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Sangue Imperiale
Sangue Imperiale
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E-book366 pagine5 ore

Sangue Imperiale

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Info su questo ebook

Tre giorni prima delle none di settembre del 96 d.C., il princeps peregrinorum Trebonio Macrino, a capo di un ufficio per il controspionaggio creato dall’imperatore Domiziano, è inviato nella cittadina campana di Liternum in compagnia del suo fidato liberto Labieno. Da qualche tempo un misterioso assassino si accanisce contro le prostitute del più famoso lupanare della colonia, lasciando dietro di sé una scia di sangue e orrore. Nel contempo a Roma, negli ambienti senatoriali, affaristici e militari, si trama alle spalle del principe. Tra riunioni segrete e depistaggi, incontri apparentemente fortuiti e intuizioni, Macrino e Labieno cercano disperatamente di venire a capo del problema, immergendosi in una realtà fatta di intrighi, bugie, mistificazioni. Riuscirà Macrino a sbrogliare l’intricata matassa? Quali connessioni esistono tra la vicenda di Liternum e quanto in procinto di accadere a Roma? Un romanzo solido e appassionante, in cui i personaggi vivono pienamente i giorni più gloriosi dell’antica civiltà latina.
LinguaItaliano
Data di uscita14 mag 2014
ISBN9788868510428
Sangue Imperiale

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    Anteprima del libro

    Sangue Imperiale - Fabio Sorrentino

    Fabio Sorrentino

    Sangue Imperiale

    arkadia

    © 2013 arkadia editore

    Trattandosi di opera di fantasia, qualsiasi riferimento a cose o persone

    realmente esistenti e da considerarsi puramente casuale

    Collana Narratori Eclypse 31

    Prima edizione novembre 2013

    isbn 9788868510428

    Arkadia Editore

    09125 Cagliari – Viale Bonaria 98

    tel. 0706848663 – fax 0705436280

    www.arkadiaeditore.it

    info@arkadiaeditore.it

    Et maiores et posteros vestros cogitate 

    (Pensate ai vostri avi, pensate ai posteri)

    Publio Cornelio Tacito

    Agricola, 32

    Dedicato a me, e a me soltanto,

    che volli e volli sempre, e fortissimamente volli.

    Vittorio Alfieri

    Avvertenze per il lettore

    Questo è un romanzo storico e, pertanto, si basa su uno scenario che si è cercato di ricostruire nel modo più meticoloso possibile. Laddove si è ritenuto opportuno sono stati lasciati inalterati i termini latini di uso quotidiano, cercando di non infastidire la lettura con note o rimandi non necessari. In taluni casi, al contrario, si è preferito utilizzare una traslitterazione moderna, per non ingenerare confusione. È questo il caso di termini come legatus legionis (comandante di una legione), o legatus Augusti pro praetore (governatore di una provincia), che sono stati resi semplicemente con i termini, rispettivamente, di comandante o governatore nella maggior parte dei casi. I nomi delle città sono stati trascritti nelle loro grafie latine e sono facilmente individuabili. Si rinvia comunque al glossario al termine del volume.

    Prima parte

    Giano Bifronte

    1

    Sinuessa, anno 849 ab Urbe condita (96 d.C.),

    tre giorni prima delle none di settembre.

    Alla Taverna il dio Sole.

    «Ti dico che l’Ispanico lo sgozzerebbe come un agnellino», insisteva Labieno mentre agitava con determinazione il piccolo bicchiere rivestito di cuoio, contenente i dadi.

    Trebonio Macrino lo fissò negli occhi: «Allora? Che dici?»

    «Divina Spes, concedimi il favore del tuo sguardo», invocò il siculo, alzando il capo al cielo. Poi esclamò con convinzione: «Due sei, e dimmi bugiardo!»

    Un’ultima mescolata e la mano vigorosa rovesciò sul pancone le preghiere del liberto. Prima di controllare il punteggio, Labieno sbirciò di sottecchi l’espressione divertita di Trebonio Macrino. Avrebbe voluto infilargli su per il sedere il rotolo con il quale il suo interlocutore si grattava il mento in quell’istante, facendogli ingoiare quel ghigno fastidioso che aveva dipinto sulle labbra fin da quando avevano iniziato a giocare.

