Il dolore è il mio scopo
Di Donata T.
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Il dolore è il mio scopo - Donata T.
633/1941.
1
Il dottor Lucio Manolo, oculista di prim’ordine, è comodamente seduto sulla sua poltroncina, di pelle lucida, posizionata dietro a una massiccia scrivania di quercia, sopra di essa due massicci fermacarte d’argento la abbelliscono.
Sospiro rassegnato, alcuni uomini amano la propria ricchezza a tal punto da volerla ostentare in ogni modo possibile. Solo questi due futili oggetti valgono più del mio misero conto corrente ormai quasi prosciugato.
Per lui, e altri suoi simili, è doveroso andare al lavoro indossando completi costosi, possedere automobili che equivalgono quasi quanto un mini appartamento e acquistare una villa da centinaia di metri quadri che nemmeno una squadra di calcio può riempire. Ovviamente, nell’elenco non può mancare un conto corrente con molteplici zeri sempre a disposizione.
Nonostante la nausea che provo di fronte a questo mondo scintillante, riesco a sorridere. Proprio l’avarizia, del noto dottor Manolo, è stata la mia fidata complice.
Come poter rifiutare un appuntamento fissato all’ultimo minuto, in tarda serata, se ti concede l’opportunità di guadagnare un onorario con sovraprezzo per il favore concesso al paziente? Non si può. È un obbligo morale accontentarlo in nome dei soldi.
E così, il dottor Manolo resta nel suo lussuosissimo studio, che comprende anche un televisore al plasma ultimo modello, fino alle venti, in attesa del povero paziente che ha urgente bisogno del suo consulto.
I soldi possono portare alla cecità e, a volte, anche letteralmente perché se si fosse fermato a riflettere solo per un secondo, distogliendo l’attenzione dal denaro, si sarebbe ricordato che, all’ora da me fissata, sarebbe rimasto solo, in una stanza perfettamente insonorizzata.
Se ho detto che il caro dottore è seduto comodamente mi sono sbagliato un tantino. Che sia seduto non vi è alcun dubbio, ma non comodamente.
Intorno al suo busto passano svariati giri di nastro adesivo isolante nero, che lo tengono ancorato alla poltrona in modo da impedirgli qualsiasi movimento, le caviglie sono saldamente unite tra loro e le braccia legate ai braccioli della poltrona. Per quello che ho in mente, necessito che Manolo resti fermo e così, per precauzione, ho bloccato la fronte, legandola con il nastro al poggiacapo.
Mi allontano di un passo e lo osservo attentamente. Sistemato così sembra un grosso pacco regalo pronto per la consegna. Dovrebbe andar bene per il mio scopo ma, per maggior sicurezza, scuoto energicamente il corpo che si muove con la poltrona. Sorrido maligno, per lui adesso non c’è via di fuga.
Richiamato dal mondo dei sogni, il dottore rinviene dalla botta che gli ho inferto per stordirlo e, una volta resosi conto di essere legato e impotente, inizia inutilmente a dimenarsi furiosamente, con gli occhi sono sgranati dalla paura.
Solo ora, davanti a quei occhi che chiedono pietà e che implorano perdono, per qualcosa che non sa di aver commesso, mi rendo conto del mio grande potere. Ho la sua vita nelle mie mani. Con un solo gesto, posso decidere se dargli speranza o toglierla definitivamente.
Purtroppo, per lui non c’è alcun pietà, perché nessuno ne ha avuta per me quando ne avevo bisogno e, il meglio, è che non ha ancora il minimo sentore di ciò che lo attende. Se ne fosse a conoscenza, preferirebbe morire all’istante.
Solo dopo alcuni minuti di inutili contorsioni, durante i quali mi godo la scena, si tranquillizza quanto basta per parlare, con il volto color rosso fuoco dovuto dallo sforzo. «I soldi sono nell’ultimo cassetto della scrivania della segretaria.» mi informa con voce agitata.
Che banalità credere che tutto giro solo ed esclusivamente intorno al denaro, nella vita c’è ben altro e, a volte, ce ne accorgiamo troppo tardi.
«Non si preoccupi, se li può tenere.»
Alle mie parole i suoi muscoli si rilassano, momentaneamente sollevato dall’idea di non perdere il suo cospicuo guadagno giornaliero. Solo in un secondo momento, quando il cervello torna a funzionare a dovere, si rende conto che ciò che voglio è lui.
