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La vodka è finita
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E-book511 pagine6 ore

La vodka è finita

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Info su questo ebook

Roma, estate 1982. Oscar de Flavis, boss di quartiere da anni in carcere, viene ucciso per un regolamento di conti. Da quel giorno suo figlio Ugo lotta tra la scelta di una vita diversa, l'università e l'amore per Nina. Dopo una rissa con un tossico che cerca di rapinarlo, Ugo sente il richiamo della vita violenta, quella incarnata da suo zio, e decide di entrare a ogni costo nel “business” di famiglia. Si arriva al 1989. Una rapina in un supermercato andata storta costringe Ugo a prendere un ostaggio che si rivelerà molto scomodo; l’uomo, infatti, è il fratello di un potente petroliere. Inizia così un saliscendi di vicende criminali e vite nascoste che si intrecciano con interessi politici e i grandi cambiamenti internazionali.Il muro di Berlino crolla, così come il sistema che lo ha sorretto per anni. E niente sarà più come prima.
LinguaItaliano
Data di uscita3 set 2015
ISBN9788868810702
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    Anteprima del libro

    La vodka è finita - Alessandro Bernardini

    Leviatano

    G. 9 novembre 1989

    Antifaschistischer Schutzwall.

    Barriera di protezione antifascista. Così fu definito il muro di Berlino da Horst Sindermann (Dresda, 5 settembre 1915 − Berlino, 20 aprile 1990), Presidente del Consiglio dei ministri della Repubblica Democratica Tedesca e poi Presidente della Camera del popolo fino al 1989. Occhiali spessi. Faccia piena di grinze. Quasi completamente calvo. Un sorriso appena accennato ai flash dei fotografi.

    Il 9 novembre 1989 dopo ventotto anni, quindici ore e trentotto secondi la barriera di protezione antifascista cadde giù. Come una torta nuziale stracolma di panna che lentamente si inclina in avanti.

    G. si sedette davanti al camino. Voleva stare solo. Tutto il mondo puntava l’indice contro di lui. È lui il salvatore!. Prese un bicchiere e ci guardò dentro come faceva da bambino con le pozze di neve e fango di Privol’noe. Buttò giù il più lungo sorso di vodka della sua vita. Pensò a Brezhnev che di certo l’aveva sempre battuto in fatto di vodka.

    ​Prologo

    16 giugno 1982. Carcere di Regina Coeli. Roma.

    Caro Guido,

    qui dentro è uno schifo. Fa caldo e non riesco a respirare. È pieno di mosche e zanzare. Il senso del tempo sta sbiadendo come la mia faccia allo specchio. A volte un giorno è meno di uno schiocco di dita. Altre volte è uno stillicidio che ti strappa i pensieri dalle tempie. Tu dirai:Ma che cazzo dice questo? Si è dato alla poesia? Una poesia che fa pure schifo?.

    Non lo so, è che sento che sta per accadere qualcosa. Ho trovato quello che stavo cercando. È arrivato il tempo di pareggiare i conti.

    Ti prego di prenderti cura di Aida, sempre se riuscirà a smettere di odiarti, e prenditi cura soprattutto di Ugo.

    In caso di necessità, usa i mezzi che conosci e non fargli mancare niente. Ti prego di non venire a trovarmi fino a quando non te lo dirò io.

    Un abbraccio.

    Oscar

    Lo Zio ripiegò in quattro la lettera. Si allentò il nodo della cravatta Valentino. La paura.

    23 giugno 1982. Restituire il favore

    L’acqua scendeva a singhiozzi, il calcare aveva quasi completamente otturato i buchi della doccia. Nessuno ci avrebbe messo mano. Lui, come al solito, prima di iniziare a lavarsi tentò di scrostarne via un po’ con l’unghia del pollice. Funzionava: riuscì almeno a ottenere un getto d’acqua più regolare.

    Il pavimento dei bagni era un tappeto di capelli, muffa e peli che galleggiava perennemente in un centimetro d’acqua. Puntando gli occhi a terra provò disgusto per se stesso, per il fatto che quello schifo non gli faceva più effetto. Non usava mai l’acqua calda. Aveva imparato ad amare alcune cose assurde che fuori di lì non avrebbe neanche preso in considerazione: il colpo allo stomaco che l’acqua fredda gli dava, la mancanza di respiro che per un attimo lo portava via dalla sua condizione di recluso.

    Non riusciva a pensare ad altro. L’avrebbe fatto durante l’ora d’aria, nella confusione, magari nel bel mezzo di una partita di pallone, quando tutti sono presi dalla concitazione per un cross sgangherato. Aveva rimediato un punteruolo da ghiaccio. Infilato nel polmone sinistro non gli avrebbe lasciato scampo. Sapeva come doveva fare: prima spingere forte e trapassare le ossa, poi ruotare il polso in modo da recidere ogni resistenza. Rise. Gli avevano rovinato la vita e adesso lui poteva restituire il favore. Doveva farlo.

