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Io sono un guerriero
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E-book513 pagine6 ore

Io sono un guerriero

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Info su questo ebook

“… Daniele che lei non doveva perdere, che doveva far restare nella sua vita ad ogni costo e che è andato perduto, ora sì, è andato perduto per sempre e non tornerà, non tornerà mai più, ma non perché l’ha ammazzato qualche bomba o gli hanno sparato i talebani: perché lui ha ucciso l’immagine migliore di sé, quella che le era cresciuta giorno dopo giorno nel cuore…”

Donne, tante donne innamorate, tutte pronte a spianare la vita a quell’uomo così bello, così vuoto, così ingiustamente amato.
LinguaItaliano
Data di uscita11 ago 2012
ISBN9788867513444
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    Anteprima del libro

    Io sono un guerriero - Almena Enogoume

    I

    Mai fidarsi delle apparenze…

    La casa era silenziosa. La finestra socchiusa e il letto sfatto, le coperte ammucchiate a terra. Ecco, la schermata era completa di tutto e si poteva aprire Internet. Si sedette davanti al PC e attraverso Tiscali – meglio essere prudenti − richiamò Facebook. «Sono un maestro di nuoto», disse mentalmente a se stessa, «e per giunta mezzo norvegese». Un mezzo sorriso: «E chi l’avrebbe mai detto che avrei fatto tutta sta carriera?». Digitò completo l’indirizzo del suo alter ego maschile e poi la password, michelino. «Infami», pensò ridendo. Michelino non era mica figlio suo, se l’erano inventato quelle due briccone, per farsi grasse risate sui suoi guai. Figlie di buona donna, salvando…. No, non salvando la madre.

    Eccolo qua Michelino, un’espressione rassicurante…. Certo, era un attore famoso, ma in quella foto era irriconoscibile. La sua faccia nell’ultimo ruolo era stata sfigurata: al mago diabolico che impersonava mancava il naso, era calvo e aveva gli occhi stirati, iniettati di sangue…. Chi avrebbe mai potuto riconoscerlo in quell’immagine mezza spettinata, girato di tre quarti e col cartellino appeso al collo? Per di più aveva uno sfondo materiale, con un muro di mattoni e altre persone sedute dietro….. Sì sì, certo, un vero maestro di nuoto, preciso. L’avevano scelta attentamente con lei quell’immagine, le disgraziate dovevano pur farsi perdonare: e comunque erano state ricompensate debitamente per la confezione accurata del personaggio. Altre foto sul profilo, sempre di lui e sempre irriconoscibili, scaricate con molto lavoro, un lavoro tecnico di ritaglio e incollaggio che lei non avrebbe saputo fare; foto di piscine, perché Michelino era appassionatissimo del suo lavoro e ci teneva a far partecipare i suoi amici; filmati sulla Norvegia. E qui le avevano solo insegnato come scaricarli, i soggetti li aveva scelti lei fra le attrazioni e curiosità del luogo. E poi gli amici…..Povero Michelino, quando lo aveva preso in gestione ne aveva solo 14, tutti ragazzini, tutti della stessa scuola. Questo era uno degli indizi che le avevano fatto intuire la falsità del profilo, o era uno scherzo o era un pedofilo: diamine, che ci faceva un uomo adulto con dei ragazzini quindicenni come amici? Andava aggiunta altra gente per renderlo credibile, elenchi di persone conosciute che si era appuntata man mano che le venivano in mente, e amiche di amici rimossi e scaricati, e poi vecchie conoscenze perdute per strada. E intanto, con discrezione, ispezionava l’elenco amici del nemico, per vedere a che punto stesse.

