere del Duce.

    E fu così destinato a diventare Orto Fascista un piccolo appezzamento di terreno, pieno di sassi ed erbacce, situato infondo al paese, giù verso il fiume, requisito a un contadino,,tale Bettino Brichetti, notoriamente antifascista.

    Dopo che le squadracce in camicia nera gli propinarono tre abbondanti bevute di olio di ricino nello spazio di due mesi, egli abbandonò il paese rifugiandosi, così si diceva, presso un parente nella pacifica Svizzera.

    Giunto all’Orto Fascista, il Federale di Brescia scese dalla vettura, che aveva percorso gli ultimi cento metri della strada sballonzolandolo a causa del pessimo stato dell’acciottolato.

    Ad imitare il Duce - tutti i gerarchi cercavano di farlo – appoggiate le mani ai fianchi, petto in fuori, pancia in dentro, aveva, con voce tonante, iniziato ad arringare la folla sostenendo l’importanza vitale di queste istituzioni che in tempo di guerra e in attesa dell’immancabile vittoria finale, assicuravano all’Italia combattente cibo sicuro, e ai giovani, con la coltivazione del campo, la partecipazione al raggiungimento del traguardo fascista che voleva l’Italia autosufficiente in tutto.

    In effetti il campo non misurava più di 30 metri per lato, era infestato da erbaccia ostinata, pungente e primordiale e pareva chiaro che la qualità del terreno non avrebbe potuto generare che qualche stentato tubero.

    Mentre parlava, il Federale si accorse che, nel tentativo di mascherare una poco maschia pancetta e trattenendola il più possibile, i suoi pantaloni, non più sostenuti dalle abituali rotondità, stavano scivolando verso il basso. Si affrettò così a concludere il discorso e, dopo aver urlato con la

    completa estensione delle sue corde vocali DUCE ed aver ricevuto in risposta un altrettanto roboante A NOI!!!!, si era chinato rapidamente verso un cuscino nero, portato da un Figlio della Lupa, ovviamente in divisa.

    Dal cuscino, sul quale era ricamato in oro un fascio littorio, aveva prelevato un paio di luccicanti forbici ed aveva tagliato, tra gli applausi, un simbolico nastro tricolore che due avanguardiste, in camicia e calze bianche, basco e gonnellina nera, tenevano teso all’altezza di un varco nella siepe che delimitava il campo.

    Il Podestà, che era stato sino a quel momento in disparte in doveroso silenzio, si avvicinò al Federale, gli strinse, con devozione e quasi genuflettendosi, la mano e passò quindi a presentare alcune dame intervenute alla cerimonia, alle quali il Federale, battendo romanamente i tacchi dei lucidissimi stivali, fece un cavalleresco baciamano.

    Fra le signore spiccava per statura e bellezza la moglie del Podestà, signora Lucia, maestra presso le locali scuole, che era stata nominata Custode dell’Orto Fascista.

    Fu quindi la volta dei notabili: il Pretore Battipede, il Direttore del locale ospedale, prof. La Villa, l’avvocato Vitali, squadrista della prima ora, il medico condotto, dott. Pasqualicchio, il Maresciallo dei Reali Carabinieri ed il Prevosto, mons. Cappelletti che, dopo l’ossequio, chiese al Federale l’autorizzazione alla benedizione del campo ove, con l’aiuto di Dio, per maggior gloria del Duce, senza esborso di alcun talento, giovani mani avrebbero dal terreno tratto frutti in abbondanza.

    Dopo il pranzo presso il miglior ristorante del paese, ribattezzato per l’occasione Ristorante Impero, il Federale se ne era ritornato a Brescia, portando con sé il ricordo dell’affascinante moglie del Podestà.

    Da quel giorno i suoi pensieri più ricorrenti erano ispirati dal Duce e dalla sublime visione della signora Lucia.

    Archiviata la cerimonia, venne abbandonato, almeno per il momento, anche ogni progetto di coltivazione dell’Orto Fascista.

    Le notizie che arrivavano sull’andamento della guerra, pur se efficacemente censurate, facevano intravedere la debolezza dell’Italia e creavano qualche imbarazzo all’amministrazione fascista.

    Ma, passata l’estate ed avvicinandosi l’apertura delle scuole, la signora Lucia, o meglio la maestra signora Lucia, come tutti la chiamavano, si ricordò di essere stata nominata Custode dell’Orto Fascista. Bisognava che all’inizio dell’anno scolastico si provvedesse alla nomina di squadre di bambini, della quarta e della quinta classe, perché si dedicassero alla nuova incombenza procedendo alla semina di qualche ortaggio o di patate, piante adatte al povero terreno.

