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Il Chiostro degli Incurabili
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Il Chiostro degli Incurabili
E-book212 pagine3 ore

Il Chiostro degli Incurabili

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Info su questo ebook

Un viceré spagnolo commissiona un affresco a Giorgio Vasari per la sua nuova reggia. Ne viene fuori un imponente decoro dal sapore alchemico che fungerà da ispirazione per qualcuno che l’alchimia la conosce per davvero. Giambattista Della Porta, scienziato e alchimista, decide di tramandare l’occulto scibile in suo possesso facendo affrescare le volte del luogo che più di ogni altro ama: il Chiostro dell’Ospedale Incurabili a Napoli. In seguito, fornisce indicazioni a un suo discepolo, Giambattista Manso, per instradarlo alla ricerca del sistema per la realizzazione della Pietra Filosofale.

Manso, passa il testimone a un avvocato appassionato di anagrammi, il quale scrive un’opera con l’intento di continuare la catena di sapienza. Un eruditissimo abate e un architetto borbonico, individuano nel Chiostro e nello scritto dell’avvocato, la chiave per la realizzazione alchemica. Nei secoli successivi, preti, rivoluzionari, medici, massoni e occultisti si avvicendano nella risoluzione e trasmissione dell’arcano.

Una staffetta che si rincorre attraverso quattro secoli fino a giungere alla contemporaneità, in cui il lettore potrà facilmente controllare le corrispondenze proposte.
LinguaItaliano
Data di uscita29 gen 2015
ISBN9788891174369
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    Anteprima del libro

    Il Chiostro degli Incurabili - MARCO GRANATO

    633/1941.

    Sommario

    I – Il Viceré Urbanista

    II – Giambattista Della Porta, il Genio Alchimista

    III – I Cercatori del Chiostro

    IV – Gli Anagrammi Oziosi

    V – L'Indomito Avvocato Grosso

    VI – La Mappa di Martorelli

    VII – Massoneria e Alchimia

    VIII – Il Dottore degli Incurabili

    IX – Napoli, Marzo 1943

    Ringraziamenti

    Bibliografia

    I

    Il Viceré Urbanista

    sommario

    La primavera a Napoli, prima ancora di rivelarsi con il mitigarsi del clima, si manifesta tramite gli odori: la terra su cui poggiano le fondazioni degli edifici partenopei trattiene per sé l’energia ignea dei vulcani limitrofi, che in certi momenti viene restituita. Si creano punti in città nei quali questo risveglio è vividamente percettibile. Un esempio? Provate a passeggiare in primavera per i Quartieri Spagnoli poco prima del tramonto; avvertirete un cupo odore, una mescolanza di sentori di pietra che genera una caratteristica vibrazione olfattiva. È il respiro del tufo. Di giorno, gli edifici inspirano tutto quel che possono e, al crepuscolo, si rilassano espirando calore, odori e umori.

    Passeggiando a Posillipo, nella piccola Baia dei due Frati, potrete godere della fragranza composta dal salmastro e dai muschi che tappezzano i tunnel nella roccia, mentre a Mergellina vi imbatterete nel rassicurante profumo della sabbia bagnata e delle posidonie; sull’arenile di Bagnoli percepirete l’essenza della camomilla selvatica e degli sterpi spezzati di fresco, mentre a Soccavo, nei pressi delle cave di piperno, troverete echi olfattivi di pietra focaia. A Fuorigrotta e ad Agnano potranno lambirvi le nubi solforose provenienti dalla vicina Solfatara, mentre spostandovi ai Ponti Rossi verrete accarezzati dall’olezzo dei gelsomini e dalle folate di trementina delle conifere. Ai Tribunali avvertirete gli odori dell’acqua stagnante nelle fughe del basolato, ai Granili troverete gli aspri effluvi della concia delle pelli. A Santa Maria Antesaecula domineranno le esalazioni del ranno e della liscivia, mentre Pignasecca e Montesanto vi faranno accomodare tra il sordo aroma delle carni e delle trippe. Porta Nolana è regno del metallico odore di pesce e frutti di mare, mentre al Mercato e a Sant’Eligio potrete annusare il sangue di Corradino di Svevia frammisto al delizioso profumo proveniente dalle botteghe di impagliatori. Agli Orefici sarete accolti dalla asettica emanazione dell’oro e dell’argento, e ai Vergini, dove è comunque forte il fenomeno del respiro del tufo, verrete avvolti dal pungente delle salamoie e delle papaccelle.