    Lui dopo la separazione aveva ripreso a dar segni di vita su Facebook, e il numero dei suoi amici era in salita: 573 alla fine dell’estate, 591 a fine ottobre. Mirava ai 600 e Michelino doveva comparire agli sgoccioli, a ridosso della meta. Senza fare errori. Ogni tanto qualcuno lo mandava a quel paese rifiutando la sua amicizia, ma il numero cresceva comunque a vista d’occhio: 50, 60, 70….ragazzi (ovviamente allievi), donne (Michelino era single, ma serio), uomini, colleghi o ex compagni di scuola. E invece di chiedere subito l’amicizia a lui, l’aveva chiesta prima ai suoi amici, in modo da sfoderare quattro o cinque amici in comune rassicuranti. Eccolo lì, l’elenco amici di Daniele. Una maggioranza schiacciante di donne, naturalmente. Ecco le sue ex a lei note: Melanie, la ragazzina francese che aveva conosciuto in via Carli, che faceva le boccacce con una sua amica nella foto dell’account. Durante l’estate aveva avuto la tentazione di chiederle l’amicizia, e meno male che non l’aveva fatto: sarebbe stato un errore imperdonabile. E poi c’era anche lei, Maura, la due volte ex moglie, un primato poco invidiabile. E tantissime altre, senza significato finché erano solo una lista. Ma come gli andava a quelle di mantenere l’amicizia con lui dopo essere state usate, sfruttate e scaricate? Diamine, non un filo di orgoglio, dignità femminile meno di zero. Una soddisfazione del genere lei non gliel’avrebbe mai data, al bastardo. Che naturalmente aveva accettato l’amicizia di Michele, il suo Michelino, come cinquecentonovantottesimo amico, praticamente a un passo dalla vetta. Minchione. Ora il suo prezioso profilo protetto si sarebbe spalancato come la caverna di Alì Babà. Apriti Sesamo! Docile docile, Sesamo si aprì. Ecco le foto, vai che ha rimesso gli album. Dio che gusto, come gli avrebbe dato fastidio il nemico infiltrato, se solo avesse saputo! Vediamo un po’….. C’erano le sue foto, quelle foto che per sbaglio aveva visto tre mesi prima dall’account di sua figlia, colpa di due amici in comune, situazione imprevista. Che strano, guardarle adesso le suscitava un senso di sazietà e di disgusto, allora invece avrebbe dato la luna perché lui gliene inviasse qualcuna via e-mail. Certo, perché a Eleonora l’amicizia di Daniele era preclusa, un tabù, un campo minato. Solo la foto dell’account aveva potuto scaricare, e per quasi un anno era stata la schermata del suo desktop: ogni volta che compariva le apriva nel cuore una finestra di felicità, che lampeggiava un’ultima volta – la guardava estasiata fino alla fine − dopo che aveva impostato la procedura di arresto del sistema. Eh sì, c’erano tutte le sue foto da «piacione»: col bicchiere di birra, con la sigaretta in riva al mare, con la maglietta bianca in barca. In divisa nessuna, l’uniforme che gli stava tanto bene piaceva alle altre, non a lui. Roba nota, andiamo oltre. Uh guarda, le foto di Cuba…. Rieccole qua, ricicciavano fuori! Ecco la prima, Maura, Daniele, la fanciulla isolana color cioccolato, tutti e tre felici e contenti. Evidentemente gli aveva dato fastidio l’appunto e dopo averle eliminate le aveva rimesse sul profilo, per dimostrarsi e dimostrare che in fondo a quel pezzo di vita coniugale all’insegna delle belle speranze e dei buoni propositi voleva ancora bene. Le scappò una risata: guarda lì il ritratto del soldato pittore! Anche quella roba nota, l’aveva mandata perfino al museo dove era esposto per vederlo. Quello era il suo sosia, tanto che sotto la foto aveva scritto «la mia vita passata», aggiungendo che il tizio era morto nella prima guerra mondiale, brutto segno. Ma dopo, la ricognizione lo aveva rassicurato: la somiglianza era solo apparente, l’altro aveva un viso rotondo, coi lineamenti levigati come quelli di un cammeo, mentre Daniele aveva il viso lungo, il naso dritto ma pronunciato, le sopracciglia folte. E poi quello là non era mica morto in guerra, il custode le aveva raccontato la storia. Era un pittore prima che un soldato, e quando non combatteva faceva i ritratti dei colleghi. Quello era il suo autoritratto, datato 1918. Alla fine della guerra era tornato felicemente con i pennelli sotto il braccio a casa sua. Ma ormai l’ombra protettrice di lei non copriva più la vita di Daniele, quindi era ricomparso quel triste fantasma per dire che lui era di nuovo in balia del suo destino. E l’hai capito, sì?! Ora son di nuovo cavoli tuoi.

    Ed ecco qualcosa di diverso.... Album sconosciuto, Carlo e Oriana oggi sposi. Datato in estate. Ecco Daniele in abito grigio, con tanto di cravatta scura. Ci avrebbe scommesso che era il testimone dello sposo. Ecco Carlo, gli erano ricresciuti i capelli e con la sventola che aveva avuto li dimostrava tutti i suoi anni. La sposa niente di che, e tante facce serie, troppe per un matrimonio. Squallidino e tristarello, mancava giusto che gli invitati fossero in tuta sportiva invece che in doppiopetto. Niente di quello che vedeva le suscitava pensieri teneri o simpatici, e questo era un buon segno: dopo tanta fatica per percepire, per conquistare qualche pezzetto del suo mondo, ora lo vedeva di nuovo estraneo, lontano e ostile.

