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Per il tempo che resta
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E-book189 pagine2 ore

Per il tempo che resta

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Info su questo ebook

Milano, aprile 2012. Nel corso del derby in notturna Milan-Inter, una spettatrice si allontana apparentemente senza fretta dallo stadio Meazza. Pochi istanti dopo, una raffica di potentissime esplosioni scuote l’impianto, provocando una carneficina. Come mai la donna è uscita proprio in quel momento? E per andare dove? È parte attiva o a sua volta vittima dell’attentato? In una città scossa e spettrale, a queste domande cercheranno di trovare risposta il marito, l’ex fidanzato e una blogger d’assalto. Impresa non facile, in una vicenda dove niente è come sembra e neppure i terroristi sono quelli che tutti si aspettano.
LinguaItaliano
Data di uscita12 mag 2020
ISBN9788835826057
Per il tempo che resta

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    Anteprima del libro

    Per il tempo che resta - Laura Basilico

    DICKINSON

    Milano, sabato14 aprile 2012, sera

    1. Sara

    Russano i generatori di corrente degli ambulanti in piazza Axum.

    Io cammino a passo spedito.

    Rigore!

    Credo in favore del Milan, siamo noi in casa. La scelta dell’arbitro accende gli animi dentro San Siro.

    Non mi giro a guardare il catino ribollente, non voglio essere tentata in alcun modo di ritornarvi. Qualcuno potrebbe notarmi.

    Tanto lo so che Ibra non ha ancora tirato, e mica perché sta confabulando con i compagni per decidere chi lo calcerà, sarà senz’altro compito suo, ma ci saranno i cuginastri ammucchiati a pressare l’arbitro perché ritorni sulla sua decisione; che roba stupida, poi, nessun fischietto lo fa mai.

    Neanch’io ritorno sulla mia.

    Nel giro di pochi metri ogni cosa si trasforma, lentamente, come un serpente che cambia pelle. Ma sono io che sto cambiando pelle, anche se compio gesti consueti come attraversare su strisce pedonali scolorite, calpestate negli anni da centinaia di migliaia di piedi inferociti o festanti.

    Guardo l’incedere sicuro delle mie scarpe di pelle bianca. Potrei descrivere questa strada a occhi bendati. Mi farò le solite domande: chi ci vivrà in quel villone nascosto in una fitta piantumazione mal tenuta? Chi nell’altra davanti alla quale stazionano sempre due giovani poliziotti in auto, mai gli stessi ma tutti invariabilmente sul punto di stramazzare a terra dalla noia? E quella palazzina con il tetto bianco e verde che io chiamo la casa di Hansel e Gretel? È talmente bella…mica come quell’altra lastricata di piastrelle viola quaresima.

    Non c’è un’anima in giro. Il baccano alle mie spalle cresce. La palla dev’esser lì pronta sul dischetto, ormai. Ma allora, lo tirate o no? Voglio almeno sapere se andremo al riposo in vantaggio!

    Il ruggito. L’inferno. Il boato è ripetuto, prolungato, come se la Terra si stesse improvvisamente aprendo in un’eco continua di voragini. La fine del mondo. Vengo sbalzata lontano, a terra, investita da una raffica di pallottole di cemento, polvere, brandelli di sciarpe, cuscinetti, corpi, seggiolini, bottiglie, cibarie. Qualcosa di orrendo mi attraversa la mente.

    2. Dylan

    Il lato dello stadio di fronte a me non esiste più. La tribuna centrale, i settori vip, la tribuna stampa si sono polverizzati e sopra tutto quel cumulo di carne e materia inerte si stanno agitando spezzoni del terzo anello. La gente continua a cadere, fra grida convulse di incredulità e bestemmie. Sento che potrei morire dalla paura, se non mi soffocherà prima la polvere. La volontà è bloccata ma vengo trascinato via dall’onda mugghiante panico: a branchi si accalcano verso gli sbocchi cercando di guadagnare una rampa o una scala interna ai torrioni. Sempre che esistano ancora. Potremmo trovare solo vuote, enormi, fameliche trombe d’ascensore.

    Sara dai bagni non può certo ritornare in gradinata. È impensabile, oltre che inutile, nuotare controcorrente all’orda barbara che venderebbe la madre al grammo pur di andarsene. È una persona intelligente. Si metterà in un angolo e mi aspetterà, sperando che questo girone dantesco si plachi almeno un po’. Allora ce ne andremo a casa. Forse.