    «Bugiardo!», ridacchiò trionfante il soldato, dopo aver scorto i dadi. «Bugiardo e fanfarone! E con questa fanno cinque», concluse Trebonio.

    «Dannazione», rispose seccato Labieno. Con aria rassegnata prese quattro sesterzi dalla saccoccia che teneva dinnanzi a sé sul bancone e, bestemmiando, li passò all’amico. «Questi sono gli ultimi che mi spilli, brutto…»

    Le sue parole furono rapidamente interrotte dalle minacce di Trebonio. «Brutto che? Forza, dammi una ragione per scannarti!»

    Il siculo arrossì di livore, tuttavia tacque, affogando in gola il resto dell’imprecazione. A quel punto il romano lanciò baldanzoso una delle monete in aria, lasciandola tintinnare più volte sul tavolaccio al quale erano seduti.

    «Tornando all’Ispanico», riprese Macrino, «mi sa che hai ragione, in fondo. Massimino non avrebbe speranze contro quella bestia.»

    Labieno annuì vistosamente, poi continuò la sua valutazione su colui che considerava il principe dell’arena: «Negli ultimi giochi gladiatori, l’Ispanico ne ha fatti fuori quattro di fila in meno di mezza clessidra. L’imperatore quasi non credeva ai suoi occhi, e sappiamo che Domiziano non è tipo da vantare le capacità altrui…»

    «Più che altro, direi che è abile nello sfruttarle a dovere», commentò infastidito il soldato, mentre con noncuranza restituiva le monete vinte allo sfortunato Labieno. Questi sorrise e, con un cenno della mano, richiamò l’attenzione del garzone dell’osteria.

    «Che fai?», chiese Trebonio, voltandosi in direzione dell’ingresso.

    «I debiti di gioco vanno pagati», spiegò ammiccando il liberto, «quindi ti offro un’altra brocca gelata di rosso di Capua.»

    «Devi sempre esagerare, tu!», lo ammonì Macrino. «Ricordati che abbiamo un lavoro da sbrigare e dobbiamo raggiungere Liternum entro l’ora undecima, possibilmente sobri.»

    Usciti dalla caupona, i due risalirono in sella alle loro cavalcature e presero a seguire l’ultima celebrazione del potere imperiale nel campo dell’edilizia: la via Domitiana. Il loro viaggio era iniziato il giorno precedente verso l’ora quinta. Erano partiti da Roma con tutta calma, attraversando Porta Capena nella calura di metà mattino e la città era sembrata stranamente tranquilla agli occhi di Trebonio. Di solito a quell’ora il vociare persistente e fastidioso dei mercanti, ritti di fronte ai loro banchi di esposizione, era una costante alla quale difficilmente ci si sarebbe potuti abituare. Alla voce roca dei pescivendoli si univano le richieste lamentose di un folto nugolo di mendicanti, trasferitisi in pianta stabile in quel luogo e pronti a sfinire con la loro insistenza i numerosi viandanti in arrivo o in partenza dall’Urbe. Tutto invece era inaspettatamente placido e silenzioso in quei pressi, zona di confluenza per le stradine provenienti dal Palatino, dall’Aventino e dal Celio. L’unico rumore percettibile era il continuo e sommesso defluire dell’Aqua Murcia, sostenuto a fatica dall’antica arcata della porta cittadina.

    Una volta allontanatisi dalle mura, Macrino e Labieno avevano aumentato l’andatura dei loro corsieri, decisi a raggiungere Formiae non oltre l’inizio della prima vigilia. Avevano superato Aricia in poco tempo, tirando dritto di buona lena fino a Tarracina.

    In prossimità delle rovine di Norba Latina lo scenario naturale cambiava radicalmente. L’ampia zona paludosa che sembrava voler accompagnare i due fino a destinazione, circondando in lontananza i lati della Regina viarum, veniva sostituita gradualmente da lunghe distese di campi coltivati. Erano terre fertili e saggiamente dissodate, strappate agli acquitrini e alle padule disseminate anni prima per tutto l’Agro Pontino grazie alla perizia e alle solide conoscenze idrauliche degli ingegneri imperiali.