    Alcune caselle erano ancora libere, senza titolo e con l’effigie del suo ultimo regalo: Capitan Harlock, il suo Capitan Harlock, il loro Capitan Harlock o almeno così lei credeva. «Bastardo», pensò, «andiamo a curiosare nel vivo». Rimase impressionata dalle poche foto, dalla scarsità del tutto: tre anni prima, durante la prima escursione piratesca nel suo account sotto mentite spoglie, aveva constatato la sua logorrea inarrestabile nel proporre agli amici scene di film famosi, gag comiche, link spiritosi o riflessioni politiche. Certo, allora lui era in missione e non aveva praticamente altro da fare nell’arco delle lunghe, gelide giornate in ufficio; ora invece c’erano altre cose, ma era credibile tutta questa micragna di prodotti con quasi seicento amici? Dalla frequenza delle sue comparse intuì chi doveva essere la fiamma nuova. Eccola lì, certo era giovane, bionda e snella ma la smorfia (istantanea scattata senza posa) pareva quella di un cavallo albino. E da dove sbucava la tipa? Andiamo a vedere. Cliccò il suo nome, eccola qua: lavora presso Esercito Italiano. «E ti pareva», sogghignò ricordando il commento meditabondo di lui quando avevano parlato del delittaccio di Ascoli: «Eh, un storia torbida quella…». La sua non era mica poi tanto diversa. Lei gli mandava tante belle foto di cuccioli. Ma certo, Daniele amava tanto i cani, una dote deliziosa. Gli «amici quadrupedi» occupavano uno scomparto fotografico del suo profilo; peccato non fosse specificato che tanto i cani da caccia quanto la cagnetta gialla e nera avevano fatto la medesima fine dopo un veloce periodo di amore: scaricati alle cure amorose dei nonni, anzi degli ex nonni. Lui purtroppo non li poteva proprio tenere. Carina lei, servizievole, che gli offriva favori di ogni tipo, «Tuttooooo!!!». C’era pure la sua risposta, con sorrisone. Bravo davvero, un grande nel prendere. Ah, ecco finalmente l’umorismo che conosceva. Aveva condiviso una foto: Babbo Natale con le gambette nude e gli stivali, preso di spalle mentre si apre il cappotto davanti al fuggi fuggi della gente spaventata. «Con tutta sta crisi mi è rimasto solo questo pacco….tiè!». Niente di più corrispondente alla realtà: l’unica cosa che Daniele fosse in grado di regalare era il pisello. Un regalo per poche intime, visto che al pubblico lo vendeva, e con un preciso listino prezzi per giunta. Ma la fanciulla evidentemente non sapeva, tant’è che sotto la frase aveva aggiunto un commento altrettanto raffinato ed elegante: «E comunque davanti a tutto il mondo quel pacco è solo miooooo….». Illusa! Pura illusione pretendere quell’esclusiva: fra i quasi 600 amici lei aveva già notato un paio di denominazioni sospette che si prestavano a meraviglia perché il bimbo potesse gestire al coperto le sue scorrerie. «Quanto vorrei che restasse gravida», pensò, «non ti metterebbe il lucchetto alle palle, ma al portafogli sì, e questo basta….». Tutte le esternazioni di lei erano state condivise, quindi per sua volontà apparivano sotto il naso di chiunque facesse parte della cerchia: poco male per zio Michele, Michelino vede tutto ed è un tipo discreto, ma anche Maura vedeva e leggeva, bastava solo che attivasse il suo account, le esuberanze del calore di Federica (così si chiamava la soldatina bionda) per il suo ex marito, e la resa grafica della risata compiaciuta e accondiscendente di lui. Bastardo, bastardo, bastardo. Mancavano pochi giorni ormai a Natale. Tempo di albero, di decori, di regali…. A Daniele il regalo era sempre arrivato, per cinque anni recapitato a domicilio in una maniera o nell’altra: l’anno passato le aveva incasinato una manciata di pomeriggi a vuoto prima di darle appuntamento, quasi all’ora di cena, in mezzo al grande raccordo anulare. Si era preso la busta senza neanche aprirla, senza scomporsi a ringraziare più di tanto né al momento né dopo, tanto male ormai l’aveva abituato. Quest’anno era giusto che gli fossero negati anche gli auguri? «Te li preparo io gli auguri», pensò mentre usciva dai panni di Michelino. «Avrai gli auguri anche quest’anno, precisi come te li meriti».

    II

    Mai riaprire una porta chiusa….

    Maura e Daniele erano seduti, uno di fronte all’altra, a un tavolino della pizzeria affollata. Nel locale c’era una luce bassa e rossastra, calda e accogliente, e le voci delle persone a tavola si mescolavano col profumo delle pizze appena sfornate. Erano vestiti tutti e due con eleganza, i giacconi rivoltati sulle spalliere delle seggiole: a terra fra loro, il guinzaglio bloccato alla gamba della sedia di lei, un piccolo cane li guardava con i grandi occhi sporgenti, mobilissimi, le orecchie da volpe alzate e vigili.

