La guerra dei multimondi: l'infiltrato
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… anche quella notte gli incubi hanno picchiato particolarmente duro, ma questa volta gli è capitato qualcosa di ancor più inquietante: nel computo dei giorni gli mancano una domenica e un lunedì, e sembra proprio che non si possa risalire a quello che ha fatto dal sabato sera al martedì mattina.
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Qualche ora prima del tribolato risveglio di Giorgio, un misterioso personaggio aveva fatto ritorno alla città che aveva amato tanti anni prima, e rivive sensazioni, profumi, rumori che credeva di aver confinato nella memoria.
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Lara, quarantenne ricercatrice di filologia bizantina e moglie di un pezzo grosso del Parlamento della Repubblica, è afferrata da un misterioso trasalimento che la costringe a sospendere il colloquio con un giovane laureando e a scendere nel grande cortile dell’Istituto.
Il generale dei Carabinieri Sebastiano Corrias cerca di dare una mano alla figlia, giovane Procuratore che indaga sull’efferato omicidio di uno scialbo individuo.
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In un laboratorio andino a quattromila metri d’altezza, due scienziati mayacinesi del Venerabile Ufficio Imperiale per le Comunicazioni captano un segnale dal significato inequivocabile: due mondi vergini, separatisi nell’anno che entrambi chiamano il 1983, stanno entrando in contatto e forse in collisione.
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Anteprima del libro
La guerra dei multimondi - Alberto Costantini
Alberto Costantini
decorationLa guerra dei multimondi
l'infiltrato
© 2021 – Gilgamesh Edizioni
Via Giosuè Carducci, 37 - 46041 Asola (MN)
gilgameshedizioni@gmail.com - www.gilgameshedizioni.com
Tel. 0376/1586414
ISBN 978-88-6867-384-0
È vietata la riproduzione non autorizzata.
In copertina: Progetto di copertina di Dario Bellini
© Tutti i diritti riservati.
ISBN: 978-88-6867-384-0
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Indice dei contenuti
Le leggi dell'ucronia
Prologo
L’Infiltrato
Epilogo
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ANUNNAKI
Narrativa
Le leggi dell'ucronia
[1] I sentieri di Ucronia, Premio Urania 2002 (Pubb. Terre accanto 2003, Arnoldo Mondadori Editore).
Prologo
L’Inferno. Forse…
«Benvenuto, signor Settali, era da un po’ che la aspettavamo!»
Giorgio non riconobbe la voce, e anche i tratti di quel volto non gli suggerivano nulla più di un naturale orrore da vecchia fotografia sfocata; eppure, sapeva che avrebbe dovuto conoscerlo.
«Ma… dove sono?»
«Oh, sì, sì, dài, lo ripeta ancora, signor Settali, la prego, lo ripeta: è così - come dire? - gratificante, quando te lo chiedono! Mi creda, di meglio c’è solo il brivido di piacere che ti corre giù per la schiena quando gli rispondi: ehi, è l’inferno, tesoro! sei arrivato a casa. Giuro, per soddisfazioni come queste, vale la pena giocarsi l’anima.»
Giorgio si chiese perché adesso non vedeva più quel volto flaccido dagli occhi troppo gonfi.
Gli sembrava che l’immagine evanescente appartenesse a una donna; sì ne era quasi sicuro, e anche la voce stridula era chiaramente femminile. Avrebbe voluto sollevare lo sguardo per trovarne conferma, ma un peso gli gravava sulla nuca, come il giogo che piega il docile collo dei buoi. La mano, passando tremante accanto alle tempie, si bagnò dell’angoscioso sudore che gli incollava i capelli, e già anticipava lo scabro del legno. Ma non c’era nulla sopra di lui, nulla che lo imprigionasse. Pareva piuttosto che gli avessero piegato la testa in giù, a forza, e che una paralisi improvvisa l’avesse poi bloccato in quella innaturale posizione. Provò allora a volgere gli occhi verso l’alto, ma l’unica cosa che distingueva nel buio era un cerchio luminoso sopra la sua testa che rimpiccioliva, rimpiccioliva a vista d’occhio; fu certo che quell’occhio spalancato non si sarebbe fermato finché non avesse percorso i seimilatrecentosettantuno chilometri che lo separavano dalla superficie della Terra.
Perché l’inferno?
Cosa aveva fatto per meritarselo?
Non era giusto, non gli avevano dato neppure la possibilità di giustificarsi, di discolparsi.
Non erano queste le regole.
Come quella volta che la maestra lo aveva cacciato dietro la lavagna, senza lasciargli il tempo di spiegare le sue ragioni: la frustrazione aveva reso folle il piccolo Giorgino, scolaro di Seconda C. Ricordava di aver stretto le sue labbra carnose di bambino fra i denti fino a farne colare un rivoletto di sangue, perché non era giusto: lo sapeva, la maestra, che era stata Maria Grazia a copiare, non lui. Lui non copiava, lui era uno scolaretto obbediente, lui.
E allora, perché la maestra l’aveva mandato all’inferno?
«Ti stai già chiedendo quale sarà la pena, giovanotto?»