    Sforzando lo sguardo al di là delle campagne, Labieno poté notare la presenza di alcune file di gonfi lecci, intervallate da alti assembramenti di pini e querce da sughero. Alle spalle della zona agricola si offriva ai loro occhi il limitare di una folta selva mediterranea. Un lieve venticello proveniente da occidente rinfrancò le loro membra accalorate, donando un po’ di refrigerio in una mattinata divenuta a dir poco rovente: un cielo terso, sgombro dal più minuto brandello di nuvola, si lasciava penetrare arrendevole dalla potenza dei raggi solari. Questi, abbattendosi ovunque sul largo selciato, si riflettevano abbacinanti sulle grosse lastre di leucitite costituenti la pavimentazione, diffondendosi velocemente ai lati della strada.

    Una volta arrivati nei pressi di Tarracina, Macrino e il liberto attraversarono le calcinate mura poste a controllo della parte alta della città, decisi a raggiungere la zona del porto. Da quelle parti avrebbero fatto una breve sosta, la prima da quando avevano lasciato l’Urbe, in modo da far tirare il fiato ai loro corsieri e abbeverarli all’acqua di una polla. Poi sarebbero andati alla ricerca di una popina, giacché la fame iniziava a farsi sentire e ancor più l’afa incalzante dei primi giorni di settembre.

    Mettendo le cavalcature al passo, continuarono a seguire lo sviluppo della strada che stavano oramai battendo da ore. L’Appia tagliava in due la zona del Foro nella sua parte settentrionale e una fitta serie di pilastrini separava il fondo stradale da quello della piazza circolare. Un nutrito capannello di cittadini, avvolti in candide toghe dal tessuto leggero, si avviava verso il lato orientale dello slargo, in direzione della basilica. Gli uomini camminavano separati tra loro a gruppi di tre o quattro, chiacchierando a voce bassa e lanciandosi a turno occhiate furtive. La maggior parte di essi aveva superato la mezza età. Altri erano decisamente in là con gli anni.

    Tempo di elezioni, pensò fra sé Macrino mentre diversi bambini si rincorrevano sorridenti all’ombra di un lungo portico che affacciava proprio di fronte la via che i due affamati viandanti stavano percorrendo. Le loro voci allegre risuonavano veloci all’interno dell’andito colonnato, diffondendo tutto intorno la spensieratezza e il diletto caratteristici della loro giovinezza. Per il tempo di un respiro, nella mente di Labieno apparve di colpo l’immagine stinta dell’ingresso della vecchia domus nella quale era cresciuto. Per un istante ebbe la sensazione di respirare nuovamente l’odore intenso e avvolgente del mare di Sicilia, l’acredine diffusa dalle reti cariche di pescaggio. Le parole di Trebonio lo ricondussero alla realtà, strappandolo all’incanto in cui era scivolato.

    «Però! Hai visto, Labieno? Direi che non se la passano male qui», e con l’indice della destra indicò lo spazio che si apriva alle spalle di quella specie di candido propileo. Era lì che era stato eretto il piccolo teatro cittadino. Il fabbricato occupava una zona ridotta ma era una costruzione esteticamente gradevole e funzionale, realizzata in maniera da sfruttare al massimo l’esigua area a sua disposizione. Il siculo portò la mano a coppa sulla fronte per proteggere gli occhi cerulei dagli intensi raggi luminosi, poi scrutò velocemente nella direzione indicata da Trebonio. Il suo sguardo cadde infine verso la parte occidentale del Foro: l’antico Capitolium, oramai vetusto, accompagnava con espressione sofferente i due forestieri nel loro tragitto verso la parte bassa di Tarracina.

    In direzione della zona dei due moli, la strada aveva preso a discendere con elevata pendenza. Labieno temé di ruzzolare rovinosamente giù per il lastricato quando il sauro che montava ebbe dapprima un sussulto e poi fece un rapido scarto. Trebonio trovò appena il tempo di arrestare il suo animale prima che questi andasse contro il corsiero del liberto.

