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Oltre i confini: Il battito della Bestia
Oltre i confini: Il battito della Bestia
Oltre i confini: Il battito della Bestia
E-book315 pagine5 ore

Oltre i confini: Il battito della Bestia

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Info su questo ebook

" - Possiamo parlarne?- le chiese la bimba nel cuore della notte.
Lucilla si svegliò e la vide: risplendeva nella stanza buia.
- Parlarne?- rispose trafelata, senza realizzare del tutto che uno spettro fatto di freddo e di rabbia le stesse gentilmente rivolgendo la parola.
- Ti ricordi di me?- Domandò ancora la Larius. - Anni fa ti chiesi di liberarmi. Ti chiesi di uccidermi. Ora non voglio più morire.-
- Tu sei già morta...- riuscì a dire la Viator."

Lucilla si risveglia dopo la battaglia, incredula, incapace di accettare l'idea che il mondo oltre i confini sia stato dissolto.
Ma le basterà trovare il coraggio di affrontare la situazione, per accorgersi che le due facce della realtà, simbionti e inscindibili, sono soltanto cambiate.

LinguaItaliano
Data di uscita5 gen 2014
ISBN9781311935014
Oltre i confini: Il battito della Bestia
Autore

Noemi Gastaldi

Noemi Gastaldi è nata e cresciuta in provincia di Torino, città in cui attualmente risiede. Ama scrivere fin da quando era piccola, ma la sua prima pubblicazione risale al 2009, quando collabora al romanzo erotico-sentimentale “22 fiori gialli”, attualmente edito da Eroscultura. Nel 2011, affascinata dal mondo sommerso dell’arte indipendente, riprende in mano una vecchia bozza ideata anni prima e mette le basi per la saga “Oltre i confini”. Il primo volume della stessa, “Il tocco degli Spiriti Antichi“, viene autopubblicato nel novembre 2012. Il secondo volume, "Il battito della Bestia", viene autopubblicato nel gennaio 2014. Il volume conclusivo "Il canto delle Forze Ancestrali" è disponibile dal 22/03/2015.

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    Anteprima del libro

    Oltre i confini - Noemi Gastaldi

    Il battito della Bestia

    XXI

    Guardare le sue labbra tingersi di quel rosso acceso le fece uno strano effetto; Lucilla non si truccava per uscire da così tanto tempo che proprio non era più abituata a vedersi così appariscente.

    Restò per un secondo a chiedersi se fosse il caso di apportare qualche modifica all’immagine che lo specchio le restituiva: i suoi boccoli biondi erano stati abbondantemente gonfiati con il phon, i suoi occhi scuri ridisegnati dalla matita nera, i suoi zigomi alti evidenziati da un leggero velo di fard color pesca. Andava tutto bene, ma le sue labbra carnose erano davvero troppo rosse.

    Lucilla si passò delicatamente una velina di carta sulle labbra, poi controllò ancora una volta che il suo maglioncino nero coprisse i leggins al punto giusto.

    L’unico modo che aveva per decidersi a uscire di casa, quella sera, era concentrarsi unicamente sul suo aspetto, sui suoi vestiti, eventualmente sulle condizioni atmosferiche.

    Aprì leggermente la finestra della sua stanza; era buio e tirava un’aria gelida.

    Non metteva il naso fuori da quel giorno, quando si era svegliata nel suo letto dopo la battaglia.

    Bruno se n’era andato prima che lei si ridestasse. Francesca le aveva telefonato, dicendole che tutto andava bene, che tutto era finito. Per Lucilla, queste due affermazioni non avevano ragione di coesistere: come poteva andare tutto bene, se Fantasy non esisteva più?

    Quando il nome della sua amante le attraversò la memoria, Lucilla sentì le lacrime salirle agli occhi. Sarebbe stato facile lasciarsi andare, piangere ancora una volta, telefonare a Elena e dirle che ancora non se la sentiva di uscire.

    Una brutta influenza. Per quanto ancora avrebbe retto quella stupida scusa?

    Lucilla si trattenne, infilò il suo lungo cappotto di panno nero e scese al piano terra. Trasse un ultimo, profondo, respiro, poi aprì la porta e uscì.