«P-per favore non mi faccia del m-male.» balbetta, incespicando sulle parole.
Strano constatare come, tenendolo semplicemente legato, Manolo si trasformi da un luminare apprezzato in un insignificante essere tremante, che implora pietà riducendosi in un verme, che striscia ai piedi del suo aguzzino.
Finalmente imparerà una lezione importante. I soldi non risolvono tutti i problemi. Peccato che per lui sia troppo tardi.
«Mi dia solo un buon motivo per cui non dovrei toccarla.» mi mostro accondiscendente. In fin dei conti, mi è stata fornita un’ottima educazione.
«Ho una moglie.» implora, mentre la fronte si impregna di sudore e mi fissa con occhi supplichevoli di un cerbiatto, consapevole di star per essere ferito a morte.
Sono soddisfatto di come reagisce, perché le uniche emozioni che voglio godermi, riflesse sulla sua faccia, sono terrore e impotenza. Le medesime che ho provato io.
«Risposta sbagliata.»
«Mi dica come posso farle cambiare idea.» insiste, sperando di trovare un modo per sfuggire al suo destino.
«Nulla.» lo informo mentre prendo un pezzo di nastro adesivo già pronto e sigillo la sua bocca.
Immediatamente i suoi occhi verdi si muovono frenetici in cerca di un possibile aiuto e il respiro si fa sempre più affannoso, facendo colorire le sue guance di un rosso fuoco. Se non si da una calmata rischia di morire di infarto prima del tempo e non è accettabile. La sua morte deve avvenire in modo molto lenta e molto, molto dolorosa.
Per calmarlo, mi siedo sulla scrivania di fronte a lui e inizio a parlare. Non sono magnanimo, la sofferenza ha divorato la mia anima a tal punto che non so se riuscirò a provare altri sentimenti. Se cerco di metterlo a suo agio è solo per prolungargli la pena. I miei progetti per lui sono ben lungi dall’essere magnanimi.
«Sai, ho fatto un giro nello studio mentre stavi riposando a causa della botta.» gli indico un bernoccolo evidente sul lato destro della fronte. «Devo ammettere che è stupefacente come, in pochi metri quadri, si possa rinchiudere una vera fortuna. Anche a me sarebbe piaciuto vivere così, purtroppo alcuni eventi me lo hanno impedito o, per meglio dire, alcune persone.»
Scendo dalla scrivania e mi sposto di lato quanto basta per far vedere al dottor Manolo la sorpresa che lo attende.
In un catino di alluminio sono appostati un cucchiaino da caffè, una soluzione di disinfettante e un’ovatta di cotone. Lì accanto, ho preparato un piccolo vassoio d’argento che fino a pochi minuti prima fungeva da porta caramelle. Un stupido vassoio d’argento per delle banali caramelle. A casa mia non ho più nemmeno una caramella.
«É arrivato il momento in cui lei, dottor Lucio Manolo, si trasformi in paziente.» gli spiego, mentre imbevo un batuffolo di cotone con cui strofino accuratamente il mio strumento. Bisogna sempre stare attenti che gli attrezzi siano ben disinfettati prima di operare.
L’oculista scuote inutilmente la testa. Eh sì, a volte stare di fronte alla verità ci spaventa. «Non si preoccupi, proverà molto dolore, ma nulla in confronto a quello che ho provato io.» da sotto il nastro provengono delle urla mute. «Non si sforzi, nessuno la può sentire. Non si è chiesto il motivo per cui ho fissato un appuntamento a un’ora così tarda? Ovviamente no, a lei interessa solo guadagnare. Mi creda, nessuno è così pazzo da voler andare da un’oculista alle otto e mezza di sera, almeno che non sia per un altro motivo. Come il mio.»
Con attenzione palpo la zona intorno all’occhio sinistro e simultaneamente i suoi occhi si puntano nei miei, che tristezza doverli sprecare, raramente ho visto occhi di un verde cosi intenso. Incurante che il mio paziente continua ad agitarsi, mi concentro sul mio lavoro e, per fortuna, la sua tenacia dura solo un minuto, fino a quando lo shock lo induce in uno stato di apparente quiete. Ora, finalmente, sono libero di procedere.