    II

    La signora maestra era diventata moglie del Podestà, il rag. Benvenuto Bertoli, ai tempi impiegato di buon livello della direzione della Banca di Valle Camonica, perché, stufatasi

    di correre la cavallina, aveva pensato bene di accasarsi con l’ultimo dei suoi amanti.

    Aveva fatto la moglie fedele per qualche tempo ma, quando il marito le confidò le sue mire politiche, pensò di potergli dare una mano circuendo qualche pezzo grosso del fascismo locale.

    Le grazie non le mancavano, l’esperienza nemmeno. Il marito, facendo finta di nulla vedere e nulla sentire, non la ostacolava certo. Il gioco le piaceva, appetiti sessuali ne aveva, trascurata sempre più dal coniuge che, finito il lavoro in banca, si dedicava anima e cuore al Partito.

    Cominciò quindi a darsi da fare.

    A 37 anni era, probabilmente, all’apice della sua bellezza. Un paio di gambe lunghe e ben tornite sorreggevano due chiappe sode che formavano un gran bel sedere. I fianchi, un po’ larghi, terminavano in una vita snella e priva di qualsiasi traccia di grasso. Il seno, alto e sodo, non era particolarmente grande ma prominente, i capezzoli piccoli sembravano, come direbbe il poeta, due ciliegie mature. Il viso, modellato da lunghi capelli neri sempre ben pettinati, era dominato da un paio di occhi verdi che, secondo la luce del giorno, sfumavano verso l’oro. Un gran bel pezzo di donna, insomma.

    La prima occasione si era presentata l’anno successivo al matrimonio, quando la maestra era stata mandata, insieme a due colleghe, ad accompagnare le classi quarta e quinta a Pisogne, all’inaugurazione del nuovo pontile sul lago d’Iseo, chiara opera in stile fascista con i pali di sostegno della passerella trasformati in fasci littori.

    Vi partecipavano tutte le autorità della valle ed era stata assicurata anche la presenza del Segretario Provinciale del partito se non occupato in altri importanti incarichi.

    Il Segretario, tale Manucelli Abramo, era un reduce della guerra di Spagna, ove si era messo in vista per la collaborazione e per il servilismo che aveva dimostrato nei riguardi dei franchisti e si era specializzato nell’interrogatorio dei rossi che cadevano nelle loro mani. Non lo faceva con cattiveria, ma con la furbizia caratteristica dei contadini lombardi, e riusciva a far dire agli avversari cose che non avrebbero confessato nemmeno tra le peggiori torture.

    Ben altra storia aveva vissuto in Africa. Partito volontario all’inizio della guerra, pochi giorni dopo essere arrivato in Libia aveva contratto l’ameba, una brutta infezione che dava febbri abbastanza brevi ma violentissime, precedute da brividi, tremori e spasmi muscolari che lasciavano, al loro scomparire, una spossatezza totale e dolori alle articolazioni. Dopo il primo attacco era stato immediatamente rimpatriato e la sua avventura in terra d’Africa definitivamente chiusa.

    Il Manucelli era soprannominato longa manus, sia perché curava gli interessi lombardi di alcuni pezzi grossi del fascismo trasferiti a Roma al seguito del Capo, sia perché, appena possibile, cercava di palpeggiare le parti morbide di qualsiasi donna gli capitasse a tiro.

    Egli, che già soffriva di complessi per il nome che i genitori gli avevano appioppato, più difficile da portare ora che le leggi razziali stavano per essere promulgate, in effetti non aveva mai combinato molto con le donne, ma lasciava che la leggenda sul suo conto proliferasse. Era sempre in caccia e attentissimo a cogliere qualsiasi occasione propizia.

    La maestra e le sue colleghe erano arrivate a Pisogne con il trenino che percorreva la Val Camonica e arrivava sino a Brescia, in divisa regolamentare: camicia e calze lunghe e bianche, gonna e scarpe nere, basco nero sulle ventitré, molto civettuolo.

    Lucia era veramente uno splendore e attirava lo sguardo compiaciuto di molti presenti, uomini e donne.

    Le colleghe decisero che sarebbe salita lei sul palco delle autorità in rappresentanza della loro scuola. Nonostante non ne avesse assolutamente voglia, dovette accettare per l’insistenza delle altre maestre.

    Nel frattempo era arrivato il Manucelli, a bordo della solita vettura decapottabile, tra gli urlacci dei camerati che inneggiavano al Duce e al suo devoto Segretario della provincia di Brescia.

    Ancora sull’auto, rimanendo in piedi sul predellino che gli permetteva di non mostrare la statura assai bassa, il Manucelli sfoderò ampi saluti romani verso il palco, alla sua destra, alla sua sinistra e, non si sa per quale ragione, anche verso il lago. La cosa non sfuggì al solito gruppetto di elementi contrari al regime che, pur rischiando la solita purga a base di olio di ricino, sghignazzarono rumorosamente.