Eccola tornata la voce, ma era quella di Mazzoni, il sergente carogna che gli aveva avvelenato i primi mesi di militare, l’unico essere vivente che avesse realmente odiato in vita.
La rabbia lo spinse a portarsi le mani alla faccia: erano rosse, screpolate dalle dita sino ai polsi, e da quei crepi gli usciva una sostanza blu. Sì, lo riconosceva, era quel maledetto liquido di contrasto; eppure, l’aveva ripetuto fino alla nausea ai medici che gli avrebbero intossicato per sempre il sangue; e infatti il suo sangue era diventato bluastro. Per colpa loro, ora doveva nascondere le mani, che se la maestra lo avesse visto così, gliele avrebbe tagliate con il trinciapolli, quelle mani, un dito alla volta. Il dolore delle articolazioni che saltavano via sotto la pressione metallica delle lame lo costrinse a estrarre le mani dalle tasche; ma perché non riusciva più a contare con le dita? Una, due, cinque sette, no… doveva ricominciare, le avrebbe ricontate all’infinito, finché le falangi mozzate non fossero ricresciute.
E quegli uomini in camice verde lo avrebbero squarciato di nuovo, lacerato, sezionato con i loro bisturi affilatissimi.
Mi stanno operando, ancora. Ma quando ho avuto l’incidente? Non è possibile che non ricordi nulla.
Le iniezioni gli pompavano altri veleni e altre droghe nelle vene, e giù giù negli alveoli dei polmoni rigonfi; il suo corpo stesso si preparava a esplodere, disseminando coriandoli rossi nel cielo.
«Mamma, guarda, il palloncino…»
« Interrompete la somministrazione. Sono le ore 5.09.»
Il Paradiso. Forse…
Il temporale estivo aveva infierito l’intera notte, ma per farsi perdonare aveva lasciato l’eredità di un cielo così terso che quasi si poteva distinguere la lontana catena dei Monti del Falco, perennemente innevati.
Sari-tha continuava a rimandare il momento di raccogliere gli strumenti e rientrare nel rifugio. Le restava poco più di una lunazione prima che giungesse il tempo di fare i bagagli, e gli ultimi giorni li avrebbe dovuti usare tutti per stendere la relazione, per cui niente più uscite al di fuori di quelle canoniche. Certo, un po’ di nostalgia di casa la sentiva, ma una volta tornata in pianura le sarebbe mancata la frescura della montagna; anche perché l’Onorevole Puy-Sako sembrava intenzionato a riportare nelle Terre Originarie il Laboratorio Centrale, e se il suo Goyod-Tor fosse stato promosso, avrebbero trascorso almeno una decina di anni nel cuore della Grande Foresta, stretti fra l’inferno verde-umido di fuori e l’algida aria condizionata degli uffici.
Ma era il lavoro che aveva scelto lei.
E Goyod-Tor l’uomo con cui aveva promesso, al cospetto degli dei, di trascorrere la sua vita.
« Pelonero!»
Il cane compì un paio di giri attorno a lei, prima di venire a farsi accarezzare. Forse si sentiva in colpa, perché quando gli aveva proposto di accompagnarla nella passeggiata, aveva guardato fuori ed era andato ad infilarsi sotto le coperte del padrone.
Ahia… bigliettino infilato nel collare, sinonimo di brutte notizie. «Vieni qua, brutto pelandrone!»
Il cane obbedì e le leccò il viso. Come aveva immaginato. Quindi, non si trattava di contatti isolati e fortuiti, erano proprio all’inizio di una crisi.
L’ultimo tratto del sentiero era tutto in discesa, e questa era una buona cosa, dopo una scarpinata simile. Pensare sempre al bello e al buono, era il motto imposto all’Istituto da Puy-Sako. Respirare a fondo, sgomberare la mente da ogni considerazione prematura o negativa. Sorridere.
Prima di entrare, si spogliò dei vestiti da escursione, fece una rapida doccia, si rilassò per cinque sessantesimi tenendo gli occhi chiusi, quindi si pettinò, si cambiò d’abito e si truccò accuratamente. Poi si guardò allo specchio. Sì, così poteva presentarsi al suo onorevole sposo.
Goyod-Tor aveva preparato la colazione: the indiano ancora caldo, biscotti al cacao, succo di frutta.
Il rifugio Yakawiz, come tutti quelli che dipendevano dal Dipartimento, era rigorosamente diviso in due parti: quella dove si lavorava e quella dove le coppie di scienziati trascorrevano la loro vita insieme nei lunghi mesi del loro turno; la regola era che il minuscolo appartamento annesso doveva essere tenuto ordinato e pulito come se quel giorno stresso fosse venuto in visita l’Imperatore, soleva ripetere la vecchia Tai-go, veterana dei laboratori di rilevazione. Cosa abbastanza improbabile, giacché erano seicento anni che Sua Divina Maestà non si allontanava dalla Città delle Città.