    Gli aveva telefonato per un problema di mobili in quella che una volta era stata la loro casa: l’appartamento era intestato a lei, regalo di nozze dei suoi genitori, ma ora che aveva deciso di venderlo era giusto che il valore aggiunto di alcuni mobili pagati da entrambi gli fosse rimborsato. Era onesta come sempre, Maura. Per parlarne insieme con calma era nata l’idea della pizza e adesso eccoli lì, dopo tanto tempo, a sorseggiare la birra chiara dai bicchieri sabbiati. «Com’è che vendi casa Maurè?». Gli spiegò che aveva trovato un’occasione: un suo cliente vendeva un villino con giardino parecchio fuori Roma a un prezzo stracciato, la zona era bella e soprattutto vicina alle sue sorelle. A lei piaceva la campagna: era nata in campagna e sentiva il bisogno fisico dello spazio, del verde, della calma. «Ma l’hai già visto il posto?». «Il posto sì, da fuori», rispose lei con il bicchiere alle labbra. «La casa dentro ancora no. Dobbiamo darci appuntamento per vederla». Anche la vendita della casa vecchia era un affare quasi concluso: la parte attrezzata del salotto aveva aumentato l’importo chiesto, e anche la cucina era ancora in ottimo stato. Maura ci era vissuta praticamente da sola, ma in quegli oggetti c’erano pure gli stipendi di Daniele. «Ho conservato le fatture», era precisa in queste cose, «ti rimborserò la metà della spesa». Sapeva che lui era sensibile a quegli argomenti. «Beh grazie, mi servono proprio, specialmente ora che devo cambiare casa anch’io…». Lasciò il discorso in sospeso per accendere la curiosità di lei. Occhi negli occhi, Dio quant’era bello Daniele, lo riscopriva adesso dopo tanti anni. «È già finita casa tua?». Sapeva della cooperativa in cui lui aveva comperato la quota, per questo motivo era stato diviso il conto bancario in comune. «Eh no, magari….». Sorrise tristemente. «È che Carlo se ne è andato via e sono rimasto a pagare l’affitto intero da solo. Millecinquecento euro più il condominio. E chi ce la fa?». «Ah Carlo t’ha mollato? Bello stronzo!» Le scappò detto. Una nuvola nera passò negli occhi di lui: Carlo era intoccabile, ma a lei non importava. Aveva colpito con cognizione di causa. «Trova qualcun altro con cui dividere allora. Un collega, un altro amico. Se vuoi posso chiedere anch’io in giro». La proposta di aiuto le era uscita di bocca prima ancora che ci facesse caso. «Ci vuole tempo e io non ne ho». Si chinò sul cagnolino. La testolina sparì per un attimo sotto le sue dita lunghe e gentili, poi un orecchio aguzzo rispuntò fuori prepotente. «Anvedi quant’è carina….». La cagna gli annusò la mano con interesse: aveva gradito la carezza. «Come stanno i bracchi?» chiese. «Bene, per quel che ne so. Vanno a caccia con papà quasi tutte le domeniche». «Lo sai che c’avrei voglia anch’io? Solo che co’ ste partite tutti i sabati e le domeniche il tempo proprio non si trova».

    Arrivarono le pizze, calde e profumate. La cagnetta era ben educata, restava accucciata facendo finta di nulla. Mangiarono in silenzio per un po’: «Sai Maurè», lui alzò lo sguardo dal piatto,«mi piacerebbe vedere sto posto nuovo dove andrai a vivere. Sono curioso». Lei lo guardò con sospetto. «Intanto regoliamo il fatto dei mobili. Ti va bene un assegno o preferisci in liquido?». Era seria come un funzionario di banca. «È lo stesso», disse lui con noncuranza. «Mica c’è fretta. Vedi tu come ti è più comodo». Dalla penombra sbucò un nero venditore di fiori: «Rose per la signora?». «No, no grazie». Lui lo guardò con gli occhi vuoti. «Non ci servono proprio». L’indiano se ne andò, Maura smorzò un sorriso: in questo non era cambiato Daniele. Pagarono il conto della pizza a metà e si alzarono. Sembrava che lui non avesse fretta: «Allora mi farai sapere della casa nuova?». «Ti farò sapere», promise lei seria, anche se non vedeva alcun motivo in quell’interesse. Si salutarono baciandosi sulle guance: «Ciao Maurè, m’ha fatto piacere».