    «Che gli dèi ti fulminino, Labieno! Tieni d’occhio la tua bestia!»

    «Maledetta serpe», si limitò a rispondere il siculo. «A momenti ci rimettevo la pelle. È giunta l’ora di fermarci, amico.»

    Macrino annuì, poi indicò una stradina che conduceva a un piccolo slargo antistante i magazzini portuali.

    «Lì Labieno, accanto alla fontana. Legheremo i cavalli a quel pino e andremo a mangiare un boccone.»

    La popina di Costanzo era di gran lunga la più affollata nei paraggi. Davanti al solido bancone in muratura affacciato sulla strada gli schiamazzi degli avventori riuscivano quasi a coprire i rumori metallici provenienti dai vicini capannoni marittimi. La fila disordinata dei clienti, in attesa di essere serviti dal proprietario e dalle sue figlie, diventava sempre più confusa con il trascorrere del tempo. L’abilità di Costanzo nel servire quell’orda di affamati e la velocità dei suoi movimenti erano il frutto di anni e anni di intenso lavoro. La fronte madida e l’espressione concentrata contrastavano con la sua sagoma imponente, simile a quella degli antichi lottatori greci di pancrazio.

    Con le mani perennemente immerse nei grossi dolia di terracotta incassati nel lungo lastrone in muratura, l’oste scrutava il viso dei suoi clienti, attento a vigilare la combriccola di beceri plebei radunati a pochi passi. Quando uno di quegli zotici infilò furtivo la destra in uno dei recipienti, una delle figlie di Costanzo, continuando a occuparsi della fornace, fischiò. In un battere di ciglia l’esile polso dello sventurato fu bloccato in una morsa dal possente locandiere. L’uomo alzò lo sguardo spaesato ma non ebbe neanche il tempo di parlare che Costanzo l’aveva già sistemato. Un unico, tremendo schiaffone a man rovescia catapultò il misero ladruncolo indietro di tre passi, facendolo cozzare contro gli altri avventori. Questi, senza grossi complimenti, finirono il lavoro iniziato cacciandolo a pedate fuori dalla fila.

    Una volta arrivato il loro turno, Labieno e Macrino acquistarono pesce fritto, frutta secca con miele e una giara di rosso locale. Consumarono il tutto all’ombra di una fitta serie di pini delimitanti l’accesso a una lunga e impegnativa salita che conduceva al santuario di Iuppiter Anxurus. La mirabile costruzione, edificata circa centosettanta anni prima per volere del famoso Lucio Cornelio Silla, era arroccata su una radura del monte Neptunius e dominava con la sua maestosità la parte bassa di Tarracina e la zona dei moli.

    Terminato il pasto, i due si rimisero subito in cammino per raggiungere Formiae entro l’orario previsto. Un pallido sole pomeridiano iniziava lentamente a calare, trascinando via con sé gli ultimi bagliori di luce. L’avvento della sera mitigò la stringente canicola di una mattinata cocente così che i due viandanti aumentarono l’andatura dei loro purosangue. Intorno alla metà della prima vigilia, Trebonio intravide in lontananza i fuochi della ridente località e, soddisfatto, si rivolse all’amico.

    «Cosa ti dicevo? I miei calcoli sono sempre precisi!»

    Il siculo lo scrutò infastidito ma si guardò bene dal replicare. Si limitò soltanto a bofonchiare sommessamente tra sé, poi aggiunse: «Bene. Tutto quello che desidero, adesso, sono una coppa di rosso e una branda.»

    «Li avrai», rispose con sufficienza il soldato. «Non preoccuparti, brutto frignone.»

    Le strade iniziavano a svuotarsi. Le lucerne che avevano illuminato per poche ore le botteghe dei commercianti all’imbrunire cominciavano a spegnersi gradualmente mentre gli artigiani, gli orafi, i fabbri e i panettieri erano intenti a riordinare i propri locali di lavoro prima della chiusura giornaliera, pregustando la gioia di una cena saporita come ricompensa per il faticoso lavoro.