    Mise una piccola quantità di shampoo nel palmo della mano e delicatamente iniziò a massaggiarsi i capelli. Un po’ di schiuma gli entrò nell’occhio sinistro. Tentò subito di sciacquare via il bruciore. Si girò con la faccia verso la parete, inclinando la testa all’indietro in modo che l’acqua facesse effetto il prima possibile.

    La botta gli arrivò proprio sulla nuca.

    Il suo corpo robusto crollò come quello di un burattino libero dai fili. Il naso si fracassò sul muro e il sangue in un attimo si fece rosa mischiandosi all’acqua. Perse conoscenza. I tre lo girarono a pancia in su e lo colpirono a turno con due fendenti a testa. Al petto, allo stomaco e sul collo. Il più grosso gli poggiò l’indice e il pollice sulla gola, guardò gli altri due e fece di sì con la testa.

    Il cuore non batteva più. Uscirono senza fretta.

    6 luglio 1982. Prima

    Il vomito arrivò come un proiettile tra i denti. I suoi occhi si spalancarono e la pelle del collo tirò fino quasi a strapparsi. Sentì la spina dorsale uscirgli dalla bocca.

    I resti di una colazione mangiata controvoglia. Era il prologo di una giornata di merda.

    Ugo rialzò la testa. Si guardò attentamente nello specchio, e per un attimo non si riconobbe. Aveva la faccia deformata: le guance rosso sangue, le narici dilatate, gli occhi lucidi e un velo di sudore freddo che gli imperlava la fronte.

    Gli era già capitato. Come quella volta che i fratelli Romualdi l’avevano pestato perché gli era giunta voce che lui se la faceva con la sorella. Non era vero, ma Ugo li aveva sfidati lo stesso. Era riuscito a malapena a dare un sinistro a quello più grosso. Se stendi il più grosso, il più è fatto, così si fa. Quello non si era mosso di un centimetro. Poi era tornato a casa con il labbro aperto, un dente scheggiato, il naso sanguinante e un sopracciglio tumefatto. Allora sì che proprio non si era riconosciuto. Quelli non sapevano di chi fosse figlio e nipote. Erano tornati in ginocchio a scusarsi. Lui non l’aveva detto a nessuno, perché sapeva che cosa sarebbe capitato ai due fratelli se suo padre o suo zio l’avessero saputo. Si era preso le botte e li aveva protetti. Aveva voluto vedere che cosa significasse, per una volta, essere come gli altri.

    Lui non era mai stato come gli altri.

    Stavolta era solo a causa del vomito. Sapeva che sarebbe passato subito, giusto il tempo di mettersi a fuoco la faccia. Allargò la bocca, si tolse una crosta di sonno dall’occhio destro e mandò indietro i capelli. Sputò con forza. La saliva verdognola si mischiò all’acqua.

    Era il cuore che proprio non voleva smetterla di correre.

    Era confuso e tremava. Era accaduto tutto troppo in fretta. Per anni aveva creduto a un sistema di regole che adesso non aveva più senso. Suo padre, per lui era già morto da secoli, l’aveva seppellito con rassegnazione. E invece, tutto a un tratto, suo zio aveva deciso di raccontargli la verità. Proprio ora che era morto.

    Lo Zio aveva detto che era Ugo a dover scegliere se dirlo o meno a sua madre. Lei non avrebbe retto. Aveva cacciato via quel marito rabbioso e scostante, aveva deciso di smettere di proteggerlo e accudirlo. Non poteva sapere che cosa stesse vivendo. Suo padre quel giorno era uscito di casa senza battere ciglio ed era andato a costituirsi.

    Meglio lasciare le cose così, meglio farle credere che suo marito fosse un pezzo di merda che lasciarla marcire nel senso di colpa. Sì, sua madre non doveva sapere.

    6 luglio 1982. Durante

    Ugo non si sentiva pronto. E come poteva esserlo? Avrebbe voluto aprire la finestra, saltare giù e iniziare a correre verso la piazza. Qualche amico lo avrebbe trovato. Sarebbe andato a fare una partita a biliardo o a guardare gli aerei che sorvolavano a bassa quota i palazzacci dov’era nato, come faceva sempre quando si annoiava. Invece era ancora lì davanti allo specchio con le mani che arpionavano la ceramica del lavandino e le scarpe lucide incollate al pavimento.

    Mancava poco. Si era messo il completo nero e la camicia bianca. Sua madre aveva insistito per la cravatta, e lui aveva acconsentito senza fare tante storie.