    Ma c’è un odore che domina ovunque: è quello del sole della primavera partenopea. È un tipico sentore che accarezza le narici partendo da quella fossetta posta sotto il naso e sopra le labbra. È una sensazione più tattile che olfattiva, per la quale occorre essere allenati altrimenti non la si percepisce. Sa di buono, è equilibrata, e se non ci si concentra, non la si può acchiappare; rimanda all’odore del sé, ma a seconda del punto in cui la si coglie, assume sfumature molto diverse. In primavera a Napoli diventa insistente, e gli autoctoni, paradossalmente, non ci fanno più caso. Un naso ben avvezzo a sentirla giurerebbe che somigli alla paglia asciutta, a un caldo legno che accarezza e tormenta allo stesso modo. È qualcosa di diverso dalle sfumature che si afferrano in altre parti del mondo, è un caleidoscopio di profumi, tranquillità e buona disposizione dell’anima.

    E l’autunno? Com’è l’odore dell’autunno a Napoli?

    Questa stagione si manifesta con l’arrivo della piacevole brezza tanto apprezzata dai partenopei. È un sollievo che distoglie dalle tensioni indotte dalla feroce canicola estiva; essa lascia sfumare gli odori solari dei tre mesi precedenti, permettendo di presagire gli effluvi di quelli che verranno. Principalmente, la caratteristica olfattiva autunnale è dominata dal profumo dei mosti. Arrivano dalle viti di Falanghina e Piedirosso sui crinali del Montespina ad Agnano, Monte Sant’Angelo e Camaldoli, da quelle di Aminèo sugli omonimi colli, da quelle di Catalanesca nei Casali di Barra e San Giovanni, da quelle di Asprinio a Secondigliano, da quelle di Sciascinoso e Coda di Volpe a Posillipo.

    Le foglie delle piante caduche, metà verdi e metà ocra, ricoprono il basolato, mentre gli aghi di pino si mescolano alle acque delle prime piogge, rilasciando un gradevole sentore pungente. Gli speroni di tufo a Chiaia si sbriciolano sotto l’erosione dei venticelli autunnali e si impastano sul selciato, conferendo all’intera zona un colore giallo sbiadito che pure profuma di muretto in costruzione. I napoletani si preparano ad affrontare il generale inverno rispolverando i mazzi di carte da gioco dal caratteristico odore; gli studenti cominciano a pensare, malinconici, al rientro tra i banchi, e le madri cominciano ad attrezzarsi, riesumando gli odori scolastici dell’anno prima. Le stamperie riprendono a far funzionare i torchi dai cui legni si libera il delizioso odore degli inchiostri freschi; gli artigiani confettieri riaccendono i fuochi delle loro bassine dalle quali si diffonde la gradevole fragranza del caramello. Ancora qualche ritardatario ripropone le spighe bollite in paioli anneriti di fuliggine, trascinati su rumorosi carretti, mentre comincia il rodaggio delle canne fumarie da cui si librano sbuffi dal sapore spigoloso di legno bruciato. Cominciano le piogge che, come in un processo catartico, lavano le strade da imprecazioni, sputi e bestemmie, e si cominciano a intravedere i rigagnoli che si ingrosseranno e dilaveranno le colline di Capodimonte per riversarsi ai Vergini.