Con l’indice alzo la palpebra superiore dell’occhio sinistro, mentre con il pollice abbasso quella inferiore, in modo da non permettergli di serrare l’occhio e di interferire con la mia operazione. Per alcuni secondo sfrego il dito sulla membrana che copre l’occhio, sorpreso che uno stato di pelle così sottile possa essere tanto morbido.
Prendo il cucchiaino d’argento dal catino e appoggio la punta sotto l’orbita. Voglio gustarmi ogni singolo secondo, ogni singolo segno di sofferenza da parte del dottore, ma i suoi occhi, purtroppo, sono vitrei, come se il suo cervello avesse scelto di scollegarsi per non affrontare l’imminente dolore.
Desidero che tutto sia perfetto, questo momento deve rimanere impresso nella mia mente, in modo che mi possa ridare un po’ di quella pace che ho perduto tempo fa.
Muovendomi a rallentatore, faccio scivolare delicatamente il cucchiaino in avanti, millimetro dopo millimetro, fino a quando non si viene a trovare sotto il bulbo oculare. Serro le palpebre e gusto questi istanti, come se stessi assaporando la pietanza più squisita al mondo. Non ho fretta, ho pianificato tutto.
Ovviamente, immediatamente Manolo si agita a causa dell’intenso dolore che sta provando. I muscoli sono tesi più che mai, le mani artigliano il bracciolo fino a far sbianchire le dita e la vena del collo è talmente visibile che rischia di scoppiare. Deliziato dallo spettacolo posso immaginare le urla mute che stanno uscendo dalla bocca tappata. Se fossi un compositore la chiamerei La sonata del dolore
. La migliore musica che abbia mai sentito.
Mi fermo alcuni secondi per far si che il dottore si riprenda, perché desidero ardentemente che assista alla sua dipartita da presente e non da svenuto. Quando noto che le mani si rilassano, segno che il suo cervello si è abituato all’atroce dolore, proseguo senza indugi. Affondo accuratamente il cucchiaio ancora per alcuni preziosi millimetri, fino a quando non odo un ovattato rumore viscido e gelatinoso, segno che la cornea si è staccata dal bulbo oculare.
Alzo lo sguardo e noto che Manolo è all’estremo delle forze e, nonostante continui a respirare, seppur in modo irregolare, il suo capo ha perso quella rigidità iniziale e ora giace adagiata sul poggiatesta. Gli do due leggere sberle sulla guancia per farlo riprendere e questa volta impiega più tempo per riaversi.
Dopo un minuto riapre l’occhio buono e il suo volto è mortalmente cereo, persino più spettrale del mio. Con un sorriso soddisfatto, imprimo una leggera pressione e, con un leggero movimento rotatorio del polso, la palla orbitale giace sul cucchiaino. Una perfetta palla bianca con al centro un cerchio verde. Con molta cura la posiziono sul piattino d’argento e riprendo da dove ho interrotto.
Osservo Manolo privo di sensi e, noto con piacere, che nonostante il dolore patito ha ancora forze per restare in vita. Meglio così, se mi abbandonasse a metà ci rimarrei male, a questo gioco dobbiamo essere in due.
D’altronde, il dolore è il mio scopo.
Studio la cavità dove prima era posizionato il suo occhio ed è impressionante, un buco dal quale fuoriesce un rivolo di sangue e altre sostanze liquide che scendono sulla guancia, andando a sporcare l’immacolata camicia bianca. Un grosso buco bianco dentro il quale poter ammirare cosa cela il volto umano.
Se fossi cagionevole avrei già svuotato lo stomaco sulle preziose piastrelle di marmo, ma la sofferenza, che si trasforma in rabbia, ti priva di qualsiasi emozione. Solo per rispetto verso coloro che lo troveranno tra qualche ora, gli tappo il buco incollando su di esso del nastro adesivo.
Faccio ciò per darmi pace, non per traumatizzare gente innocente.
Già deliziato del dolore patito da Manolo, riduco la sua pena, impiegando solo qualche secondo per estrarre il restante occhio. Due semplici mosse e anche il secondo viene posato accanto al gemello. Li sistemo accuratamente sul vassoio d’argento e li posiziono sulla scrivania, in modo che diano il buongiorno alla prima persona che l’indomani entrerà nel suo studio.