    Stringendo il nodo sentì una strana sensazione di libertà, una libertà spaventosa. Come uno Stato che una bella mattina si scopre a dover cambiare bandiera e nome, senza morti, senza che un’anima viva abbia mosso un sasso o un granello di polvere.

    Il cuore lentamente aveva ripreso il solito battito. Aprì l’acqua e ne prese una lunga sorsata, tentando di lavare via il sapore del vomito.

    6 Luglio 1982. Lo strappo alla regola

    «Hai visto che ce l’abbiamo fatta ieri sera?».

    «A fare cosa?» chiese Ugo sprofondando nel divano. «Abbiamo battuto quelle scimmie brasiliane! Paolo Rossi ne ha fatti tre! Chi l’avrebbe mai detto?». «Già».

    «È stata una partita memorabile».

    «Zio, non devi cercare di farmi pensare ad altro, ok? Va tutto bene, non preoccuparti. Ora aspettiamo la mamma e andiamo».

    «Ugo, lo so che è difficile. Nessuno è mai pronto per una cosa del genere».

    «Finalmente!» disse Ugo vedendo sua madre uscire dalla stanza e ignorando gli occhi dello Zio. «Andiamo?».

    «Stai benissimo con la cravatta» disse Aida, spostando gli occhi su Ugo dopo aver guardato per un attimo lo Zio.

    «Grazie. Andiamo?».

    Uscirono in silenzio. Di sotto li aspettava la macchina del cugino Giovanni, venuto da Parma per l’occasione.

    Era stato uno strappo alla regola. Lo Zio non metteva più piede in casa di Aida dai tempi in cui il padre di Ugo era stato arrestato. Era stata categorica: «Non voglio più vedere la tua faccia nemmeno in foto» gli aveva intimato. Ma era il giorno del funerale, e avevano deciso di deporre le armi per l’occasione.

    Sua madre sedeva davanti insieme al cugino Giovanni. Dietro, Ugo era accanto allo Zio. Quando gli disse di nuovo di non preoccuparsi, e che ci avrebbe pensato lui, Aida voltò per un attimo la testa e lo guardò con odio. Anche quella era un’eccezione: sua madre e suo zio insieme nella stessa macchina.

    Ugo si concentrò per un attimo sugli occhi piccoli e azzurri dello Zio, poi girò la faccia verso il finestrino. Come al solito Roma soffocava nel traffico. Il caldo sfocava le immagini. Le gomme delle auto in fila sul Raccordo Anulare si scioglievano sull’asfalto. Ugo mise la mano fuori per testare la temperatura. Vide le sue dita prendere fuoco. Sorrise e la ritrasse. Suo zio, appesantito dal silenzio, iniziò a parlare. Con una faccia da ventriloquo farfugliò una spiegazione talmente ridicola da farlo sorridere.

    «A volte è Dio che decide, Ugo» lo disse calcando la D. «Zio, per favore. Non c’è proprio nessun altro da incolpare, se

    condo te?».

    Ugo, da tempo, non credeva più in Dio. E ricordava benissimo il giorno in cui aveva smesso di farlo. Era stato lo stesso giorno in cui aveva smesso di credere in suo padre. Ora che sapeva la verità, non gliene fregava un cazzo lo stesso, di Dio. Aveva smesso di crederci e neanche suo padre avrebbe potuto fargli cambiare idea.

    «Certe cose sono scritte» rincarò lo Zio.

    «Zio, te lo chiedo per favore, non è il caso» Ugo fece segno con gli occhi allo Zio, indicando sua madre.

    «Ma…» lo Zio non colse il gesto. «Basta, smettetela!» Aida li fulminò.

    Ugo guardò la nuca di sua madre. I suoi capelli raccolti, le sue spalle piccole. Lei era incapace di non occuparsi degli altri. Era così spaventata da se stessa che, se solo per un minuto avesse avuto la consapevolezza di non avere nessuno da accudire, sarebbe morta all’istante. Soffriva per non essere stata capace di redimere suo marito. S’incolpava di aver fallito, ed era questo che le procurava dolore: l’impossibilità di aver avuto un peso determinante nella vita dell’uomo che aveva scelto di salvare. Ugo si sentì triste per lei, e per un attimo ebbe l’istinto di prenderla da dietro e stringerla forte, ma rinunciò. Sentì un grande senso di colpa nel sapere quello che lei non avrebbe mai saputo. Prese un lungo respiro e puntò gli occhi fuori dal finestrino. Guardò le nuvole bruciare.