    Anche a lei aveva fatto piacere, certo. Salì in macchina e mise in moto, uscì dal parcheggio e prima di immettersi nella via si girò: lui era ancora lì e alzò il braccio per salutarla. Rispose al saluto lampeggiando con i fari e svoltò nella strada buia. Guidava e pensava, anzi accarezzava sensazioni. La cagnetta seduta accanto a lei sul sedile anteriore annusava la notte in silenzio. Le vennero in mente le mani di lui mentre l’accarezzava: le sue dita lunghe, il palmo quadrato, i peletti neri sul dorso, il suo tocco gentile. Ricordò le sue carezze su di lei, ne riassaporò la dolcezza. Sapeva amare Daniele. Lo rivedeva seduto davanti a lei, rivedeva il suo sguardo di nuovo caldo, buono, gentile. Chissà com’era stata la sua vita in quei cinque anni, chissà se ora era diverso. Soffocò con forza quei pensieri e impose a se stessa un’altra immagine: lei sulla soglia della loro stanza, appoggiata allo stipite, il letto coperto di divise e lui che le stipava nei borsoni, piegandole e premendo per chiudere. In quel momento i suoi occhi erano freddi e cattivi, e anche in lei la rabbia soffocava le lacrime. Anche quello era Daniele, meglio non dimenticarselo. Intanto era arrivata sotto casa. Chiuse la macchina e salì le scale quasi di corsa. Di solito aveva paura quando tornava di sera, guardava mille e mille volte la strada, il cortile, le scale prima di infilare la chiave nella toppa, per timore di essere seguita. Ma stasera ai ladri non ci pensava proprio. Entrò, liberò il cane dal guinzaglio, si tolse il giaccone e lo gettò sul letto. Sentiva una strana lievità nel cuore.

    III

    Nel buio quante cose possono accadere….

    Non si dorme mai bene prima di compiere un’impresa piratesca. C’è un sottofondo di paura che intorbidisce il riposo, paura del buio, del freddo, dell’azione proibita che si ha in mente di fare. E la cosa si aggrava quando la vittima è oggetto di sentimenti contrastanti. È bruttissimo fare del male a mente lucida a qualcuno che abbiamo amato, e che in parte continuiamo ancora ad amare: in ogni essere c’è una parte cattiva, quella che attira le mazzate, e una parte buona, che si vorrebbe fino all’ultimo ancora salvare. Ma quando si colpisce si colpiscono entrambe, e prima di farlo bisogna convincersi, bombardarsi la mente che la bontà nei ricordi era solo un’illusione. Una fatica terribile.

    La sveglia era pronta per le cinque, buio pesto ma di fatto già quasi mattina; il giorno era festivo, poca gente per strada e sicuramente di corsa, le cose necessarie già preparate nel bagagliaio chiuso, il caffè ristoratore in attesa di nascere sul fornello. Che brutta nottata… Due ore di sonno scarse con sogni angosciosi e poi più niente. Dall’una alle quattro un continuo rivoltarsi nel letto, e ogni volta che si assopiva il russare di gola di suo marito, fragoroso e insopprimibile, la costringeva a tornare lucida. E i ricordi belli si affacciavano a mettere in crisi la decisione presa: no, la decisione ormai era stata presa e lui non meritava di esserne salvato. Ogni volta che si ripeteva questo provava un senso pungente di dolore.

    Finalmente l’ora… Meglio non far trillare il segnale. Spense la sveglia in anticipo e allungò la gamba cercando sotto le coperte: eccolo, dovunque toccasse toccava morbido, accidenti a lui che si era ingrassato tanto. Gli diede un colpetto col piede per verificare la profondità del sonno: sentì che il respiro si fermava per un attimo, poi il suono gutturale riprese come prima, profondo, ritmato, abbondante. Scivolò con cautela fuori dalle coperte e guadagnò velocemente il bagno: i vestiti da lavoro erano lì a terra ad aspettarla, piegati; si vestì in silenzio ed entrò in cucina. Accese la fiamma sotto il caffè: tornò in bagno e si sciacquò il viso, aprendo poco il rubinetto per evitare il rumore. Eccolo il caffè caldo: due tazze, ci vogliono tutte per fare un buon lavoro. Spense la luce ed uscì nel corridoio: i cani la guardarono appena dalle loro poltrone, nella loro testa era ancora notte. Infilò il giaccone e prese la borsa pronta nell’ingresso. La sera prima aveva tolto i cellulari, quelli ti tradiscono perché segnalano dove vai. Non doveva esserci nessun incidente altrimenti non avrebbe avuto modo di avvisare: questo pensiero la eccitava molto. Uscì di casa richiudendo pianissimo la porta, chiamò l’ascensore; quante ne aveva fatte di queste imprese notturne, certe volte anche usare l’ascensore era un rischio ed era dovuta scendere per le scale in punta di piedi.