    Mi crogiolo in questa irragionevole certezza, perché nonostante tutto riesco ad avvicinarmi all’imbocco della rampa con relativa facilità. Ma è puro culo, vengo sospinto dalla marea e resisto, sono robusto di fisico e di polmoni. Mi turo il naso e cerco di non sentire l’odore acre, rovente, il puzzo dei vestiti e della carne bruciata, la sensazione di morbido sotto i piedi sulla cui esatta natura il cervello si rifiuta di indagare.

    Il bagno è esattamente all’imbocco della rampa. Una dozzina di corpi a terra, appena il tempo di un rapido calcolo, e una nuvola di pulviscolo incandescente mi alita alle spalle. Ma la cosa fondamentale è che nessuna di quelle persone stese sembra essere Sara. La polvere mi impedisce di vedere distintamente le loro fattezze, mi concentro sulle scarpe, sulle giacche.

    Se n’è andata. Ha fatto bene. Ha una figlia, è a lei che deve pensare, non a me.

    Scendiamo da quella scala, abbaia qualcuno. Sembrerebbe la soluzione più rapida, perché la rampa, la vecchia rampa che corre placida tutta intorno all’impianto ormai sarà interrotta, squarciata in più punti, e non ho proprio intenzione di venir scaraventato giù dalla balaustra da qualcuno di questi idioti che continua a spingere.

    E se le scale non ci fossero più? E se si interrompessero a metà, precipitandoci tutti, decine di metri sotto? Non so perché, mi si materializza in testa l’illustrazione dell’imbuto dantesco. L’orrore di quell’immagine mi perseguita dall’adolescenza, e ora che mi sembra di esserci proprio sull’orlo non mi resta che puntare i piedi contro la discesa vischiosa di sangue misto a budella, disperatamente. Pezzi di seggiolini, di cuscinetti, di bottiglie, roba scura, forse caffè rovesciato che non cola dai gradini. Il corrimano non fa meno schifo ma a qualcosa bisogna pur attaccarsi.

    La torre dondola. Non è una mia impressione: dondola. L’intero stadio tentenna. È normale, quando tutti saltiamo cantando Chi non salta nerazzurro è, ma qui è un’altra faccenda, sta per cedere. Beh, senti, aspetta un attimo, facci uscire, guarda questa ragazza davanti a me, è ricoperta dal vomito di suo figlio soffocato dal terrore, ma scende, scende con la tenacia di un barracuda. Ce la possiamo fare. Fa un caldo della madonna in questo imbuto e non riesco a capire quanto manca a terra, ma scendo, scendo, scendo. Non voglio morire. Non ho neanche cinquant’anni e nella vita non ho ancora fatto niente di serio.

    3. Sara

    Non posso che allontanarmi lentamente, a gattoni. So di andare diritta perché con la mano destra tocco il bordo del marciapiede, e lo seguo. Il fumo e la polvere sono talmente densi da formare un tutt’uno impenetrabile. Impossibile tenere gli occhi aperti. Arriva in quel punto, più avanti, dove il marciapiede è largo una spanna e troverai il muro del Trotter con la mano sinistra. È più avanti. Ma più avanti quanto? Comunque mi devo alzare. Se non mi alzo rischierò di venire calpestata. Ma se mi tiro su perdo l’orientamento.

    Il fatto è che non mi sembra di sentire nessuno arrivare alle mie spalle. Non c’è nessun fuggi fuggi. Dove sono tutti? Sono tutti morti? Dio, c’erano ottantamila persone là dentro. Dylan. Gli avevo solo detto che andavo in bagno, come faccio sempre prima dell’intervallo, per evitare la ressa. Mamma mia, Dylan, non posso tornare indietro. Riesco a malapena a muovermi, il fumo mi penetra gli occhi e i polmoni, e comincio a sentirmi la bava alla bocca. È così buio, tutto il mondo sembra essersi spento di colpo. Non metterti a frignare e vai avanti!