    6 luglio 1982. Il santo non è al centro

    Al funerale c’erano tutti. Tutti i piccoli boss di quartiere, anche quelli che di certo non erano mai stati in buoni rapporti con suo padre. Sembravano tutti addolorati, ma Ugo sapeva che era solo una pantomima. Rimase con le mani in tasca per tutta la cerimonia. Aveva sempre fantasticato su un funerale a cui partecipare, in cui interpretare il ruolo di quello a cui tutti fanno le condoglianze. Quel giorno era arrivato, e Ugo si era subito accorto che i funerali veri sono tutta un’altra storia. Non ci sono oratori, come nei film di mafia o, peggio ancora, d’amore, in cui la cerimonia si svolge sotto la pioggia battente, su una bella collina verde piena di alberi, in cui sono presenti tutte le persone che hanno fatto parte della vita del defunto, vestite di nero e con sinistri occhiali scuri, cappelli, grandi ombrelli e foulard.

    Al funerale di suo padre stavano tutti accalcati fra due file di fornetti in cemento armato, c’era un caldo insopportabile ed erano circondati da quelle orribili scale in ferro con le ruote che servono a portare i fiori alle tombe che stanno più in alto. Suo padre si trovava al terzo piano sulla sinistra, vicino a uno che era morto vent’anni prima, con sotto una tomba piena di sciarpe della Lazio e sopra un loculo privo di fiori di un uomo con la faccia grossa e gialla, ragni annidati ai quattro angoli. Tutti rimasero in silenzio ad aspettare che chiudessero il feretro con una bella mano di calce viva.

    Quando gli uomini del servizio funebre finirono il lavoro, fu un sollievo per tutti. Ugo fissò i fiori marci e i lumini rossi con l’effige della madonna. Per un istante, il suo sguardo perse il fuoco attirato dalle finte fiamme delle lampadine. Tutti uscirono, tranne lui. Rimase davanti alla tomba. Non sapeva il perché, ma aveva bisogno di starsene lì a guardare la foto di suo padre. Sua madre lo vide, e per un attimo fece per portarlo via, ma il cugino Giovanni la prese sottobraccio e l’accompagnò fuori.

    Suo padre aveva una faccia sorridente, una faccia da attore, con l’espressione di chi sta per darti una pacca sulla spalla e una coltellata nel fianco. Gli occhi blu, il naso lungo e dritto, in armonia con la bocca piccola e carnosa, la pelle abbronzata, rasato di fresco e con i capelli castani un po’ lunghi tirati indietro.

    Era bello. Era facile capire perché sua madre se ne fosse innamorata. Ugo lo scrutò attentamente, come quando si guardano gli stereogrammi, quelle immagini all’apparenza semplici che in realtà nascondono un’altra immagine, molto più complessa, al loro interno. Si aspettava da un momento all’altro di vederlo sorridere di più, o che spostasse la testa di lato.

    Ugo avrebbe voluto piangere. Con le mani ancora in tasca e il busto leggermente inclinato in avanti, sentì di non provare niente. Non era né triste, né arrabbiato. Era svuotato.

    Non sapeva se odiarlo o amarlo. L’aveva odiato per tutta la sua vita, e adesso che era morto non riusciva a decifrare le sue scelte. Un brivido freddo lo colpì ala nuca quando si rese conto di non averlo mai conosciuto.

    Un ruolo, di certo, nella sua vita l’aveva avuto: l’assenza. Che spesso è molto più grande e influente di una presenza costante, vigile e comprensiva. Ecco cos’era stato suo padre, pensò: un non esserci stato. Un non luogo a procedere. Come il gioco delle tre carte, quando si punta tutto su quella al centro mentre il santo è a destra. Quel vuoto al centro ti toglie tutto, non te ne frega un cazzo se il santo sta a destra. Il problema è che non è al centro.

    Prima parte

    G. 9 novembre 1989

    Le televisioni di tutto il mondo trasmisero le immagini surreali degli operai polacchi in ginocchio al momento della messa celebrata a Danzica e a Stettino. Le tute blu, compatte all’interno degli opifici, esplosero in un boato nel sentire la voce del papa solidale con loro.

    I luoghi del proletariato dell’Est vennero trafitti dalla rivendicazione corporativa guidata dal benestare vaticano. Walesa e Solidarność ottennero una moneta di scambio che gli altri paesi europei non potevano avere: la copertura e l’appoggio di Wojtyla. Dopo la sigla dell’accordo finale tra la dirigenza del Partito Comunista polacco e Solidarność, il potere politico fu assegnato al nuovo parlamento bicamerale e al Presidente della Polonia, futuro capo esecutivo. Solidarność divenne un partito politico legittimo e riconosciuto legalmente.