    Nel buio del cortile addormentato la grossa macchina nera si aprì da lontano, lampeggiando; aprì il bagagliaio ed estrasse una grossa busta con il «kit dell’assassino». C’era una grossa giacca mimetica tipo militare, con grandi tasche sporche di vernice rossa; una calottina di lana nera che copriva completamente i capelli, guanti neri di lana e una borchia di auto polverosa e annerita. E una borsa più piccola, che tintinnava muovendola. Indossò il vestiario e posò il resto giù, davanti al sedile anteriore. Si sedette al posto di guida e dolcemente avviò il motore. «Vai, cavallo di Zorro!», disse sottovoce. La sua macchina lui la conosceva, ma questa no, e non avrebbe saputo neppure cercarla se anche le telecamere stradali l’avessero filmata. Uscì dolcemente dal parcheggio e imboccò la grande strada vuota. Tutto era silenzio, un silenzio incredibile se raffrontato al traffico giornaliero. Non una volante, nessuna pattuglia: il suo amico poliziotto le aveva spiegato che quella era l’ora migliore, perché alle sei cambiavano i turni ma da quando gli straordinari non venivano più pagati nessuno regalava più un solo minuto del suo tempo, e il personale in servizio notturno staccava un’ora prima per stendere i verbali entro i tempi stabiliti. «Evviva la crisi», pensò. Imboccò con prudenza la rampa che scendeva all’autostrada e via, si immise praticamente sola. Qualche auto passava veloce, la superava a lato o si intravedeva nel senso opposto con un rapido bagliore di luci. Primo cavalcavia, secondo, telecamere in agguato, no, qua no…Ecco, ora già si poteva. Mise la freccia a destra e accostò: la corsia di emergenza era comoda e larga. Inserì la retromarcia (aveva provato più volte la manovra) e sterzò un pochino, finché l’angolo posteriore destro della grossa auto toccò il muretto bianco con la delicatezza di una piuma. Così sarebbe stata coperta dalla vista delle macchine che arrivavano da dietro, e una volta passate avanti nel buio nessuno avrebbe fatto più caso a lei. Tolse la borchia dalla custodia di plastica: serviva come scusa nel caso qualche ospite indesiderato si fosse avvicinato a chiedere spiegazioni: «Ho visto la borchia a terra e mi sono fermata a raccoglierla». Prese dalla busta piccola una bomboletta di vernice, già senza tappo, e la infilò nel tascone della giacca. Poi scese, richiuse lo sportello e si infilò, piegandosi giù accucciata, fra la vettura e il muretto. Il fischio della vernice era vigoroso, l’odore pungente: per scrivere bene doveva fare parecchia forza con l’indice, ma in fondo erano solo due parole, due sintetiche volgari parole scritte in grande, cariche di tutta la sua rabbia, risposta immaginaria alla richiesta di quell’aiuto che avrebbe dovuto dargli con l’inizio dell’anno nuovo. E una, fatta con il verde chiaro. Cinquanta metri e poi un’altra, con il blu. Altri cinquanta metri e di nuovo, arancione. Per quel pezzo di autostrada lui ci passava almeno tre volte a settimana, tornando a casa dagli allenamenti. Ed ecco qua un’altra, stavolta verde scuro. Il lavoro era talmente semplice e tranquillo che non c’era neppure bisogno della borchia. Ecco la stazione di servizio dove si erano incontrati più volte, dove lei gli portava le cose che lui prendeva graziosamente, dove si erano fatti gli auguri l’anno prima nel buio e nel gelo, e lui l’aveva seguita fino all’uscita, a distanza regolare, tanto da far sembrare che ballassero insieme un loro passo doppio silenzioso mentre il resto del mondo sfrecciava rumorosamente di lato. E mentre rincorreva queste immagini si era fermata di nuovo, in coincidenza di un punto nella recinzione dell’area al sicuro dalle telecamere dei benzinai. «Qua devo farti un murales», pensò premendo forte il dito che cominciava a intorpidirsi e a dolere. «Megascritta in memoria, e riquadrata anche». Marrone e verde, quasi mimetica. Bel lavoro.

    Poi c’era la galleria, pericolosa e sorvegliata, e un lungo tratto di guardrail inutilizzabile. Infine l’uscita. L’uscita da cui lei non avrebbe dovuto vederlo svoltare richiedeva un ultimo intervento paziente e calibrato. Aveva già studiato il punto dove accostare, dove ottenere il massimo della visibilità in coincidenza del rallentamento obbligato: gran lavoro, bricolage nero e turchese. Visibilità garantita. Uscì, percorse poche centinaia di metri e rientrò nel senso opposto per tornare a casa. Era passata un’ora e mezza e il cielo si schiariva, decisamente. Tre bombolette esaurite, anzi quattro da eliminare. Uscita dall’autostrada si infilò in una strada secondaria, dove aveva notato dei cassonetti per rifiuti interni che servivano solo gli abitanti dell’isolato: accostò e scaricò nel reparto metallo e plastica. La tensione cominciava ad allentarsi, e arrivarono presto gli sbadigli. Era ormai quasi a casa quando incrociò una volante, la prima della giornata probabilmente. Giunta al cancello però invertì la marcia, e rientrò nella via che iniziava a popolarsi di auto: «Il bar è aperto», pensò, «cornetti freschi per tutta la famiglia». Quando entrò dalla porta di casa con il pacchetto in mano i cani le scodinzolarono incontro festosi: aprì la porta del corridoio con dolcezza e sentì di nuovo gli odori della notte e quel russare cadenzato, regolare, insopportabile.