    Come in ogni sabato sera che si rispetti, le strade dietro la stazione erano affollatissime, tra i ragazzi che si dirigevano alla metropolitana, gli spacciatori fermi a ogni angolo, gli stranieri che facevano combriccola davanti ai cortili dei palazzi. Lucilla seguì la folla, prese la metropolitana e se ne restò in piedi, appesa al palo di metallo lucido, con lo sguardo perso nel vuoto. Guardava sopra le teste della gente, così da non incentivare nessuno a parlare con lei.

    Quella sera, alla scuderia, avrebbe suonato un nuovo gruppo musicale; non ne ricordava il nome. Elena sarebbe venuta a prenderla in auto alla fermata della metro, e lei non avrebbe saputo cosa dirle.

    Quando arrivò a destinazione, la vecchia Fiat Punto color grigio topo era ferma lì già da un pezzo. Elena attendeva appoggiata allo sportello; si stava fumando una sigaretta in compagnia di un ragazzo alto e vestito di scuro, molto più giovane di lei.

    Sono Alberto, piacere! disse lui, porgendo la sua mano destra a Lucilla.

    La ragazza ricambiò il gesto e si presentò a sua volta, sforzandosi di sorridere.

    Vi siete già conosciuti, non ti ricordi? È Lucilla, la ragazza che strigliava i cavalli mentre tu venivi a propormi il tuo gruppo per questa sera. La settimana scorsa, non vi ricordate?

    Lucilla scosse la testa, perplessa.

    Ad Alberto iniziò a riaffiorare qualche ricordo, ma non era abbastanza fisionomista da esser certo che la ragazza trasandata, conosciuta la settimana prima, potesse essere la stessa che aveva davanti.

    Oh, Lucilla quando si mette in tiro è irriconoscibile! aggiunse Elena, intuendo i dubbi del giovane.

    Lucilla aveva mantenuto il suo sorriso tirato senza saper fare altrimenti. Solo quando all’improvviso si creò un silenzio imbarazzante, disse che aveva freddo e che preferiva salire in auto. Si rese conto quasi subito di essersi mostrata scortese e antipatica, ma realizzò altrettanto velocemente che far colpo su quel ragazzo era l'ultimo dei suoi desideri. Quando Elena aprì la portiera per mettersi alla guida, Lucilla ribaltò in avanti il suo sedile e si sedette su quello posteriore. Non appena il riscaldamento iniziò a soffiarle sul viso, avvertì una strana sonnolenza raggiungerla.

    In quel momento, Alberto si girò verso di lei. Mi stai facendo male, le disse.

    Lucilla lo guardò incredula: mentre la fissava con l’aria da cucciolo spaurito, aveva iniziato a passarsi le unghie sul braccio insistendo con pressione crescente. Quando si graffiò a sangue davanti a lei, la Viator non poté trattenersi: Ma che cavolo fai? gli chiese, allibita. E in quel momento vide un lampo di luce, simile al flash di una macchina fotografica. Dietro di esso ritrovò l'immagine di Alberto, che però era seduto composto e guardava fuori dal finestrino.

    Contemporaneamente: Non ho messo sotto nessuno e non ho sbagliato strada, quindi, che cavolo vuoi? sbottò Elena, nell’evidente convinzione che la perplessità di Lucilla fosse rivolta a lei.

    La Viator, nel dubbio, si scusò senza aggiungere altro. Forse Alberto aveva voluto prenderla in giro ma, dati i suoi trascorsi, non era per nulla certa di potersi fidare di quel che vedeva.

    Una volta giunti alla scuderia, la serata prese a scorrere pigramente. Una ventina di soci del circolo, con una decina di figli al seguito, sedeva a una lunga tavolata ridendo e mangiando pizza mentre, sull’altro lato di quell’ampia e calda sala rustica, il gruppo di Alberto suonava cover di cantautori italiani.

    Una volta, Lucilla si divertiva a quel genere di serate: canticchiava, faceva la stupida con i suoi clienti scatenando l’ilarità dei loro figliuoli, e faceva puntualmente gli occhi dolci al chitarrista carino di turno. Le piaceva portarli nel fienile, quando le circostanze lo permettevano. A volte ci si scambiavano baci e numeri di telefono, altre volte qualcosa di più.