    Macrino e il liberto capirono che la fama di Formiae, quale rinomato rifugio estivo dei patres romani, derivava dall’amenità dei luoghi intorno ai quali era stata costruita secoli addietro. La quiete e la serenità dominavano lo scenario lussureggiante della florida campagna che abbracciava tutt’intorno quella fortunata oasi di pace. Affacciato a mare verso occidente, il territorio pianeggiante della città andava tramutandosi in rigogliose colline dal profilo addolcito man mano che ci si spostava verso nord-est. Le ville dei patrizi più facoltosi dell’Urbe, ricche di giardini variopinti e portici colonnati, erano state edificate proprio lungo i poggi ubicati alle spalle del paese.

    I due viaggiatori, oramai stanchi di cavalcare, pernottarono in una spaziosa locanda dalle pareti color rosso pompeiano, situata lungo una parallela al cardo maximus della cittadina.

    L’indomani ripresero il loro cammino di buon mattino e verso l’ora sesta giunsero a Sinuessa, famosissima in tutto l’impero per le sue splendide terme e per la produzione del Falerno, uno tra i vini preferiti dai facoltosi dell’Urbe.

    Nel sole infuocato del primo pomeriggio, i pallidi miliari della via Domitiana sembravano dover cedere da un momento all’altro sotto i colpi di una calura asfissiante. Ogni qual volta ne incrociavano uno, Labieno strizzava gli occhi per proteggerli dagli insistenti fasci luminosi che si irradiavano tutt’intorno e ammirava l’inanimata figura calcarea nella speranza di vederla disciogliersi di colpo sul largo basolato di roccia eruttiva.

    Il liberto aveva abbandonato Roma di malavoglia per seguire l’ex padrone alla volta di Liternum. I suoi affari come speziale cominciavano a rendere bene proprio in quel periodo dell’anno e poi aveva lasciato in sospeso la questione della fullonica. Dopo anni di risparmi gli si era presentata l’occasione di rilevare una quota dell’attività di Numidio Pampliato, in modo da riuscire a mettere le mani su una lavanderia ben avviata.

    Niente male per un liberto aveva pensato Labieno, quando aveva saputo dell’affare in corso.

    Ma poi era saltato fuori quel viaggio, fastidioso e improvviso, e lui era stato costretto ad accettare l’invito di Trebonio, perdendo l’opportunità di firmare il contratto propostogli da quel pollo di Pampliato. Per un piccolo debituccio di gioco con qualche scortichino, Numidio aveva pensato bene di vendere parte della sua proprietà a una cifra ridicola, in modo da saldare in fretta il conto con i suoi infimi e assillanti creditori.

    Pampliato, il rincoglionito, avrebbe trovato facilmente un tipo scaltro, disposto a sfruttare a piene mani la sua dabbenaggine negli affari. A quel punto la possibilità del liberto di concludere l’accordo sarebbe sfumata definitivamente, insieme alla speranza di incrementare una buona volta la sua posizione economica. Così Labieno avrebbe maledetto fino alla fine dei giorni il suo scellerato ex padrone, Gaio Trebonio Macrino, princeps peregrinorum del servizio G-4 dell’Urbe.

    Strada facendo, il siculo aveva cercato di dare un senso alla storia che Trebonio gli aveva raccontato il giorno precedente la loro partenza ma, per quanto si sforzasse, non riusciva a trovare un nesso valido tra gli accadimenti che andava analizzando. Sapeva bene che il capo dei frumentarii prendeva ordini solo dai due prefetti del pretorio e che questi, a loro volta, erano alle dirette dipendenze dell’imperatore.

    A maggior ragione, considerava alquanto insolito che Domiziano fosse così interessato all’infima faccenda degli omicidi avvenuti nel lupanare di Liternum. Certamente quella serie di efferati assassinii aveva scaraventato il ricco polo commerciale campano nell’inquietudine e nella paura, ma era difficile per lui immaginare il figlio di Vespasiano che, a colloquio con uno dei suoi segretari personali, lamentasse preoccupazione per la gravità dei fatti narrati nelle cronache provenienti da una cittadina di periferia.