    Eccolo, ecco il punto che attendevo. Una spanna di marciapiede, il muro del Trotter. Stai attaccata al muro. Saranno trecento, forse quattrocento metri dall’angolo della torre 11, la nostra solita. Mancano venti minuti, venti minuti a piedi dall’auto che ho preparato tre giorni fa. Via Previati angolo via Faruffini. Continuo a ripetermelo come una giaculatoria: Rospigliosi, Stratico, Segesta, Albertinelli, Monte Falterona, Brescia, Previati. Sara non ti fermare, bisbiglio un rosario ossessivo. Il distributore di benzina. Non cozzarci contro. Gli occhi, per quanto stilettati dalla polvere grassa e granigliosa, cominciano ad abituarsi alla tenebra, e inizio a scorgere sagome simili a zombi che mi superano con le braccia tese in avanti e gli occhi vitrei, accecati forse più dall’orrore che dal fumo. Paiono i dannati di certe illustrazioni dantesche. Ma in che girone siamo finiti? E per quale colpa, poi?

    4. Claudio

    Mentre succedeva, io dormivo. Un po’ che Aurora era stata insopportabile per l’intera serata lamentando l’assenza della madre, un po’ che negli anni mi sono stufato di attendere sveglio una che poi è troppo stanca per stare con me dopo la partita, alle dieci e mezza ero già a letto. Alle tre passate mi sono svegliato, e Sara non c’era. Sarà rimasta sul divano, mi sono detto, perché russavo di brutto. E se domattina a colazione ci sarà malmostoso silenzio, ok, l’Inter avrà vinto ancora con una roba tipo un gol di ginocchio come qualche anno fa, quindi aria. Questo mi tocca sopportare: mia moglie, una persona in fin dei conti intelligente, spreca tempo e denaro per una cosa così idiota come il calcio. Insieme a Dylan, oltretutto.

    In sala, non c’era, nemmeno in cameretta di Aurora che dormiva placida nel suo letto, sola, quando ho aperto la porta, per controllare.

    Sono volati dei cazzotti, mi son detto ed è in Questura. Le servirebbe di lezione. Purché non le abbia anche prese. Lei che si vanta sempre di non frequentare certa gente. Come se la Fossa dei Leoni fosse il convitto delle Orsoline.

    Cellulare di Sara spento, Dylan cliente non raggiungibile. Telefono a casa di lui. Non risponde. Silvia non c’è. Già, lo ha lasciato, se l’è filata con quel tipo, il suo capo, il padre di suo figlio. Segreteria telefonica. «Lasciate un messaggio».

    Dal mio balcone potevo vedere le tapparelle abbassate di quell’appartamento in cui risuonava la mia voce. «Dylan, tutto ok?».

    Che farsa.

    C’era uno strano movimento per le strade, inusuale anche per un sabato notte. Riuscivo a sentire il baccano, il trambusto caotico proveniente da corso Lodi. Ambulanze e automobili. Un giro faro continuo, sirene, clacson. Per un attimo, attraverso la fessura di via Massarani, ho intravisto qualcosa di lungo e rosso, che sfrecciava via. Vigili del Fuoco. Ma perché, scusa, abbiamo la caserma in piazzale Cuoco, perché fanno il giro di qua per dirigersi in centro, quando potrebbero…

    Doveva esserci stato un tremendo incidente. Riprovo a chiamare Sara. Spento. Se n’è andata. Se n’è andata con Dylan. Se ne sono andati. Sono alla stazione, all’aeroporto. Da tempo pensavo che sarebbe successo qualcosa del genere. Adesso che Silvia si è tolta di mezzo è arrivato anche il loro momento.

    Altre ambulanze, le sirene tagliano l’aria con insistenza calamitosa. Meglio rientrare e chiudere la finestra, prima che Aurora si svegli. Nervoso, incazzato nero, con i pensieri peggiori ronzanti in testa, uno cosa fa? Accende la tele. E cosa scopre? Che su tutti i canali sta andando in onda lo stesso inferno, quello di piazza Axum.

    5. Barbara

    Proprio un sabato coi fiocchi! Avevo iniziato rielaborando una celebre massima (fiore all’occhiello della signora Gump): La vita è come una scatola di cioccolatini: non sai mai quello che ti capita, di dover recensire. Per la prima volta in vita mia avevo scagliato con violenza un libro contro la parete, col preciso intento di sfasciarlo. Non riuscivo a sopportare la scia di quattrini sprecati che quell’inutile scartafaccio si portava dietro.