    Quella sera non ci aveva neanche pensato.

    Allora, chi è il più carino del gruppo? le chiese Elena ammiccante, quando ormai la serata volgeva al termine e le famigliole stavano per andarsene.

    Eh? replicò Lucilla, visibilmente distratta; tra le altre cose, aveva già bevuto quasi un litro di birra.

    Elena era preoccupata dal suo strano atteggiamento, così come dalla lunga durata della sua ennesima influenza. Purtroppo, non era mai stata in grado di gestire quel genere di situazioni: non osava chiedere, non sapeva come arrivarci. Dato che hai finito di mangiare e, spero, anche di bere, ti faccio vedere una cosa. fu ciò che riuscì a dire.

    Lucilla si alzò incerta sui tacchi alti, a cui non era più abituata, poi seguì Elena con andatura traballante fino alla selleria. L’odore di cuoio le riempì subito le narici, mentre le sue orecchie iniziarono a fischiare, assordate da quell’improvviso silenzio.

    Guarda che meraviglia! esclamò Elena, dando una pacca alla sua nuova sella con tanto di etichetta penzolante dal pomello. Si trattava di una sella per montare all’americana, molto appariscente, probabilmente molto comoda.

    È una poltrona. commentò Lucilla, accarezzando la paletta scamosciata e imbottita.

    Elena staccò energicamente il cartellino, poi se la caricò sull’avambraccio. Dai, voglio farla vedere agli altri! disse.

    Cosa vuoi che gli freghi? Quelli montano solo all’inglese e vivono per il salto ostacoli.

    Ah, sì? Che stronza che sei! proruppe Elena, scaraventando malamente a terra il suo nuovo gioiellino. Ma non è solo per questo, disse ancora, sei proprio una stronza, non lo capisci che mi fai male? Così, guarda! E così dicendo trattenne il fiato, chiusi gli occhi, si buttò in avanti, sbatté con forza la testa contro il muro.

    Lucilla le corse incontro per fermarla senza sapere cosa pensare. Non appena le mise il palmo della mano sotto la fronte si accorse che aveva il volto rigato di sangue. Eppure cercava di divincolarsi per ripetere quell'assurdo gesto. Basta, ti prego! la implorò Lucilla, sconcertata.

    Poi accadde ancora: un flash luminoso, ed Elena riapparve incolume sulla porta, con la sua nuova sella ancora poggiata all’avambraccio.

    Lucilla sospirò. Va bene, andiamo a farla vedere a tutti! la esortò poi, sorridendo. Era il suo primo vero sorriso da una settimana a quella parte: ora aveva una speranza. Qualunque cosa fosse accaduta, buona o cattiva, significava che il mondo oltre i confini non era perduto; forse, nemmeno Fantasy lo era.

    ***

    In quel freddo sabato sera, come sempre, molti ragazzi vivevano appieno il rituale del corteggiamento. Ci si conosceva, ci si offriva da bere, ci si scambiava il numero di cellulare. Quando l’attrazione era troppa per rimandare alla settimana successiva, capitava che le coppiette più giovani andassero ad appartarsi in angoli isolati, il che non sempre era una buona idea. Silvia e Marco, ad esempio, avevano scelto di fare una passeggiata notturna al cimitero. Si erano conosciuti a una festa privata, una caotica riunione di ragazzini per la quale un anonimo festeggiato aveva noleggiato la grossa sala dell'oratorio del paese. Marco aveva letto da qualche parte che le ragazze erano più disponibili quando avevano paura, così aveva proposto quella macabra passeggiata tra le tombe. Silvia lo teneva per mano, mentre l’oscurità li circondava.

    Eccoci qui… esordì lui, un po’ rosso in viso, tendendo le braccia verso la sua bella. Silvia accettò il suo invito; si lasciò baciare. I loro nasi gelati si sfioravano, le loro mani altrettanto fredde si muovevano avide sotto i giacconi pesanti.

    Uno stridio metallico fece sobbalzare all’improvviso la neo-coppia.

    Hai paura? chiese Marco, ostentando un coraggio che in realtà non aveva.