    Del resto lo stesso Domiziano non era estraneo a nefandezze e ignominie, e la politica del terrore era diventata oramai una delle specialità in cui il divino Cesare si prodigava con maggior diletto. Certo non era ancora arrivato al punto di sventrare le sue vittime per poi accomodargli le viscere intorno al collo, a mo’ di preziosi monili. Né sottraeva ai malcapitati nemici gli occhi e la lingua, forse come ricordo dei loro sguardi atterriti negli istanti antecedenti una fine abominevole. Una però cosa era evidente: negli ultimi anni un bel numero di senatori era sparito improvvisamente, e con essi anche i loro beni; per non parlare poi degli appartenenti all’ordine equestre, i nuovi ricchi, dei quali richiedeva sovente la condanna a morte o l’esilio, ma questo solo nel caso gli fossero particolarmente simpatici.

    Tuttavia le sue aggressioni ai danni delle vetuste sagome dei patres non scaturivano da dissennati capricci o insani deliri di onnipotenza, né tantomeno potevano essere biasimate. La prima congiura ordita dai nobili custodi della res publica romana ai danni dell’empio Domiziano risaliva a tredici anni prima. La situazione era precipitata velocemente, mandando in fumo l’attesa cospirazione, e a essa aveva fatto seguito la follia vendicativa dell’imperatore. Molte teste erano cadute e il Senato aveva tremato di terrore. Il secondo complotto, organizzato circa dieci anni dopo, sembrò dover portare finalmente all’eliminazione del tiranno. Antonio Saturnino, governatore della Germania Superiore, diede inizio a una rivolta alleandosi con i feroci Catti, una tribù barbara già protagonista di diverse guerre contro i romani. Grazie al loro aiuto Saturnino riuscì a farsi proclamare imperatore dalle sue truppe. In realtà i sogni di speranza della vessata aristocrazia romana durarono poche settimane: proveniente dall’Hispania con la VII legione Gemina, il giovane e valoroso comandante Traiano raggiunse a marce forzate i territori della rivolta e, con l’aiuto del governatore della Germania Inferiore, Aulo Bucio Lappio Massimo, sconfisse rapidamente l’usurpatore.

    Represso anche quest’altro tentativo di deposizione, Domiziano aveva dato sfogo a tutta la propria malvagità, assecondando le sue paranoiche manie di persecuzione ai danni di chiunque potesse essere sospettato di condotta ambigua. Sotto i colpi di spietate rappresaglie erano caduti sia politici che intellettuali. I matematici, i precettori, gli attori satirici e i filosofi furono banditi dall’Urbe, mentre guai ancor più seri si profilavano per coloro i quali avevano abbracciato la religione cristiana. Così, la situazione nell’Urbe, era oramai divenuta insostenibile per tutti i maggiorenti, esasperati dal comportamento squilibrato dell’imperatore. Il popolo, di contro, acclamava a gran voce le sue magnanime elargizioni in denaro e grano, così come i frequenti giochi gladiatori e le numerose feste cittadine alle quali l’astuto Domiziano amava partecipare in prima persona.

    Mentre navigavano nelle profonde acque dell’incertezza, le elucubrazioni del liberto furono interrotte dalle parole ridanciane di Macrino.

    «Che hai, Labieno? Non dirmi che ti mancano già le tue procaci amichette della Suburra.»

    Il siculo abbozzò un sorriso posticcio, poi rispose evasivo: «Figurati. Le mie preoccupazioni sono altre. Questa faccenda mi puzza parecchio, amico mio.»

    Trebonio lo investì con un penetrante sguardo indagatore. I suoi occhi verdi brillavano nell’intenso sole pomeridiano. Conosceva l’arguzia e la prontezza di pensiero del liberto, quindi cercò di scoprire quali fossero le sue perplessità.

    «Sentiamo allora», ribatté Macrino in tono pacato. «Se dici di sentire odore di bruciato, devi anche essere riuscito a individuare la zona dell’incendio, suppongo.»