    Insomma, l’autunno a Napoli segna la rinascita delle attività assopitesi durante l’estate. Viene sfruttato il punto in cui luce e tenebre si bilanciano, per riavviare le azioni di ogni abitante. Irrimediabilmente qualcuno si incanalerà verso le attività alla luce del giorno e qualcun altro seguirà la via dell’oscurità.

    Tra quelli che scelsero la luce dell’autunno napoletano del 1532, vi fu un signore che rispondeva al bizzarro nome di Pedro Álvarez de Toledo y Zúñiga, ai più noto come Don Pedro de Toledo.

    Questo cinquantenne dal senso pratico, più incline alle cose agibili che alle speculazioni delle scuole, era stato allevato alla corte dei re cattolici Isabella di Castiglia e Ferdinando II d’Aragona. Da quest’ultimo aveva appreso l’arte della prudenza e del senno, fino a diventare suo pupillo. Piacque così tanto al re che, sebbene cadetto e non primogenito, fu dato in sposo a un’ambitissima giovinetta di tredici anni, la quale portava in dote il titolo di marchesa di Villafranca. Per una serie di vicissitudini e di benemerenze, dall’imperatore Carlo V fu designato proprio viceré di Napoli, andando a rilevare il lascito dell’incolore e feroce Pompeo Colonna, mandato al creatore, si dice, da una scorpacciata di fichi avvelenati.

    Da questi ereditava un regno allo sbando: la città era vuota di gente, per la spoliazione prodotta dall’epidemia di peste del 1529, e di denari, per i soprusi fiscali di nobili e baroni. Gli edifici erano rovinati, i campi deserti, ma soprattutto la giustizia depressa.

    Reputò opportuno cominciare proprio dal ripristino delle regole di giustizia, sapendo che questo avrebbe donato quantomeno un po’ di sollievo ai probi e agli onesti. A tal fine, esordì il suo mandato concedendo udienza a tutti coloro che ne avessero fatto richiesta, per sentire e conoscere gli accadimenti dalla viva voce degli interessati. Si accorse così della cattiva condotta degli ufficiali che, arroganti con i deboli e zerbini con i potenti, dispensavano pene e favori con straordinaria iniquità. Il risultato di queste estenuanti udienze fu che molti ministri di giustizia e ufficiali di polizia vennero deposti dalle loro cariche e gli altri, invece, si ricondussero a rigar dritto. Fu immediatamente chiaro a tutti che l’ingerenza nelle questioni di giustizia, con raccomandazioni e tentativi di aggiustamento, si sarebbe rivoltata contro i danti causa, e di colpo questa mala prassi svanì del tutto. Fece giustiziare senza mezzi termini due nobili, autori di delitti accertati, che erano riusciti a farla franca grazie alla disponibilità monetaria con la quale avevano acquietato i giudici, ed estese questi procedimenti a tutte le province del Regno. Facile immaginare come tutto ciò risultasse indigesto alla classe di regnicoli, costituita soprattutto dai baroni che vedevano sfumare quel poterucolo da sempre esercitato con arroganza sulla plebe, il che contribuì ad alienare al Toledo la collaborazione sulla quale il predecessore aveva basato la sua crassa tranquillità.

    Incurante delle lamentele che gli pervenivano, emanò una prammatica che impediva a chicchessia il possesso di qualunque tipo d’arma che non fosse una spada, vietando la possibilità di girare armati di notte; istituì la pena di morte per il furto e fece demolire portici, supportici e grotte dove di notte si annidava ogni sorta di malfattore pronto a depredare e sgozzare per pochi soldi.

    Mise mano alla sconveniente questione della prostituzione senza vietare il fenomeno, ma provvedendo a relegare le meretrici in postriboli dove poter esercitare la professione. Combatté alacremente il fenomeno del brigantaggio nelle campagne nominando nuovi bargelli con il compito di controllare gli insediamenti rurali. Questi zelanti funzionari di provincia giravano con al seguito una soldataglia pronta a colpire duramente qualunque crimine. Nel giro di pochi mesi, tra esecuzioni esemplari di ogni sorta di ladro, stupratore, truffatore e assassino, le campagne divennero finanche più sicure delle città.