    No. gli mentì lei, cercando nuovamente le sue labbra. Questa volta le loro lingue iniziarono a muoversi distrattamente, le loro mani rimasero immobili. Le loro orecchie, invece, erano tese a indagare i rumori della notte: gli uccelli notturni, la musica molto alta proveniente dalla festa appena abbandonata, qualche auto che sfrecciava sulla strada provinciale.

    Poi, ancora, lo stridio si fece sentire, questa volta seguito da passi pesanti che si avvicinavano nell’oscurità. Silvia si staccò dal ragazzo e: Che cos’è? chiese allarmata.

    Marco restò in silenzio e si girò, dandole le spalle, per vedere se qualcuno li stesse spiando: era plausibile che i suoi amici gli stessero facendo uno scherzo. Qualcuno era invidioso della sua conquista o, più semplicemente, aveva voglia di divertirsi.

    Il buio lo avvolgeva; il ragazzo non riusciva a scrutare oltre il proprio naso. Restò voltato ancora qualche secondo, chiedendosi se la sua vista sarebbe mai stata in grado di abituarsi a quella strana assenza di luce. Eppure c’era un lampione acceso, poco più in là, Marco ne era convinto ma, in quel momento, aveva l'impressione che i suoi occhi fossero pieni di nebbia nera.

    Percepì una scarica di adrenalina lungo la schiena, poi le mani di Silvia che accarezzavano il suo collo. D'improvviso, il ginocchio di lei s’insinuò nell’incavo di quello di lui, facendolo cadere a terra. Marco emise un gemito, subito strozzato dalle mani di Silvia, che iniziarono a stringergli il collo togliendogli il respiro. Provò a difendersi, ma quella ragazzina aveva una forza eccezionale, e il suo corpo si faceva sempre più debole, le sue arterie sembravano esplodere, incapaci di reggere il ritmo di un cuore impazzito. Prima che il ragazzo fosse asfissiato da quella presa, Silvia lo lasciò cadere in avanti emettendo una risata isterica. Senza permettergli di reagire, gli si sedette sulla schiena e lo prese nuovamente alla gola, stringendo così forte da fargli scricchiolare le vertebre.

    A pochi passi da quella scena, un’armatura di metallo scuro teneva ferma una ragazza: Silvia era costretta a guardare la proiezione di se stessa che tentava di uccidere Marco. Non poteva muoversi, non poteva parlare. Pregava di svegliarsi subito da quell’assurdo incubo.

    E, per sua fortuna, in quel cimitero che andava affollandosi, qualcuno poteva aiutarla.

    Francesca prese un respiro profondo, poi si poggiò le mani sul petto e richiamò a sé il suo lupo. Tirò fuori dal suo immancabile borsone un carboncino e un coltello dalla lama ricurva.

    Con la rapidità disumana degli istintivi rituali dei Viator, le sue mani disegnarono un simbolo tra il ghiaietto cimiteriale per poi piantarvi nel centro esatto la punta del coltello. Immediatamente, l’armatura apparve evanescente e poco solida.

    Non appena Silvia si accorse che lo spettro aveva mollato la presa corse a perdifiato verso la festa da cui si era allontanata, mentre Marco restò, esausto, sdraiato a terra, troppo scombussolato per prendere qualsiasi iniziativa: a stento comprese che la sua aguzzina aveva smesso di fargli del male.

    L'evanescenza dello spettro non durò che per pochi secondi, ma quel tempo ristretto bastò alla Viator per prendere la sua mistura di erbe e lanciarla in aria, dove le diede fuoco con un fiammifero. Una lieve esplosione di nebbiolina verdastra avvolse tutto il suo corpo, che riemerse coperto da uno strato sottile di metallo. Adesso Francesca era protetta dalla punta dei piedi alla punta dei capelli: persino le sue palpebre erano metalliche. Contemporaneamente, in quel tempo quasi impercettibile, le sue unghie divennero forti lame affilate. A quel punto attaccò con ferocia e, in un rapido susseguirsi di granfiate, fece a pezzi l’armatura nemica.