    G. pensò che il papa aveva più potere di tutti i leader mondiali messi insieme.

    1989. La paura arriva dopo

    In un attimo si trovò in un inspiegabile traffico impazzito, data l’ora: le dieci di sera. Infilò la cassetta dei Cure che gridava i ragazzi non piangono. Batté il tempo sul volante e fumò, facendo cadere la cenere ovunque. Voleva sbrigarsi a tornare a casa.

    Ugo parcheggiò l’auto lontano dal portone di casa. Trovò posto nei pressi di piazza Lodi. Mentre camminava pensava alle cose più disparate, come se lo stare tappato in macchina gli avesse cementato il cervello e ora potesse di nuovo ragionare.

    Presto avrebbe avuto l’esame: macroeconomia. Non gli piaceva per niente. Una noia mortale. Non era riuscito a prepararsi come avrebbe voluto. Non riusciva a concepire come tutte quelle formule potessero essere applicate davvero alla vita delle persone. Gli inferni che conosceva, quelli della gente che si spaccava la schiena dalla mattina alla sera per non fare la figura dei morti di fame, a quale minimo comune denominatore potevano essere applicati? Si sentiva staccato da quello che studiava. La teoria gli sembrava scritta da gente che non voleva nemmeno sentire l’odore della pratica.

    Poi c’era Nina. Non riusciva a starle lontano. Era preoccupato per lei. La sera prima avevano deciso di farsi un po’ di roba e restare a casa. Nina sembrava stanca, ma aveva negli occhi la voglia di lasciarsi andare. Ugo aveva messo due strisce sul tavolino davanti alla TV. Due botte, per darsi la carica. Per lui bastava quello per partire. Aveva sentito subito i pantaloni tirare e già pregustava la sua Nina tra le gambe. Invece lei era rimasta fredda dopo il primo tiro, come se quello non fosse che un antipasto, in attesa delle portate migliori. Per lui la coca era solo un gioco saltuario. Per lei era una cosa seria. Non erano sulla stessa lunghezza d’onda. Lei gli aveva chiesto un altro tiro. Ugo si era irrigidito e le aveva detto che quella poteva bastare per passare una bella serata. Lei aveva reagito male. Gli aveva chiesto di non giudicarla, si era alzata dal divano con uno sguardo nervoso e colpevole e l’aveva mandato a fanculo. Ugo si era spaventato nel vederla disposta a tutto per un tiro in più. Non poteva certo farle la morale, ma lei non riusciva più a controllarsi. In fondo era lui che le portava la coca. Si sentita più sicuro a essere il suo fornitore. Meglio lui che qualche figlio di puttana che le dava roba di merda tagliata col Dash. Nina era fatta così: non accettava i consigli e non accettava che qualcuno volesse prendersi cura di lei.

    La serata era finita malissimo. Lei se ne era andata lasciandolo lì sul divano con la sensazione di aver sbagliato tutto.

    Ugo tornò a guardarsi i piedi, che si alternavano l’un l’altro sulle strisce pedonali di via L’Aquila come due lame rotanti.

    Ci mise un po’ ad accorgersi di essere seguito. A circa dieci metri da lui, un uomo camminava con passo irregolare. Ugo entrò nella zona pedonale e si fermò ad allacciarsi le scarpe per vedere attraverso le proprie gambe quanto fosse distante. Quando si fermò, l’uomo si bloccò e si mise a leggere qualcosa su un cartellone. Il fiato cominciò a farglisi corto. Era assurdo che nessuno fosse in strada a quell’ora. Di fronte a lui si avvicinava un’altra figura, che lentamente usciva dall’oscurità. Ugo per un attimo distolse l’attenzione dal suo presunto inseguitore. Se questo è il compare sono fatto.

    Quando la luce illuminò il nuovo arrivato, Ugo si trovò davanti un vecchietto che passeggiava sbilenco, e che entrò in un portone a una ventina di metri da lui. Pensò di infilarsi dietro l’uomo, dentro il portone, ma questo avrebbe potuto far prendere un infarto al vecchio, che comunque fu più veloce del previsto: in un attimo entrò e sparì.

    Portone chiuso.

    Intanto il segugio riprese la sua andatura e si avvicinò ancora di più a Ugo. "Chi cazzo è questo, che mi si è appiccicato addosso?

    Un tossico di merda? Una guardia?".

    Affrettò il passo e girò l’angolo di via Ascoli Piceno. Velocemente, si nascose dietro un furgone parcheggiato malamente sul marciapiede. Anche l’uomo svoltò l’angolo, e sembrò sorpreso di non vederlo più. Rallentò e si guardò in giro circospetto. Era chiaro, ormai, che cercava proprio lui. Ugo si abbassò quasi in ginocchio e pensò a ciò che doveva fare, e alla svelta. Girò la testa a destra e a sinistra per vedere se ci fosse qualcun altro. La strada era vuota. L’uomo si avvicinava sempre di più e ormai era a pochi metri di distanza. Ugo doveva decidere in fretta cosa fare: nascondersi o prenderlo di sorpresa per scoprire chi era.

