Saba palazzeschi calvino : un percorso critico
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Anteprima del libro
Saba palazzeschi calvino - Angelo Ariemma
SABA PALAZZESCHI CALVINO. Un percorso critico
Angelo Ariemma
anno di pubblicazione: 2013
copyright: Angelo Ariemma, 2010
ebook: Narcissu, 2013
isbn:non disponibile
Questo libro è stato realizzato con BackTypo
un prodotto di Simplicissimus Book Farm
SABA PALAZZESCHI CALVINO. Un percorso critico
Indice dei contenuti
Colophon
SABA
Poesia onesta
Saba e Debenedetti: il poeta e il suo critico
Ernesto: l’ultimo esorcismo
Poesia in tre stati: da Leopardi a Saba
PALAZZESCHI
La poesia giovanile di Palazzeschi: dal dolore al controdolore
Un romanzo ritrovato
CALVINO
Tragedia dell’ascolto
Cammei
Leggere o amare? This is the question!
Vocabolario di città
Angelo Ariemma
SABA PALAZZESCHI CALVINO
un percorso critico
ai miei genitori
che mi hanno cullato
SABA
Amai trite parole che non uno / osava. M'incantò la rima fiore / amore, / la più antica difficile del mondo.
POESIA ONESTA
Verità e onestà sono due parole magiche per Saba, due concetti alla base del suo scritto di poetica del 1911: Quello che resta da fare ai poeti.[1] In questo scritto giovanile Saba dichiara a tutte lettere la sua concezione poetica, contrapponendo due modi di fare poesia antitetici: quello di Manzoni, volto alla ricerca e all'espressione del suo vero sentimento e del suo vero essere; e quello di D'Annunzio, più portato invece verso una pura elaborazione formale e musicale, anche a costo di esprimere sentimenti non provati e artificiosi. Natural-mente Saba si pone subito dalla parte di Manzoni, poiché i versi belli, quando sono privi di verità e di onestà, non lo interessano. E non lo interessa nemmeno l'originalità ricercata a tutti i costi. Giustifica così due peculiarità della sua poesia: i frequenti calchi da altri poeti, che naturalmente però nel contesto delle sue poesie assumono tutt'altro senso e significato; e le ripetizioni di temi e di situazioni che si riscontrano nella sua opera; ineliminabili perché, dato l'uomo, la sua vita, i suoi pensieri e i suoi sentimenti, se è appunto un uomo e un poeta onesto, non può far altroche esprimere quella vita, quei pensieri, quei sentimenti, cercando continuamente di chiarirli a sé e agli altri.
Troviamo nel presente saggio anche una chiave per comprendere i futuri continui rimaneggiamenti delle poesie giovanili, quando si afferma:
È pertanto che bisogna con lunga disciplina prepararsi a ricevere la grazia con animo proprio; fare un quotidiano esame di coscienza, rileggersi in quei periodi di ristagno in cui è più possibile l’analisi, cercando sempre di ricordarsi lo stato d’animo che ha generato quei versi e rilevando con eroica meticolosità la differenza fra il pensato e lo scritto.[2]
Quindi anche le varianti devono tendere a rendere nella maniera più sincera ed onesta gli effettivi sentimenti provati nella realtà, da cui nasce lo slancio poetico; vanno al di là di semplici prove stilistiche, di più compiuta bellezza formale. E infatti per Saba,
Il poeta deve tendere ad un tipo morale il più remoto possibile da quello del letterato di professione, ed avvicinarsi invece a quello dei ricercatori di verità esteriori o interiori…[3]
Vediamo così come già in questo saggio del 1911 Sabasi ponga in polemica con quella che viene definita ‘letteratura’ in senso deteriore, per rivendicare ai poeti una funzione moralmente e umanamente più sostanziale all’interno della società: perché ad essi è dato di comprendere ed esprimere più compiutamente la realtà che ci circonda e quella che è dentro di noi. E giustamente, proprio a proposito del passo citato, così chiarisce Antonio Pinchera:
… bisogna sentire la poesia, essa stessa, come ricerca di verità, cioè, come ricerca ed espressione di sentimenti veri, che tanto più sono veri quanto più appartengono ad una esperienza comune e quotidiana.[4]
La poesia come parte integrante della vita, ad assolvervi il compito di medicina dei mali che questa vita infligge. Ma per assolvere questo compito deve assumere su di sé, come in un esorcismo, le manifestazioni, le più dolorose come le più liete, della vita comune e quotidiana
del poeta, ma che sono anche le manifestazioni della vita comune e quotidiana
di tutti gli uomini. Perciò anche il grande impegno stilistico di Saba è dettato dalla ricerca dell'espressione più vera e sincera; perché in essa ognuno possa riconoscere le proprie sensazioni e i propri sentimenti, perché così ognuno, anche chi poeta non è, possa usufruire dell'ufficio consolatorio e liberatorio della poesia.