    Il Segretario, nel tentativo di manifestare giovinezza e forza fisica, raggiunse il palco saltellando da uno all’altro dei pochi scalini che vi salivano. Ancora una volta si rivolse ai presenti accettando gli applausi e salutando romanamente.

    Il palco si era riempito delle autorità e dei rappresentanti delle varie associazioni e scuole che, strattonandosi senza alcun riguardo, cercavano di portarsi in prima fila vicino al Manucelli.

    In tutto questo trambusto Lucia, che avrebbe preferito rimanere defilata, si trovò spinta a fianco del Segretario che la guardò intensamente, spogliandola con lo sguardo e rimanendone assolutamente soddisfatto.

    L’ingegnere Domeneghini, progettista del pontile e direttore dei lavori, nonché, guarda caso, Podestà del paese, si avvicinò al microfono e, cercando di non dare le spalle al Segretario Provinciale, iniziò a parlare dando il benvenuto alle autorità, ai capi delle rappresentanze e a tutti i presenti, passando, poi, ad illustrare la nuova opera voluta dal Fascismo e dal suo Duce per il miglioramento della navigazione sul Lago di Iseo.

    Appena il Domeneghini iniziò a parlare, Lucia sentì una mano palpeggiare la sua chiappa sinistra, scendere velocemente verso la parte interna della coscia per ritornare poi da dove era partita prendendone decisamente possesso.

    Il primo istinto fu di rifilare un gran ceffone al cafone che si era permesso tali avances, ma, immediatamente, si rese conto che il palpeggiatore non era altri che il Segretario Provinciale e che tra lei e la folla non c’era che qualche metro. Avrebbe quindi provocato uno scandalo e una sicura ritorsione nei suoi confronti e in quelli di suo marito. E poi... tutto sommato, quella strizzatina non le dispiaceva per nulla. Per fortuna il Domeneghini non si addentrò nei particolari tecnici che avevano permesso la realizzazione dell’opera, cosa che, pedantemente, cercava di infilare sempre nella presentazione delle costruzioni realizzate su suoi progetti.

    Progetti che, riteneva, comprendessero sempre soluzioni ardite ed innovative.

    Si limitò a spiegare come la parte mobile del pontile si sarebbe comportata in situazioni di secca del lago o, al contrario, di aumento dell’altezza della superficie dell’acqua, e terminò inneggiando al Partito Fascista e al suo Duce "ispirato direttamente da Dio per rendere l’Italia grande e forte

    tra le nazioni civili!".

    Poi il solito DUCE! con l’immancabile risposta della folla A NOI!.

    Dopo il Domeneghini fu il Segretario Provinciale a prendere la parola. Il discorso, nella sua ovvietà, fu brevissimo, come se il Manucelli avesse altro per la testa, e chi pensò questo certamente

    non sbagliava.

    "Camerati, siamo qui riuniti per ringraziare ancora una volta il nostro Duce supremo che, nonostante i grandi problemi che lo assillano, ha desiderato che venisse compiuta questa opera per il miglioramento della vita del suo popolo.

    Come figli grati facciamo voti perché, col sostegno della nostra riconoscenza, possa avere la forza di continuare a guidarci verso l’immancabile vittoria finale".

    Scroscio di applausi. Duce a noi! Eia! Eia! Alalà!

    Dopo la benedizione della nuova opera da parte del parroco di Pisogne, l’assemblea si sciolse e il Manucelli chiamò a sé un gruppo di suoi seguaci con i quali discusse animatamente per diversi minuti, dando a ciascuno un compito da portare a termine.

    Ci si trasferì quindi in municipio ove, nella sala consiliare, era stato predisposto un ricevimento al quale parteciparono praticamente tutti quelli che erano stati sistemati sul palco delle autorità.

    Lucia si staccò dal gruppo cercando di raggiungere le sue college e i bambini, ma fu dissuasa dal farlo, presa letteralmente per un braccio da un milite fascista che, senza fornire alcuna spiegazione, la accompagnò in municipio.

    Erano già le 17: Lucia era sulle spine perché lei e le sue colleghe dovevano prendere il trenino della linea Brescia-Edolo, detto il Gamba de- legn a causa della sua lentezza, che partiva da Pisogne per Breno alle 17.25.

    Va beh che uno dei vanti del fascismo era la puntualità dei treni, ma ciò si riferiva alle linee primarie (che erano poi laMilano-Firenze-Roma-Napoli e la Torino-Milano-Venezia) mentre nelle secondarie, che ricoprivano la maggior parte della rete, regnava

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