    Ormai, Francesca sapeva che quegli spettri erano pericolosi solo finché non si capiva come affrontarli: se non gli si dava il tempo di emettere la nebbia delle illusioni, li si poteva ridurre a scarti di lamiera senza subire alcun danno. Purtroppo, poi veniva l'unica parte che alla Viator non era chiara: doveva capire come dissolvere quella lamiera, così che non potesse ricostituire l’armatura un'altra volta. Lei e quel particolare spettro, infatti, si erano scontrati già altre due volte: la prima, sotto la neve, quando lei ancora non sapeva di aver a che fare con lo spirito di un Viator maledetto e consumato dalla Realtà Complessa. La seconda, molto più recente, appena un giorno dopo la fine della battaglia.

    Le cose erano un po' cambiate dopo l’improvvisa dissoluzione del mondo oltre i confini, ma Francesca non aveva perso tempo e aveva scoperto immediatamente di poter accedere ancora al suo potere di Viator grazie ai doni dell’Alchimista. Così aveva combattuto lo spettro con la forza del lupo, lo aveva letteralmente fatto a pezzi; aveva poi raccolto la ferraglia che ne era rimasta e l’aveva seppellita in giardino. Purtroppo, proprio quella mattina, nel suo giardino aveva trovato soltanto una grossa buca vuota. Aveva quindi messo in allerta i suoi sensi: le antenne della sua amata farfalla non sporgevano dalla sua testa, ma funzionavano in lei, mostrandole i luoghi dove il male si nascondeva. Così aveva fatto guidare suo marito fino a quel paesino, fino a quel cimitero, restando concentrata sulla localizzazione dello spettro e indicando le strade da prendere con la precisione di un navigatore satellitare.

    Ed era tornata al punto di partenza, ma decisa a dissolvere la ferraglia prima che tutto ricominciasse.

    Tempo di riprendere fiato, di rilassarsi abbastanza da veder sublimare il metallo che la proteggeva, poi raccolse con cura tutti i pezzi e li infilò nel bagagliaio dell'auto.

    Nel frattempo, Roberto aveva raggiunto il giovane aggredito che ancora ansimava sbattuto a terra, sconvolto. Si portò le mani al petto e si concentrò a sua volta sul potere del lupo. Quando l'animale rispose, lui poggiò le mani sulla testa del ragazzo, che si addormentò all'istante. Non poteva far altro per lui che lasciargli credere di aver avuto uno strano incubo.

    Dopodiché, i due Viator tornarono in auto e si allontanarono dal piccolo cimitero.

    Bene, adesso da che parte vado? chiese Roberto a sua moglie.

    E io che ne so! rispose lei, che non aveva più alcuna traccia da seguire.

    "Mi hai fatto fare una strada strana. All’andata ho visto solo indicazioni per posti tipo Santo Tizio dei monti, Madonnina delle cascate, Paesello improbabile di 'sto…"

    Va bene, va bene, ho capito. lo interruppe Francesca. Prendi la strada principale e vedi se ci sono indicazioni per Padova, no? Roberto grugnì e accelerò verso l'unica strada degna di questo nome. Che devo dirti? Nemmeno io so dove siamo finiti! ammise lei, ridacchiando. Sapeva bene che dietro quella maschera scorbutica si nascondeva un uomo che per lei avrebbe fatto qualsiasi cosa.

    I due percorsero a ritroso la strada provinciale, a proprio agio nel più totale silenzio. Entrambi stavano ripensando alla settimana appena trascorsa, a tutte le cose che erano cambiate fin da subito dopo la battaglia degli Spiriti Antichi. Fin dal loro risveglio, non c’era stata nemmeno una serata in cui Francesca non si fosse istintivamente avvicinata a qualche spettro, in genere Larius. I fantasmi con il volto da bambini avevano infatti iniziato a tormentare la gente, anziché limitarsi ai Viator. Forse la dissoluzione dell’Alchimista aveva in qualche modo cambiato la loro natura. Francesca e Roberto sapevano soltanto che molti dei loro vicini di casa giuravano di avere la casa infestata dai fantasmi e, a ben guardare, non avevano tutti i torti. Francesca li trovava e li dissolveva. Suo marito era sempre connesso con lei e, in quei momenti, era pronto a correre in suo aiuto.

    Anche l’armatura, ora ridotta in pezzi nel bagagliaio, aveva tormentato un uomo che viveva a pochi isolati dalla villetta dei due Viator. Dopo essersi ricomposta, si era spinta appena a un centinaio di chilometri da loro, credendo a suo discapito che quella distanza sarebbe stata sufficiente perché Francesca non la trovasse.