Che poi si possa affermare che,
(...) nel poeta maturo che di volta in volta tornava sulle sue primissime esperienze agiva, sia pure inconsapevolmente, ora la volontà di occultare influssi di autori in seguito ripudiati, o più modeste simpatie delle quali il poeta maturo si sarebbe quasi vergognato, ora quella di attenuare talune forme di imitazioni scolastiche e rigide dai classici o, viceversa, il desiderio di far risaltare quelle presenze, ‘il filo d'oro della tradizione italiana’,[5]
non incide a fondo nella realtà di questa poesia, vissuta da Saba come scoperta ed estrinse-cazione delle proprie paure, per liberarsene col canto. Lo stesso Saba conferma:
Quasi tutte le sue poesie sono nate dal bisogno di trovare, poetando, un sollievo alla sua pena; più tardi anche da una specie di gratitudine alla vita.[6]
Ma in Saba non c’è solo una vita che ha bisogno della poesia, per trovarvi conforto e nuova forza vitale; ma anche una poesia che trova la sua sostanza e la sua materia nella vita. Anche a questo proposito Saba ci il-lumina quando rivolgendosi a due suoi assidui interlocutori epistolari, dice loro:
Tu vorresti far solo della letteratura; cioè solo sognare (cattivo sistema per fare dei bei libri e della buona letteratura); tutto quello che ti toglie dal sogno (cioè la realtà esterna) ti fa paura e t'ispira odio.[7]
… cava dalla tua vita i tuoi racconti, i quali, più aderiscono alla tua personale esistenza, più piacciono ed interessano.[8]
Il fatto che Saba si rivolge a due romanzieri quali sono Quarantotti Gambini e Comisso, non deve trarci in inganno, poiché le due raccomandazioni si applicano benissimo alla sua poesia, che dal dato vivo e reale parte con slancio lirico verso il sogno e la sublimazione poetica; mai però in questo sogno e in questa sublimazione si perde il dato di partenza sempre presente e riconoscibilissimo.
Infatti lo spunto poetico non è dato solo dalla realtà sentimentale, interiore del poeta, ma molto spesso da situazioni esterne, che Saba coglie da quella calda vita
in cui si immerge quando più sente il peso dell'esistenza (…ma se la vita all'interno ti pesa / tu la porti al di fuori
[9]). Sono le due care voci discordi
[10] sempre presenti nella vita e nella poesia di Saba: quella introversa, tesa a cogliere tutti gli umori che si vengono svolgendo nella propria psiche, quasi in una sofferta e, nello stesso tempo, prediletta contemplazione narcisistica; e quella che invece proprio nel guardare ed ascoltare
[11] le manifestazioni più comuni della vita altrui, trova il conforto e il coraggio per sopportare la propria dolorosa esistenza.
Certo, hanno ragione Savarese e Maier quando affermano:
(…) quando pare che rappresenti cose, figure, gesti ‘esterni’, non esprime altro, molto spesso, che proiezioni del proprio interno…[12]
(…) Tanto difficile è la conquista della profonda sincerità e originalità artistica quale sarà propria della migliore, matura poesia del Saba, capace d'interiorizzare ogni esterno spunto e pretesto, facendone, diremmo, un simbolo di se medesimo, del suo sentire e pensare la vita, della sua intera mitologia di uomo e di poeta.[13]
Infatti lungo tutta la storia del Canzoniere, queste figure si presentano costantemente con una loro valenza simbolica: la madre dalla marmorea faccia
[14], la nutrice madre di gioia
[15], il padre, i 'ragazzi' gai ed esuberanti; perfino le cose e gli animali assumono spesso significati simbolici. E gli attributi di questi personaggi spesso si ripetono identici nei vari componimenti, quasi a ricordare una delle caratteristiche tipiche dell'epos omerico (quella di accompagnare l'apparizione dei vari dèi ed eroi con un formulario atto a caratterizzare ogni singolo personaggio), situandoli così in una sorta di mitologia tutta personale, consona al sentire dello stesso Saba. Il quale ci conferma questa interpretazione quando sostiene che uno dei suoi ‘ragazzi’, quello di Frutta erbaggi
[16] è il bel ‘fanciullo imperioso’ che Saba avrebbe voluto essere stato
[17].
Questa affermazione si potrebbe estendere a molti dei fanciulli presenti nel Canzoniere; i quali vengono ad assolvere così una funzione di simbolo esorcistico, atto a sublimare, attraverso la rappresentazione poetica, una delle frustrazioni più cocenti di Saba, quella appunto di non essere stato un ‘bel fanciullo imperioso’
, ma, anche nell'adolescenza, un ragazzo volto alla introversione, di animo romantico e malinconico.