    Si prodigò per combattere un pernicioso costume dilagante in città, consistente nello stupro operato da giovani nobili che, attrezzandosi con scale e funi, nottetempo si intrufolavano in abitazioni private e monasteri per carpire la virtù delle malcapitate. Questo fenomeno era talmente radicato che fu decisa la condanna a morte per chiunque fosse stato pizzicato in giro, di notte, munito di scale o funi. Il provvedimento cominciò a procurare illustri esecuzioni tra gli accaldati rampolli delle locali casate; anche in questo caso cominciarono a piovere suppliche e richieste di grazia da parte di conti e baroni, che restarono prontamente inascoltate.

    Alla città di Napoli, comunque, continuava a dedicare le più intense energie. Sensibile come s’era mostrato fin da principio al decoro e all’aspetto estetico, in breve tempo la città subì molte trasformazioni: furono costruite strade, tra cui la splendida via Toledo che ancora oggi mantiene il suo toponimo, e attrezzò la viabilità della capitale per favorire i collegamenti con l’Abruzzo, la Puglia e Roma. Inoltre, poiché in quel tempo si verificò un notevole sviluppo demografico, il viceré provvide all’indispensabile adeguamento delle strutture cittadine con il chiaro intento di trasformare Napoli in una metropoli. Non era un’operazione fine a se stessa o per il semplice gusto del bello, che accompagnava questo signore spagnolo, ma esisteva un nesso preciso tra la trasformazione fisica di Napoli e il processo politico in atto, che prevedeva la strutturazione di uno Stato assolutistico di cui l’abbellimento della città doveva diventare un simbolo.

    Don Pedro aveva proposto di far raddrizzare le strade contorte e fangose per garantire una circolazione attiva di merci e cittadini. Per far questo, impose una gabella di un tornese su pesce, carne salata e formaggio, irritando la suscettibilità del popolo che tal Fucillo Micone, mercante di vini, fomentò fino a suscitare una sollevazione. Dopo qualche giorno, il Fucillo fu catturato dagli sgherri di polizia e il suo corpo fu esposto penzolante dal Tribunale della Vicaria. Questa subitanea repressione servì d’esempio qualche tempo dopo, quando un’altra tassa fu stanziata per rimuovere le selci dalle strade che vennero, stavolta senza intoppi, interamente rifatte in mattoncini. In seguito fece rinnovare le pendenze alle cloache e fece appianare tutte le strade urbane fino a che gli stessi cittadini, investiti dall’orgoglio civico derivatogli dal vivere in una moderna e funzionale metropoli, facevano a gara per abbellire i propri possedimenti immobiliari in città. Ristabilì l’intera cinta muraria sia dalla parte di terra che di mare, realizzando con questo artificio un ampliamento quasi doppio dell’area metropolitana. Rinforzò il Castello di Sant’Elmo, trasformandolo in fortezza inespugnabile, e ampliò a dismisura l’arsenale di Castel Nuovo.

    Oltre agli aspetti funzionali, provvide finanche all’abbellimento artistico con suppellettili urbane di pregiatissima fattura; fontane pubbliche sorgevano negli angoli e nelle piazze, e una particolare attenzione richiese per le chiese e gli edifici di culto.