    Labieno schioccò la lingua, continuando a osservare la strada che si apriva davanti alle loro cavalcature. Lontano, all’orizzonte, i contorni apparivano confusi e tremolanti, sfocati dall’opera insistente delle torride lame provenienti dal disco solare.

    «Non mi convince il fatto che abbiano scelto proprio te per questo incarico», esordì il siculo, lanciando una rapida occhiata al suo interlocutore. «L’imperatore avrebbe potuto chiederti di inviare uno qualsiasi dei tuoi uomini migliori, magari Vulpecula o Dracone. Invece ha preferito te. Il capo dei Castra Peregrina, l’uomo di fiducia. Un sacrificio non saperti al suo servizio nell’Urbe, specialmente in questo periodo particolarmente movimentato.»

    «In effetti stavolta la situazione sembra davvero al limite», si affrettò a rispondere il soldato. «Il ricordo della morte di Flavio Clemente è ancora vivo tra le mura del palazzo. Domizia Longina ha cercato in tutti i modi di convincere suo marito a giocare di astuzia. Gli ha proposto il rientro dall’esilio a Pandateria di sua nipote Flavia Domitilla, ma l’imperatore non ha ceduto.»

    «Oramai a Roma si scommette sul nome del prossimo sfortunato che cadrà vittima della sua crudeltà», commentò Labieno divertito. «Pensa che all’angolo tra l’Argiletum e il clivus Suburanus c’è un trace che sta tirando su una fortuna con questo nuovo gioco. E dovresti vedere quanti puntano!»

    Trebonio agitò il braccio sinistro verso il siculo, come a voler scacciar via quella stupida affermazione. Poi riprese a parlare. Un’espressione preoccupata calò rapidamente sul suo volto, madido per l’afa dell’ora nona che sembrava cingerli d’assedio.

    «Tornando ai tuoi dubbi, non ti nascondo che anche a me è apparsa strana la decisione di inviarmi a Liternum. Gli omicidi del lupanare devono nascondere qualcosa di grosso, a mio parere. Non vedrei altrimenti la ragione di un simile interesse da parte di Norbano e ancor più di Petronio Secondo…»

    Quasi mi obbligava a partire il giorno stesso nel quale mi ha comunicato la notizia.»

    «Quello, poi!», esclamò infastidito Labieno. «Pagherei per vedere la sua testa calva servita su un vassoio.»

    Macrino sorrise di gusto. Petronio riusciva a suscitare lo stesso disgusto in tutti quelli che lo conoscevano. Sebbene lo stipendiasse lautamente, perfino Domiziano lo reputava un arrogante attaccabrighe.

    La vista in lontananza delle porte di Liternum rallegrò il morale dei due viandanti. Il tratto della via Domitiana che avevano percorso, partendo da Sinuessa, era stato piuttosto breve, sebbene il caldo incessante li avesse tormentati per tutto il tragitto. Giunti in prossimità del Clanius, i campi coltivati avevano lasciato rapidamente il posto a lunghe distese paludose, infestate d’insetti e dall’odore tutt’altro che piacevole. Eppure, lungo gli argini del fiume, fitte distese di viole accompagnavano lo scorrere incessante delle sue acque tumultuose fino all’incontro con il Literna palus. Nei pressi del lago, l’impetuosità del corso d’acqua scemava parecchio e si intravedevano nuovamente, oltre un’esile cortina di salici, le prospere campagne circondate dai lecci e dagli ontani. La colonia romana sorgeva a poche miglia di distanza dalla foce del Clanius. Lì, a sud dell’ampio specchio d’acqua tendente più a una palude che a un lago, Publio Cornelio Scipione aveva trascorso gli ultimi anni della sua vita, costretto dall’indignazione generale a un esilio forzato nella città che aveva donato ai suoi veterani di Zama. Il vincitore del grande Annibale, il valoroso condottiero destinato a glorificare nei secoli il nome di Roma, esecrò pubblicamente i nobili patres durante il processo condotto da Catone il Censore che lo vedeva come imputato. Lui, l’Africano, idolo dei legionari e appartenente a una delle famiglie più antiche e rispettate dell’Urbe, era stato accusato di frode insieme al fratello dopo la vittoria contro Antioco re di Siria. Deluso e amareggiato dall’assurdo comportamento dei senatori, il comandante aveva deciso di ritirarsi nella tranquillità della sua villa campana, circondato da chi reputava l’unico esempio di virtù romana: i suoi soldati.