    Era alto e magro. Sulla trentina. Portava un lungo giubbotto di pelle e jeans sdruciti, abbinati a un paio di stivali a punta tutti rovinati. Sembrava solo e nervoso. Quando uno è nervoso o fa qualche errore o scappa come un coniglio, diceva suo padre.

    L’uomo passò senza accorgersene davanti al furgone che nascondeva Ugo, accovacciato dietro la parte posteriore. Continuò a camminare in direzione dell’incrocio con via L’Aquila.

    Ormai erano a due metri l’uno dall’altro e Ugo si rese conto che avrebbe potuto saltargli addosso da dietro e prenderlo per il collo. Non sembrava armato, ma così al buio non poteva esserne sicuro. L’uomo cercò qualcosa dentro il giubbotto; si muoveva goffamente. Tirò fuori la mano. Alla luce del lampione brillò la piccola lama di un coltello. Ugo la vide. Il coltello era un Opinel, quello col manico di legno bilanciato che anche lui aveva quando era ragazzino. Ci giocava con gli amici, lo piantavano nei tronchi d’albero durante i lunghi e noiosi pomeriggi estivi giù al quartiere.

    Un gatto si fermò davanti allo sconosciuto, e corse via quando questi sbatté la suola a terra per spaventarlo. Nessuno in giro. Da lontano si sentiva il campanello di una bicicletta che attraversava la zona pedonale e si dirigeva verso il ponte Casilino.

    Ugo si abbassò ancora di più, si spostò verso il lato del marciapiede e controllò la posizione dell’uomo attraverso i finestrini del furgone. Sarebbe potuto scappare verso via L’Aquila che era trafficata, e chiudersi nel bar, che di solito era ben frequentato a quell’ora, ma non lo fece. Decise di aspettare ancora, e al momento giusto saltargli alle spalle.

    L’uomo teneva il coltello con la sinistra. Questo significava che Ugo, che era alla sua destra, non poteva prenderlo da quel lato: avrebbe potuto girarsi di centottanta gradi e infilargli la lama dritta dritta in pancia. Doveva aggredirlo da sinistra, in modo da impedirgli di muovere il braccio.

    Sentì le gambe tremare. Si sforzò nel tentare di fermarle. Calmo, stai calmo!.

    Cercò qualcosa per colpirlo, ma vicino a lui c’era solo una busta di plastica vuota, un sassolino − che non avrebbe fatto male neanche a un neonato − e cicche di sigarette schiacciate secoli prima. Valutò l’uomo. Valutò la sua altezza, il peso, la sua muscolatura quasi inesistente. Era come se stesse cercando delle formule matematiche per non fare errori. Sapeva benissimo che un movimento incerto, un’esitazione, potevano costargli molto care.

    Il tizio alto era ancora fermo, e Ugo si chiese se avesse capito che lui non poteva essere lontano. Poi successe quello che non s’aspettava. L’uomo cominciò a parlargli.

    «Esci fuori, lo so che sei nascosto dietro qualche macchina» la sua voce era rauca e bassa, ma sicura. «È inutile che ti nascondi, non c’è un’anima in giro, quindi non ho fretta. Testa di cazzo, dammi i soldi e non ti faccio niente. Dai, su, che poi ti mando a casa da mamma senza problemi».

    Ugo sentì la calma tornare in lui. Era nascosto, pronto a saltargli al collo, e qualcosa nella voce di quell’uomo gli aveva fatto capire che non era sicuro di quello che stava facendo. Una sensazione. Can che abbaia non morde, dicevano al vecchio quartiere, e quel tizio aveva già parlato troppo.

    «Avanti, carino, qualche soldino e me ne vado…». Una specie di rantolo gli uscì dalla bocca alla fine della frase; sputò catarro e tossì. «Non fare lo stronzo che sennò mi incazzo sul serio».

    «Non sai mai chi puoi incontrare, ricordatelo» disse Ugo. Si alzò da dietro il furgone e lo guardò dritto negli occhi. La frase sembrò spiazzare l’uomo, che rimase in silenzio. «Hai capito, testa di cazzo?!? Non si sa mai chi puoi incontrare, vattene a fanculo, altrimenti ti spacco la testa, giuro. Non voglio guai, vedi di sparire».

    «Non vuoi guai? Nessun guaio, amico, la situazione è semplice: io c’ho il coltello e tu c’hai i soldi. Tu mi dai i soldi e io non ti accoltello».

    «Vieni a prenderteli…».