    Ma il vero colpo da maestro illuminato fu una sorta di riforma del sistema sanitario che, partendo dalle bonifiche del circondario per garantire la salubrità dei luoghi, culminarono nella fondazione di vari ospedali per coloro che non avevano mezzi di sussistenza. Napoli a quel tempo era oppressa da molte infermità, dovute principalmente alla corruzione dell’aria e dell’acqua che stagnava nei territori circostanti, generando miasmi e malaria. Infatti, paludi e acquitrini si formavano dal territorio di Nola e si estendevano su Marigliano, Aversa, Acerra e Afragola, corrompendo le acque di tutta la Terra di Lavoro. Nel mezzo di questa sterminata palude, il Toledo fece realizzare un canale con argini giganteschi, disposto in modo che tutte le acque vi si riversassero. Così le paludi si asciugarono e Napoli divenne, grazie a quest’intervento e al suo clima, una delle più salubri città al mondo. Inoltre, dopo il prosciugamento, impose ai coloni della zona l’aratura e la coltivazione dei terreni fertilizzati da quell’humus millenario, realizzando raccolti destinati a sfamare la popolazione che nel frattempo cresceva di numero. L’incremento demografico fu impressionante anche perché vi fu un esodo dalle coste del Cilento, dalla Calabria e dalle isole di Capri e Ischia, funestate dalle incursioni turche. Gli abitanti di queste località preferivano rintanarsi al di qua delle possenti mura cittadine, capaci di incutere terrore ai mori predatori che si tenevano ben alla larga dalle veloci e letali galee spagnole.

    Ma dove il Toledo diede veramente sfoggio di sé fu nell’amenissimo distretto di Pozzuoli, solo luogo del Regno al quale fu data medesima attenzione che alla città di Napoli. Fu folgorato dalla bellezza dei luoghi già dal suo arrivo, e spesso, in particolar modo durante la bella stagione, trascorreva intere giornate sul litorale e nei bagni termali, che costituivano l’apprezzata caratteristica di tutta la zona già da epoca romana. Dal XIII secolo la popolazione locale cominciò ad apprezzare le sorgenti a fini terapeutici, e sul Lago Lucrino, presso una piccola collinetta di tufo chiamata Monticello del Pericolo, sorse un villaggio chiamato Tripergole. Si sviluppò dove più numerose si addensavano le fonti e gli impianti termali romani, proprio a seguito dell’afflusso dei numerosi malati. Il villaggio, oltre ad avere un certo numero di case, aveva una chiesa nel castello, un ospedale, osterie e una casina di caccia. Ma la bizzarra quanto placida conformazione geologica di questo esteso territorio, caratterizzata da fumarole, crateri e interi crinali montuosi ricoperti di olente zolfo, si sarebbe trasfigurata con violenta irruenza sul finire del settembre 1538. Infatti, il 29 settembre di quell’anno, gli attoniti abitanti di Pozzuoli dovettero assistere a uno strabiliante fenomeno destinato a rimanere nella storia geologica dei Campi Flegrei.

    Il fenomeno si avviò intorno a mezzogiorno, allorché il mare si ritirò repentinamente di circa quattrocento metri, lasciando sulla riva moltissimi pesci agonizzanti, che dai felici puteolani furono raccolti a carrettate. Neanche il tempo di arrostire e godere quella pesca miracolosa, che il mattino seguente fu notato che nella vallata fra il Monte Barbaro, l’Averno e il mare, la terra era sprofondata per oltre quattro metri. Dall’avvallamento fuoriuscì un piccolo torrente sia di acqua fredda e limpida che di acqua tiepida e sulfurea. Dopo alcune ore, nello stesso avvallamento si andò formando, invece, un rigonfiamento del terreno, descritto dai cronisti dell’epoca come quando la pasta cresce. Continuando a crescere, su questo bozzo si formarono infine dei crepacci. In serata si aprì un’enorme voragine, il cumulo di terra collassò ed ebbe inizio un’eruzione. La piccola valletta si squarciò e dalla spaventosa buca cominciarono a fuoriuscire fuoco, fumo, pietre, cenere asciutta e soprattutto cenere fangosa, il tutto accompagnato da forti boati che si protrassero per tutta la notte.

    Sotto gli occhi sgomenti della popolazione locale si stava formando un vulcano.

    I Puteolani, investiti da pioggia piroclastica, gas, fango sulfureo e pietre, oltre che dagli sgraditi tremori dei terremoti, ripararono verso Napoli. A Lucrino l’eruzione

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