    Voglio dire, negli Stati Uniti qualcuno l’aveva pubblicato. Una casa editrice italiana, per la quale continuo tuttavia a nutrire una certa considerazione, aveva avuto l’inquietante idea di acquistarne i diritti. Aveva pagato una persona per tradurlo. L’aveva stampato e distribuito, e dunque un numero non quantificabile di privati cittadini e biblioteche pubbliche avrebbe nel tempo sperperato soldi per acquistarlo. È semplicemente immorale che libri inutili intasino il mercato precludendo la gloria a penne capaci. Però accade di continuo.

    Le recensioni sono un problema, quando la verità è un lusso che non puoi permetterti, quando collabori con riviste on-line per cifre non rivelabili, perché ridefinirebbero il concetto di sfruttamento, ma indispensabili alla misera sopravvivenza. Non li puoi proprio stroncare nemmeno quando sono indigesti, perché se arrivano sulla tua scrivania (si fa per dire, non possiedo che un misero tavolo dell’IKEA dove lavoro, mangio e faccio qualunque cosa necessiti di un rigido piano orizzontale per essere portato a termine) è evidente che Antonio e Lella, i miei datori di lavoro, hanno come minimo un qualche legame con gli editori, se non con gli autori in persona, che dunque vadano tenuti tutti buoni.

    Nei momenti peggiori – tipo quando si ruppe la caldaia, lo scorso inverno – sono stata tentata di andare a pescare nel mare magnum dei vanagloriosi esordienti a pagamento al grido di Recensione assicurata per dieci euro da caricare su di una PostePay, ma a prevalere è stato l’istinto di autoconservazione. I miei pochi metri quadri utili sono già invasi a sufficienza di pubblicazioni sgradite, non avrei retto all’ulteriore casino. Ho preferito indossare un maglione supplementare.

    Ottocento euro di stipendio, più un altro centinaio di introiti giornalistici, duecento da un ex marito perennemente in affanno.

    Chissà se qualcuno se n’è accorto, mi sono chiesta chiudendo il portone alle mie spalle, con il corso Lodi srotolato davanti, maestoso e disperato come sempre. La generazione mille euro è riuscita a risucchiare anche chi ormai litiga con un’anagrafe impietosa, vive al freddo e rubacchia nei supermercati. Siamo stati ufficialmente scavalcati, povera generazione X, la più sottovalutata del secolo scorso, e forse anche di quello attuale, che pure gli attuali governanti ormai ci considerano persi, una zavorra da mollare per restare a galla.

    Sono una borderline della povertà, ma sopravvivo, grazie alla volontà di lasciarmi il passato alle spalle, pur sapendo che non esiste nessun futuro in particolare.

    Sabato 14 aprile 2012, notte

    1. Dylan

    Ho l’impressione che ci sia qualcuno chino su di me. Vorrei parlare, muovere almeno una mano, ma nessuna cellula del mio corpo obbedisce. Però sento. Attorniato da rumori, non riesco ad aprire gli occhi. Sirene, ambulanze, un manovrio interrotto da colpi secchi, portelloni e barelle, clic clac. Voci che abbaiano ordini, un gracchiare di trasmittenti. Passi continui, tutti si affrettano e corrono, qualcuno mi scavalca persino, ma nessuno si attarda al mio capezzale. O non sono così grave, o lo sono talmente che si è scelto di salvare prima i salvabili.

    La testa mi ribolle di pensieri concentrici. Risento sulla faccia, su tutto il corpo, i tentacoli voraci di un calore mai provato prima, di un crepitare, schiocchi, piccole esplosioni. La torre sta implodendo su se stessa, prima con un gemito, poi con un ruggito di vento bollente che ci investe tutti, spingendoci via, fluttuanti, sfilacciati e dissolti. Quando tocco di nuovo terra è buio, buio, buio. Percepisco soltanto la presenza di altre forme umane accasciate, ma non mi muovo. Non posso. Rimango lì, affidandomi a quell’oscurità, quasi invitato al sonno e all’oblio, naufrago in un oceano gelido di terrore che quasi volentieri vorrei mi lambisse, infuocato come sono.

    2. Barbara

    Avevo promesso a una conoscente che avrei assistito alla performance della sua compagnia, magari per citarla nel mio blog.

    Nel bel mezzo di un monologo le sirene hanno cominciato a perforare l’aria. Da ogni angolo del teatro. Le sentivamo prepotenti fin dentro, che lo spettacolo si è interrotto quasi spontaneamente.

    Di un terremoto non si trattava certamente, ce ne saremmo accorti. Una signora anziana parlò di allarmi aerei, come in

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