    I sauri dell’inviato imperiale e del suo accompagnatore attraversarono al passo l’imponente arco trionfale che dominava l’intera zona antistante l’ingresso della città. Circa cinquecento passi oltre la loro posizione, la Porta Publia attendeva l’arrivo dei numerosi carri stracolmi di mercanzie e diretti al porto di Puteoli. La lucrosa colonia di Liternum aveva iniziato ad accrescere la sua ricchezza fin dagli albori dell’impero, sotto il principato del divino Augusto, e aveva saputo sfruttare al meglio la sua vicinanza ai rinomati luoghi di villeggiatura della costa campana: senatori, cavalieri, ricchi liberti, tutti spendevano cifre da capogiro per riuscire ad accaparrarsi una residenza in prossimità della verdeggiante campagna che, svariati secoli addietro, aveva rappresentato il fulcro della Magna Grecia.

    Con la costruzione della via Domitiana, gli affari per la fortunata Liternum erano addirittura triplicati. Tappa obbligata per chiunque avesse dovuto raggiungere il trafficato porto campano di Puteoli, la colonia era diventata in breve tempo un polo attrattivo per intere carovane di mercanti. Folti gruppi di magones, i biechi venditori di schiavi, inondavano periodicamente gli spazi del Foro con i loro forniti cataloghi di mercanzia umana; i venditori di bestiame si alternavano ai magnarii, che offrivano grano, olio e vino, o con i pomarii, che si distinguevano per i loro banchi di frutta e verdura. Più in là si vedevano i vestiarii con stoffe pregiate provenienti dagli angoli più lontani dell’impero, gli unguentarii, con le loro intensissime essenze profumate, e gli aurifices, che esponevano magnifici gioielli.

    Liternum osservava ammiccante quell’energico e confuso brulicare di attività e da ognuna di esse traeva quotidianamente il suo profitto. Tutti erano tassati sulle merci vendute o introdotte in città, tutti pagavano dazio per il regolare svolgimento dei propri commerci.

    «Lo conosci questo Marco Stazio Afro?», esordì Labieno, mentre attraversavano l’affollata strada che conduceva al Foro.

    «Non di persona», si affrettò a rispondere Macrino. Nelle sue parole si scorgeva un’inflessione rilassata. «L’imperatore però mi ha assicurato che è un magistrato fedele e integerrimo e che si è detto onoratissimo di ospitarci nella sua domus

    «Fedele e integerrimo?», ripeté divertito il liberto. Per un attimo lo sguardo di Trebonio cadde spietato come una mannaia sulla figura del siculo. Questi non si curò per nulla dell’occhiata omicida e continuò a ridacchiare di gusto.

    «Oh dèi, se lo dice il divino Domiziano c’è da crederci allora! Ah ah.»

    «Ridi pure, stupido liberto», lo ammonì il princeps peregrinorum. «Intanto Afro è stato eletto duumvir per il quarto anno consecutivo. Da quanto mi è stato riferito, la scorsa elezione in città si è tramutata in un plebiscito. I decurioni lo sostengono a spada tratta e la popolazione intera beneficia a piene mani delle sue frequenti elargizioni. Chi credi abbia fatto costruire la porta che ora è alle nostre spalle? Gli spettacoli che si svolgono nel teatro sono organizzati a sue spese, così come la distribuzione mensile di frumento extra per tutti gli aventi diritto di Liternum. Dicono che la sua salutatio matutina sia qualcosa d’incredibile.»

    «Uhm, e non ti sembra strano che un uomo così probo e interessato al benessere del prossimo possa essere tanto in confidenza con

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