    IV

    Per campare si fa quel che si può…..

    Lo svegliò il piccolo tonfo della caldaia che si metteva in moto automaticamente, avviando il riscaldamento verso mattina. Se già partivano i termosifoni che ora era? Allungò il braccio e prese il cellulare dal comodino. Le cinque. Aveva bisogno del bagno: con cautela cominciò a cercare le mutande sotto il lenzuolo. Non voleva svegliarla e non poteva girare nudo per casa, col rischio di incontrare il bambino. Dove diavolo erano finite? Riprese il telefonino e con la piccola luce ispezionò il pavimento. Eccole, mannaggia, a terra nascoste dal copriletto. Ecco pure i calzini, sotto il comodino. Se li infilò stando sotto e scivolò fuori dal letto il più piano possibile. Aprì pianissimo la porta e nel buio camminò nel corridoio. Era quasi arrivato alla porta quando una voce lo sorprese da dietro: «Ciao Daniè….che ci fai qua?». Eccolo lì il bimbo di Magda, scalzo e in pigiama. «Ieri la macchina non m’è partita, e mamma tua mi ha accompagnato qua a casa. Ho dormito da voi». «E quando sei arrivato?». «Tardi, te già dormivi». «Mannaggia….se lo sapevo restavo sveglio, così mi insegnavi il cucchiaio di Totti…. Ora ti vesti da soldato?». «No, non ce li ho qua i vestiti….devo andare a casa a prenderli. C’hai molto da fare in bagno? Me devo sbrigare, sennò in caserma arrivo tardi e mi strillano sai». «No, solo una pipì veloce. Ma la devo proprio fare, che mi scappa!». «Vabbè dai, vai prima tu. Però svelto». Invece di aspettare rientrò in camera, recuperò la tuta e tornò fuori, col fagotto dei vestiti sotto il braccio. Il bagno si riaprì: «Fatto. Ora è tutto tuo». «Grazie». Mentre il bimbo si dirigeva in camera sua lo seguì e lo acchiappò per la spalla: «Senti un po’, ancora non m’hai detto se tifi Roma o Lazio». «Roma Daniè, sempre Roma. La Roma sempre nel cuore!». «Bravo!!! Così me piaci! Ora torna a dormire, beato te che puoi!» La risposta arrivò impastata con uno sbadiglio: «Ciao, buona giornata».

    Dopo essersi vestito tornò in camera. Fuori era buio, lei dormiva ancora profondamente, girata su un fianco. Sedette sul letto e le toccò la spalla nuda: «Oh, io vado….» Lei aprì gli occhi: «I soldi stanno al posto solito. Quello di sempre, giusto?». «Sì, ma la macchina? Mica ci posso andare a piedi a casa da qua». Magda si alzò sui gomiti, infastidita. «Ah sì, vero. Le chiavi stanno nell’ingresso, sulla mensola. Hanno un nastro nero. La macchina è in strada, verde scuro con una striscia argentata sotto. Si apre a distanza». «Sì, ma dove? A destra o a sinistra?». «Oddio, non mi ricordo. Cercala, sta qua vicino. Puoi tenerla finché ti serve, basta che non combini guai». Lui fece un gesto stizzito: «Come, cercala?». Lei gli rivolse un sorriso volutamente ebete: «Le altre non si aprono, Daniè». Lui si alzò, si avvicinò al portagioie e rovistò un attimo sotto le collane; tirò fuori un biglietto da cento euro e lo mise in tasca. Si girò per salutare, ma lei si era già immersa di nuovo sotto il piumone.