Una volta terminato, sistemo tutti gli attrezzi nel lavandino del bagno e torno dal famoso oculista dottor Lucio Manolo che, finalmente, si è deciso a passar a peggior vita. Fisso il suo volto trasfigurato dalla sofferenza e un sorriso beffardo fa capolino sulla mia faccia. Ora, nemmeno il suo denaro può riportarlo in vita.
L’unico rimprovero che mi posso dare, è di non essermi reso conto quando l’ultimo alito di vita ha lasciato il suo corpo, sarebbe stato un piacere immenso assistere a quel magnifico istante. La prossima volta presterò maggior attenzione.
Lascio il corpo così com’è e indietreggio di qualche passo. La scena nel suo insieme è comica, un oculista privo di occhi. Con un sorriso sincero e l’umore decisamente risollevato, esco dallo studio e, chiudendo la porta d’entrata, mi soffermo sullo zerbino per leggere la targhetta di ottone lucente, affissa al muro, che recita Dottor Lucio Manolo oculista
. Sotto di essa attacco un foglietto scritto a macchina in cui ho scritto cambiare targhetta.
Da oggi non c’è più il dottor oculista Lucio Manolo.
2
Ritrovarsi di fronte al professore Diego Lunari è sempre imbarazzante.
Non importa se sono anni che non lo vedi o se l’hai visto per pochi mesi, mentre frequentavi la facoltà di psicologia. I suoi profondi occhi neri hanno sempre la capacità di spogliarti completamente e giungere fino al fulcro del tuo essere.
Se a tutto questo aggiungi il suo atteggiamento da so cosa faccio e sono il migliore
la combinazione è fatale.
Nonostante sia seduta nel mio studio di naturopata, mi sento comunque intimorita. Non è mai buon segno se, qualcuno che non vedi da ben otto anni, si presenta improvvisamente sul tuo posto di lavoro, in particolare se la persona in questione è un temuto professore.
Ripenso al nostro ultimo colloquio e, a tutt’oggi, non lo considero uno dei migliori, dato che è stato quando ho dovuto comunicargli la mia decisione di abbandonare gli studi. Decisamente una pessima conversazione per qualcuno che considera il gettar la spugna come il peggior fallimento.
Purtroppo, devo scartare l’ipotesi che si sia scordato di quel spiacevole episodio. La sua prodigiosa memoria gli impedisce di cancellare sia gli avvenimenti migliori che peggiori. Il mio ovviamente rientra nel secondo.
Quindi perché è qui?
Elenco velocemente tutte le possibilità, ma vengono depennate una dopo l’altra.
Non necessita di uno psicologo. Avrebbe potuto rivolgersi a un suo collega.
Non è una visita di cortesia. Mi avrebbe avvisato per tempo.
E, sicuramente, non vorrà rievocare i pochi mesi in cui ho frequentato il suo corso.
Lo osservo attentamente, ma la sua postura non lascia trapelare nulla. Attende pazientemente, appoggiato allo schienale della sedia. È la medesima postura di quando è pronto per sganciare una bomba. Non sai se il tuo compito è andato bene o male fino a quando la notizia non ti colpisce in pieno.
Rassegnata, gli porgo la domanda di cui so che mi sarei pentita «Perché è qui professor Lunari?»
Come suo consueto, evita di rispondere direttamente «Signorina Valle, a tutt’oggi lei rimane la mia incognita.»
So perfettamente dove andrà a finire il discorso, mi sembra di rivivere quel famoso pomeriggio. Io, seduca di fronte al professore, intenta a sorbirmi la predica di come una ragazza possa buttar via un promettente futuro senza alcun motivo. Peggio ancora, come un uomo possa sbagliare così grossolanamente su qualcuno.
Se la prima parte riguardava me, la seconda senza alcun dubbio era riferita a se stesso.
Come non compatirlo. Lunari è conosciuto nel suo ambiente come colui che riesce a comprendere profondamente l’essere umano e, a volte, ad anticipare il loro futuro. Purtroppo, non aveva ancora avuto a che fare con un’eccezione.
Se non fosse stato che abbandonare l’università per me era stata una liberazione, mi sarei potuta risentire dei suoi rimproveri. Ma, passare ore a studiare teorie su teorie e a classificare il comportamento umano in base a schemi predefiniti, era diventato opprimente.
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