    Roberto lasciò andare quei pensieri quando finalmente vide un cartello verde che lo avrebbe portato dritto all’autostrada. Con un po’ di fortuna, sarebbero tornati a casa abbastanza presto da riuscire a dormire per qualche ora.

    Francesca, invece, restò concentrata su quel malefico insieme di pezzi di ferro: doveva riuscire a dissolverli, proprio come aveva sempre fatto con i Larius.

    Una volta arrivati, Roberto si precipitò a letto, mentre lei passò le ultime ore della notte alla ricerca del giusto rituale. Solo quando finalmente vide scomparire nel nulla i resti dello spettro si concesse di raggiungere il suo compagno.

    Ebbe l'impressione di risvegliarsi pochi minuti dopo, disturbata dal suono del campanello; le coperte sembravano pesare come piombo. Il trillo che l'aveva svegliata continuava a produrre echi irreali nella sua mente. Guardando la sveglia sul comodino, dovette però ammettere che era già mezzogiorno: aveva dormito almeno sette ore di fila. Comunque troppo poche, per gli sforzi a cui si era sottoposta.

    Roberto si era alzato relativamente presto, per poter andare a prendere la piccola Zoe dalla nonna, sistemare un po’ la casa e preparare qualcosa da mangiare prima che arrivasse Lucilla.

    Entra, Lucilla. Francy è ancora a letto! comunicò alla ragazza, facendola entrare in casa.

    Grazie, Roberto. Ciao, Zoe! salutò Lucilla, rivolgendosi con un sorriso alla bambina che si nascondeva dietro le gambe del padre.

    Zoe ricambiò il sorriso, per poi scappare sul cuscino giallo ai piedi del divano.

    È timida! disse Roberto, facendo segno a Lucilla di seguirlo in cucina.

    In quel momento comparve anche Francesca. Lucilla la guardò mentre sollevava Zoe da terra e se la stringeva al petto. Aveva i capelli arruffati e indossava una vecchia tuta da ginnastica, probabilmente la stessa con cui aveva dormito: stonava un po’ con l’abitino della domenica che aveva addosso la bambina.

    Francesca raggiunse la sua ospite in cucina e le sorrise. Sistemò la bimba sul seggiolone, poi gettò le braccia al collo del marito, baciandolo teneramente sulle labbra.

    Sono stanca morta, ma ce l’ho fatta! annunciò trionfante. Sorrideva, nonostante i segni della stanchezza fossero ben visibili sul suo volto. Poi si lasciò cadere mollemente sulla sedia, mentre Roberto metteva in tavola tre piatti e un piattino colmi di spaghetti al pomodoro.

    Lucilla sorrise nel vedere l’uomo tagliare la pasta a piccoli pezzi, per poi porgere alla bimba un cucchiaio di plastica blu. Solo quando la piccola ebbe terminato il suo pasto e fu accompagnata nella propria stanza per il riposino, Francesca poté raccontare a Lucilla tutto quello che le era successo. Alla fine ci ho passato la notte, ma quello spettro maledetto è ormai solo un ricordo! concluse con soddisfazione.

    A me non è successo nulla del genere intervenne Lucilla, ma forse è perché dopo la battaglia mi sono… voglio dire, ho passato parecchio tempo in casa. minimizzò poi.

    Devo insegnarti tutto, non si sa mai! Oggi pomeriggio ce ne andiamo a caccia di spettri, ti va? propose Francesca.

    Lucilla sorrise in segno d'approvazione. In realtà non era troppo entusiasta di quel programma ma, certamente, imparare a difendersi non poteva far male.

    L'espressione di Francesca si fece assorta.

    Sai, Lucilla, ne abbiamo passate così tante che non ricordo bene dove siamo rimaste. Abbiamo provato a passare oltre i confini assieme, ma non abbiamo mai sperimentato nulla riguardo ai rituali, non è vero? le chiese.

    Lei storse il naso, indecisa su cosa risponderle. "L'ultima volta che sono venuta a trovarti, nemmeno sapevo dell'esistenza dei rituali. Comunque,

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