Che poi, non c’era una ragione specifica per cui i laboratori di ricerca si dovessero trovare su isole deserte o in cima alle montagne; si diceva che così i segnali arrivavano meno disturbati. Ma forse era solo una tradizione, la cui origine si perdeva nei tempi oscuri di prima che venisse rivelata agli antenati la Divina Arte della Contemplazione dei Mondi, come era definita nei documenti ufficiali.
Era stata lei a decidere come arredarla, e la spedizione coi muli e i lama aveva trasportato, assieme alle provviste, i libri, le stampe di famiglia, persino il tavolino di casa.
Sari-tha salutò con un inchino il suo onorevole sposo, che rispose con un gesto di cortesia, invitandola ad accomodarsi e offrendole la mano per aiutarla a sistemarsi senza gualcire il vestito di seta.
Sari-tha sedette sul cuscino e sorbì il the, intingendo di tanto in tanto mezzo biscotto e sollevando gli occhi per esprimere la doverosa gratitudine della buona moglie al suo uomo.
Quando ebbero terminato, fu lei a raccogliere le preziose tazzine di porcellana e a riporle nel catino. Le avrebbe lavate con comodo, prima della colazione di mezzogiorno. Lo aiutò a indossare la tunica da lavoro, si spogliò del corto abitino, appoggiandolo sul baule e infilò il suo camice. «Sono pronta» disse sorridendogli.
Lui le diede un bacio in fronte e la fece passare nella sezione laboratorio.
«Allora, è successo ancora?»
«Guarda tu stessa» disse lui sfiorando lo schermo col polpastrello.
«Sempre dallo stesso punto d’origine…»
«Esatto. E sempre la medesima destinazione.»
«Cosa stanno usando, secondo te?» chiese Sari-tha.
«Il Daleth, puro. O addirittura un suo composto potenziato, lo spettrometro non è chiarissimo. Non oso pensare al disgraziato che stanno trasferendo e al suo omologo che deve sopportare l’intrusione.»
«Lavorano in coppia di scambio, o inducono il coma nel destinatario?»
«Non lo sappiamo» disse lui «ma sulla base della mia esperienza, direi che utilizzano una permuta sincrona.»
«Sono dei pazzi. Ne hai parlato con La-Dayo?»
«Sì, si sta chiedendo anche lei come abbiano fatto a inserirsi nella Rete senza essere stati contattati dal Comitato di Valutazione. Io ho una mia teoria: hanno captato casualmente un messaggio mentre cercavano qualcos’altro, e hanno iniziato a farsi delle domande.»
«È possibile; ma il Daleth? Come gli è venuto in mente di usarlo?» insistette la donna.
«Potrebbero averlo sintetizzato per scopi che non conosciamo… sì, hai ragione: troppe coincidenze. Però adesso abbiamo un problema.»
«Ossia come lo utilizzeranno. Per scopi pacifici, o per creare danni all’intero Sistema?»
«Purtroppo, di loro non sappiamo quasi niente, o meglio, non sapevamo, perché, se conosco la nobile La-Dayo, fra qualche giorno avremo tra le mani un dossier molto, molto dettagliato.»
«Speriamo. Per ora, una cosa sola è certa: abbiamo terminato con le passeggiate. Capito, Pelonero?»
Il fruscio della stampante li avvisò che le pagine del dossier li stavano raggiungendo, e tanta sollecitudine non era un buon segno, così come il fatto che si trattasse soltanto di poche pagine: problema grosso, informazioni scarse.
Sari-tha raccolse i fogli caduti a terra e buttò l’occhio sui geroglifici che componevano l’intestazione dei paragrafi.
Benché l’intera faccenda lo turbasse, Goyod-Tor aspettò educatamente che la sua donna avesse terminato di scorrerli.
«Hanno iniziato a comunicare, vero?»
Sari-tha scosse la testa sconfortata:
«Un mondo che, se i dati economici di previsione sono corretti, di qui a poco affronterà la peggior crisi della sua storia recente; un ambiente ai limiti del collasso; un miliardo di miserabili sull’orlo della fame; arsenali rigonfi di armi; decine di conflitti di religioni, razze, classe, interessi, in corso; una pletora di piccoli e grandi dittatori, più o meno pazzi e spietati…»
«Non c’è da stupirsi se quei disgraziati stanno utilizzando la tecnologia del daleth per comunicare con un mondo più tranquillo» disse lui porgendo la mano per farsi consegnare il dossier.
«È quello il mondo più tranquillo, Goyod-Tor.»
L’Infiltrato
Padova,
18 dicembre 2006
All’uscita della galleria, il mondo riapparve in tutta la sua lucente bellezza. Il cielo, che aveva lasciato grigio e immalinconito all’imbocco del tunnel, s’era colorato di turchino, e sullo sfondo le cime irregolari delle Prealpi orlavano l’orizzonte illuminate dal primo sole del mattino. Nello scompartimento l’aria era viziata dai troppi pendolari del lunedì; eppure, anche quegli effluvi provenienti dai cappotti impregnati di fumo gli davano la frizzante ebbrezza di un’aria d’alta quota. Un’ebbrezza che usciva danzando da un universo di lontanissimi ricordi.
Quel tempo c’era stato anche per lui: un tempo per arrivare presto a tenere il