    Il tono di sfida di Ugo suonò talmente sicuro che l’uomo indietreggiò di qualche centimetro. Se uno stronzetto, invece di agire, chiacchiera, non ti preoccupare. Si sta cagando sotto. La voce del padre riecheggiò nella sua scatola cranica, e, per la seconda volta nella serata, si trovò a essere d’accordo con lui.

    «Sicuro?» rise l’uomo, che cominciava però a sembrare un po’ preoccupato.

    «Sicuro».

    Il primo a muoversi fu Ugo, perché Chi mena per primo mena due volte. L’uomo fece brillare la lama davanti ai suoi occhi e si irrigidì quando Ugo cominciò comunque a camminare verso di lui. «Ti squarto la pancia, figlio di puttana!

    Neanche il tempo di finire di parlare e Ugo gli aveva assestato un calcio in mezzo alle gambe. Quello si piegò in avanti e lui non ci pensò due volte a sferrargli una ginocchiata in piena faccia. L’uomo cadde all’indietro, il coltello volò sul marciapiede. Ugo non si prese neanche la briga di raccoglierlo. Gli montò sopra e, con una rabbia che non s’aspettava, cominciò a colpirlo ripetutamente. Le sue nocche chiuse spararono alla cieca. Prima il naso, poi lo zigomo destro. Le testa dell’uomo sbatté sul marciapiede con un tonfo sordo. Ugo aveva le mascelle serrate e la bava alla bocca. Gli assestò un altro colpo in piena faccia. Sentì il caldo del taglio dei denti sulle ossa della mano.

    «Brutto pezzo di merda, io t’ammazzo, capito?!?».

    Non riusciva più a pensare. Voleva ucciderlo. Ormai non doveva neanche più tenergli il corpo inchiodato a terra. Aveva sotto di sé una specie di Gesù Cristo tossico incapace di reagire. Dal sopracciglio aperto colava sangue sulle guance, che si impastava con i granuli di cemento. Ugo non lo guardava più. Continuava a colpire senza sosta.

    «Ma tu chi tu chi cazzo sei?» uno schiaffo a mano aperta colpì il viso tumefatto dell’uomo. «Che cazzo vuoi da me?!? Dimmelo, o ti lascio qui a marcire, lo giuro!».

    «Fermo… fermo… basta… Basta, ti prego! » l’uomo rispose con un filo di voce.

    «T’ammazzo!».

    «Ho solo ho bisogno di farmi… lasciami… devo solo farmi…

    Volevo beccare qualche scemo da ripulire… Scusa, scusami, basta!».

    Ugo si alzò. L’uomo rimase a terra portandosi le mani alla faccia e arrotolandosi in posizione fetale. Ugo riuscì di nuovo a focalizzare la sua immagine. Si tirò indietro di scatto e prese aria a bocca aperta. «Vattene a fanculo, sparisci e non farti più vedere!

    Se ti ribecco, ti ammazzo».

    L’uomo non riusciva ad alzarsi.

    «Levati dai coglioni, brutto tossico di merda!».

    Ugo si rimise a posto la camicia. Gli girava la testa. Lo guardò ancora per un attimo, poi, con disprezzo, gli sputò addosso. L’uomo restò a terra con i gomiti alzati per proteggere la faccia in attesa di altri colpi. Non arrivarono. Ugo vide il coltello vicino a lui e con un calcio lo allontanò sotto a una macchina. Non riusciva a far entrare sufficiente aria nei polmoni. L’adrenalina gli prese le ginocchia. Le gambe ripresero a tremare. Stavolta non riuscì a controllarle.

    «Vaffanculo, sparisci» disse, lasciandolo steso sul marciapiede.

    Si diresse verso la zona pedonale, dove c’era una fontanella. Si lavò le mani e, dopo aver tolto il sangue dalle nocche, le riempì d’acqua e se le passò sulla faccia. Sputò a terra e si accese una sigaretta. Si sedette su una panchina e si guardò attorno. In un attimo, sentì tutto il corpo cedere. Si sdraiò e sentì il terrore prendergli le gambe.

    La paura, per fortuna, arriva dopo.

    1989. Sempre uguale da sempre

    Non pensava ad altro da giorni. Aveva sentito il terrore puro, ma in ritardo. Prima, quando aveva tra le mani la vita di uno che non valeva un cazzo, uno che l’avrebbe ammazzato per farsi una pera, si era sentito onnipotente. Altri quattro o cinque colpi e l’avrebbe fatto fuori. La verità era che non gliene fregava niente.

    Era stato facile. Troppo facile. Sbatterlo a terra e spaccargli tutti i denti. Non era scappato. Gli era andato addosso con la certezza di metterlo giù. Aveva avuto voglia di farlo. Senza stare a pensare alle conseguenze. Quel pensiero lo fece rabbrividire.