    Perse tempo nell’uscire dal parcheggio: c’era poco spazio e l’auto non era sua. Trovò anche traffico per strada e arrivò a casa tardi. Salì in fretta, prese i pezzi della mimetica e tornò di corsa giù in strada. L’importante era non ritardare, si sarebbe cambiato in ufficio. Erano già le sette. Parcheggiò velocemente e alla prima curva incontrò la signora amica sua con i cani al guinzaglio: Eleonora, era da un po’ che non la vedeva. Lei era abituata all’altra macchina, e realizzò all’ultimo, proprio mentre le passava accanto, che al volante c’era lui. Gli fece un cenno di saluto, lui frenò e abbassò il vetro un attimo: «Ciao, buongiorno! Come va, tutto bene?». Lei abbozzò un sorriso poco convincente: «Mica tanto…. Ho fatto una gran litigata con mio marito. Ieri entrava acqua dal soffitto, lui ha deciso che il tetto stava per crollare e mi ha spostato di forza le bambine dalla loro camera. A me non andava, e ce ne siamo dette di tutti i colori, mi ha inseguita persino in bagno urlando come un matto. Poi se ne è andato, è ripartito mollandomi con tutto sottosopra». «Ah», fece lui con aria assorta. «Mi dispiace». «Beato te che sei giovane, e non hai di questi problemi. Prima di sposarti pensaci bene, finché puoi…». Non c’era questo pericolo, si era appena mollato con la ragazza e lei lo sapeva. Aveva intuito che la francese se ne era andata, l’aveva vista caricare in macchina tutte le sue cose alla rinfusa, e da quel giorno la sua auto era sparita. E si era preoccupata, perché Daniele invece era rimasto chiuso dentro casa per tre giorni senza dare segnali di vita, tanto che gli aveva messo un biglietto nella buca della posta chiedendo notizie e dandogli tutti i suoi recapiti. Lui aveva risposto con un sms: così aveva avuto il suo numero e l’aveva chiamato, rompendo il ghiaccio e facendo una lunga chiacchierata, ma senza scendere mai nel confidenziale. «Eh», fece lui con fare comprensivo, «ora devo scappare, questa settimana sono capitano d’ispezione, attacco presto e devo controllare che tutti facciano bene….Ciao, ci vediamo, buona giornata».

    Eleonora era davvero inguaiata. Il giorno prima era venuto giù un diluvio di primo mattino, e dalla grande chiazza di umidità del soffitto grossi goccioloni d’acqua avevano formato una pozza proprio dove dormivano le due bambine più grandi. Una stanza lunga, zeppa di roba oltre ai due letti, scomodissima da svuotare. Bastava una tinozza sotto l’infiltrazione, ma suo marito era in vena di catastrofi e aveva decretato lo stato di pericolo rosso strillando come una gallina. Così fra urli e improperi aveva spostato uno dei letti al piano di sotto e il comodino dell’altro in un’altra camera, convincendo le ragazzine che il tetto sarebbe potuto crollare sulle loro teste e prendendo poi l’aereo all’ora di pranzo per tornarsene al lavoro dopo il burrascoso weekend. Passata la bufera lei aveva realizzato che era impossibile che le figlie si alzassero e si vestissero rapidamente se non avevano la loro roba a portata di mano, e aveva passato il pomeriggio della domenica studiando spostamenti e trasportando da un piano all’altro cassettiere e vestiario, imprecando, rompendosi le unghie e spaccandosi le mani. Aveva fatto l’essenziale, ma era ancora mezza terremotata e l’aspettava una giornata di lavoro bestiale.

    Prima di cominciare accese il cellulare per vedere se per caso l’incasinatore, che era partito furibondo, l’avesse chiamata; dopo qualche attimo risuonò un messaggio e il simbolo della bustina comparve sul display. Lo aprì subito: in alto c’era il mittente, Daniele. «Eleonora, questa mattina ti ho vista strana… Il tuo sorriso non era quello del solito buongiorno, mi sei sembrata triste. Ci vediamo presto, un abbraccio e un bacio. Daniele». Spalancò gli occhi, incredula: era impazzito pure lui? Poi sentì un bel calduccio dentro e sorrise: «Guarda tu che gentile! Ha ragione, ha capito bene. Devo rispondergli». Digitò velocemente la risposta: «Ciao Daniele, grazie del pensiero. Oggi non posso, ma domani mattina se non disturbo ti chiamo. Buona giornata e grazie ancora». In realtà avrebbe potuto chiamarlo anche subito, ma si diede un giorno di tempo per digerire la sorpresa.

    V

    A.a.a. domicilio cercasi….

    Daniele arrivò in anticipo al centro sportivo: le strade erano vuote e se l’era cavata in dieci minuti. Entrò nel parcheggio e accostò alla rete metallica la grande auto verde. Gli vennero subito incontro i colleghi, che lo sapevano rimasto a piedi il giorno prima. «Sei andato a vedere quelle due case?», gli chiese il suo grande amico Carlo. In fondo (anche se proprio in fondo in fondo) si sentiva colpevole per quella situazione. «No», gli rispose con aria cupa. «Ho solo telefonato. Capirai, uno vuole 700 euro solo d’affitto, e poi c’è il

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