Leggiamo il componimento:
Erbe frutta, colori della bella
stagione. Poche ceste ove alla sete
si rivelano dolci polpe crude.
Entra un fanciullo colle gambe nude,
imperioso, fugge via.
S'oscura
l'umile botteguccia, invecchia come
una madre.
Di fuori egli nel sole
si allontana, con l'ombra sua, leggero.
Ecco, al di là del significato simbolico, un ragazzo come se ne vedono tanti per le strade di paese, ancora spensierato, ancora gaio nel compiere il suo furto innocente, pieno di gioia e di luminosità che riverbera intorno a sé. Ma non solo il ragazzo viene rappresentato in tutta la sua pienezza di figura e di personaggio, bensì tutta l'immagine è presente e viva davanti ai nostri occhi come cosa reale, pur se descritta in quella maniera più rappresa ed essenziale tipica della stagione di Parole.
Del resto già Debenedetti ha individuato una delle caratteristiche essenziali della poesia di Saba in questa rappresentazione oggettiva, al limite del narrativo, di figure e personaggi, colti vuoi dalla propria personale esperienza di vita, vuoi da quella realtà circostante in cui Saba trova addentellati, o per affinità o per contrasto
[18], con il proprio essere.
Per cui si può certamente parlare di simboli, di mitologia, a proposito di Saba, non dimenticando però che il modo in cui questi simboli ci vengono presentati ha sempre un carattere oggettivo e reale, tale da rendere queste figure simboliche valide per se stesse, proprio in quanto rappresentazioni significanti il loro essere e la loro realtà di figure e di personaggi vivi e concreti, prima ancora del mito nascosto dietro la loro simbologia. Non di-menticando altresì che queste rappresentazioni simbo-liche non hanno mai una valenza metafisica, ma si riferiscono sempre a una mitologia tutta personale e interiore a Saba, che se ne serve per trovare in esse, nel farne la materia del proprio canto, il valore della sua poesia, vissuta come il solo mezzo per comunicare e partecipare alla vita degli altri, alleggerendo così quella angosciosa solitudine di cui si sente vittima.
Enon valgono ad annullare questa interpretazione determinate affermazioni del Saba preda delle sue ricorrenti crisi di sconforto durante le quali neanche nella poesia trovava più alcun senso, come in questa lettera a Ettore Serra del 14 settembre 1936:
Non credo più alla poesia. Non alla poesia di questo o quel poeta ma alla poesia in genere[19].
O ancora in quest'altra lettera a Nora Baldi, datata 30 gennaio 1957:
La poesia non mi ha mai, almeno nelle ultime profondità del mio essere, interessato. Mi sono rivolto a lei per l'impossibilità di agire.[20]
Probabilmente questa è un'altra delle numerose contraddizioni di Saba, che fin dalla giovinezza desiderava impegnarsi e acquisire gloria e fama in attività più solide e concrete, e invece si è ritrovato tra le mani una cosa così aleatoria come la poesia lirica. Ma sostenere in base a questo che Saba non provava nessun interesse per la sua poesia non ci convince affatto. Perché Saba ha accettato subito la poesia come parte integrante della sua vita, e vi ha impegnato tutto il suo essere, trovandovi il più grande compenso alle proprie frustrazioni di uomo. Ce ne ren-diamo perfettamente conto quando andiamo a leggere una poesia come Amai[21]
Amai trite parole che non uno
osava. M'incantò la rima fiore
amore,
la più antica difficile del mondo.
Amai la verità che giace al fondo,
quasi un sogno obliato, che il dolore
riscopre amica. Con paura il cuore
le si accosta, che più non l'abbandona.
Amo te che mi ascolti e la mia buona
carta lasciata al fine del mio gioco.
Dove chiaramente Saba ci dice le cose che maggiormente e profondamente lo hanno interessato nella sua vita: una poesia tradizionale e apparentemente scon-tata, ricca invece di nuove suggestioni liriche; la verità e l'onestà dei propri pensieri e sentimenti, cantate attraverso quella poesia; il suo interlocutore di sempre, che si iden-tifica con ogni uomo con cui è riuscito a mettersi in sintonia e a comunicare il suo dono d’anima
[22].
Ma soprattutto è difficile credere a una poesia come espediente e quasi mezzo di sopravvivenza (materiale), quando si legge la lirica intitolata appunto Poesia[23]
È come a un uomo battuto dal vento,
accecato di neve - intorno pinge
un inferno polare la città -
l’aprirsi, lungo il muro, di una porta.
Entra. Ritrova la bontà non morta,
la dolcezza di un caldo angolo. Un nome
posa dimenticato, un