    Riprese fiato, tirò, e il fumo gli si incollò agli occhi.

    E suo padre? Che cosa avrebbe fatto? Lui non sarebbe scappato di certo, e forse l’avrebbe ucciso. A lui era mancato tanto così. Non era diverso da lui. Si era fermato solo un attimo prima di

    essere lui.

    Guardò la luce del sole filtrare dalle persiane. Schiacciò la cicca della sigaretta nel posacenere sul comodino. Era a casa di sua madre. Ogni volta che andava lì a pranzo, cadeva in un letargo dolce e rassicurante. Era il silenzio di quella casa che lo accompagnava nella sua vecchia stanza da letto. Niente TV o radio accese, solo il rumore dell’acqua che scorreva, e qualche accenno di canzone che Aida cantava con un filo di voce esausta. Ogni volta che si stendeva su quel letto, Ugo crollava immediatamente in un sonno profondo, accompagnato da quella voce quasi sotterranea. La cosa lo stupiva sempre, vista la difficoltà che faceva ad addormentarsi sia nel suo letto sia in quello di Nina.

    Era andato tutto bene. L’esame, in fondo, non era stato difficile. Era riuscito a sconfiggere la noia e a superarlo. Il professore era stato bravo e non aveva fatto domande assurde. Adesso aveva bisogno di farsi una vacanza, e, soprattutto, aveva bisogno di un po’ di tempo da passare con Nina. Non si erano più visti dopo la sera del litigio.

    Ma in fondo aveva altro per la testa: avrebbe chiamato lo Zio. Doveva parlare con lui di quello che aveva provato.

    I favori, a questo punto, diventavano due. Lo Zio in quegli anni, a modo suo, gli era stato accanto, lo aveva sempre aiutato; soprattutto negli ultimi tempi, dandogli la roba per Nina. La cosa, però, stava diventando pesante. Lo Zio non aveva mai detto di no, e non gli aveva mai chiesto una lira.

    Avere la coca gratis, pensò, è una delle cose peggiori che ti possano capitare.

    Lui lo faceva per lei, per lei che sembrava così fragile. Per farsi un po’ e godersela. Non poteva immaginare che lei avrebbe cominciato a non poterne fare a meno. In quel modo la teneva vicino a sé. La coca era la sua assicurazione sull’amore. Di colpo, il lampo del dubbio che lei stesse con lui perché le rimediava la roba lo fece rabbrividire. Ma non poteva essere così.

    Uscì dalla stanza e vide sua madre intenta a lavare i piatti. La osservò per un attimo, senza farsi vedere. Una donna stanca. I capelli lunghi e finissimi come una tela di ragno. Occhi grigi come la schiena di un topo. Spenti, senza domande o dubbi. Si assicurava solo che neanche una goccia d’acqua finisse in terra. Senza girarsi, lei gli parlò. Pensava che non si fosse accorta della sua presenza. «Vuoi un po’ di caffè?».

    «Magari, mamma».

    «Quanto zucchero?».

    «Sempre uguale da sempre, mamma».

    «Che ne so io? Da quando sei andato via magari hai cambiato abitudini…». Quel da quando sei andato via somigliava molto a un da quando mi hai lasciato sola.

    Cercò una soluzione politica al conflitto. «Sempre uno, mamma, come quando stavo qui».

    Presero il caffè in silenzio. I loro occhi non si incrociarono.

    «Come va lo studio?».

    «Bene. Te l’ho detto, oggi ho fatto l’esame ed è andata bene.

    Non manca molto e avrai un dottore in famiglia».

    «Sai che famiglia…».

    «Lo so, è una famiglia un po’ particolare, ma abbiamo solo questa».

    «No, questa, come dici tu, è la famiglia di tuo padre, e io non c’entro più niente da quando lui non c’è più. Per fortuna. Io ho le mie sorelle, le tue zie».

    «Ma loro stanno a Milano, mamma».

    «A proposito, quando le vai a trovare? Sono tre anni che non ti vedono».

    «Fra un po’, mamma».

    «Se ti vedono, neanche ti riconoscono».

    «Io riconoscerò loro, non ti preoccupare».

    «Non sono più giovane, e forse sono po’ rincoglionita, ma lo capisco ancora quando qualcuno mi prende in giro…».

    La sua faccia mutò in una smorfia, che lentamente prese le sembianze di un sorriso bellissimo. Ugo si alzò, le andò dietro le spalle e l’abbracciò stretta poggiandole il mento sulla testa. Lei strinse la sua mano sinistra sulle quelle di Ugo.

    «Sei diventato più bello di tuo padre» lo disse a bassa voce.

    Ugo la strinse ancora più forte. «Lo so» sussurrò.

    L’orologio di ottone, appeso da sempre

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