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Il giro di Napoli in 501 luoghi
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E-book704 pagine10 ore

Il giro di Napoli in 501 luoghi

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Info su questo ebook

La città come non l'avete mai vista

Una guida straordinaria che vi condurrà tra le strade e i vicoli di una Napoli davvero inedita.

L’affascinante centro storico, i castelli, le ville, le piazze, le fontane, i monumenti; il magnifico golfo che non a caso gli antichi chiamavano “Il teatro degli dèi”, da capo Miseno a Punta Campanella; i luoghi confinanti, ricchi di storia e di incredibili tesori artistici: Pompei, Ercolano, il Vesuvio, i Campi flegrei, Pozzuoli, Cuma…
Napoli è tutto questo e molto altro ancora. Una città da sempre sotto i riflettori, nel bene e nel male. Per coglierne l’essenza, va frequentata e percorsa. Merita di essere ammirata e osservata da tutte le prospettive possibili: le sue affermazioni, le sue eccezioni e anche le sue contraddizioni. Fra itinerari d’arte e misterici, inestimabili ricchezze archeologiche e naturalistiche, storie, aneddoti e curiosità, ecco 501 luoghi, celebri o poco conosciuti, preziose chiavi di lettura per accedere, oltre gli stereotipi, a una delle metropoli più seducenti e controverse al mondo. Dopo il successo di Misteri, segreti e storie insolite di Napoli, Agnese Palumbo e Maurizio Ponticello ritornano a raccontare la propria città.

- Archi e varchi, porte, passaggi e portali
- Scale, salite e discese. Perché Napoli non si percorre in lungo e in largo?
- Tra inferi e cielo, Napoli è sacra o profana?
- Palazzi, un modo diverso di fare le mura?
- Santi e sangui, perché le benedizioni napoletane fanno più effetto?
Agnese Palumbo
giornalista, ha collaborato con «la Repubblica», «il Riformista», «D di Repubblica». Per il teatro ha scritto, con Massimo Piccolo, Sante, Madonne e Malefemmene e Non farlo nel mio nome, storia di una brigantessa. Collabora con la casa di produzione cinematografica MoonOver. Per la Newton Compton ha pubblicato 101 cose da fare a Napoli almeno una volta nella vita, 101 storie su Napoli che non ti hanno mai raccontato e 101 donne che hanno fatto grande Napoli. Con Maurizio Ponticello ha scritto Misteri segreti e storie insolite di Napoli e Il giro di Napoli in 501 luoghi . È vicepresidente dell’associazione Luna di Seta.
Maurizio Ponticello
è stato corrispondente di testate radiofoniche e televisive, redattore di vari quotidiani e cronista de «Il Mattino». È autore di Napoli, la città velata; I misteri di Piedigrotta; I Pilastri dell’anno. Il significato occulto del Calendario e del thriller La nona ora. Per la Newton Compton ha pubblicato, con Agnese Palumbo, Misteri, segreti e storie insolite di Napoli e Il giro di Napoli in 501 luoghi. Ha scritto racconti per varie antologie tra cui Apocalisse 2012 e Sbirri di Regime. Ha avuto diversi riconoscimenti tra i quali il premio Domenico Rea. È vicepresidente della storica associazione Napolinoir.
LinguaItaliano
Data di uscita4 nov 2014
ISBN9788854170704
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    Anteprima del libro

    Il giro di Napoli in 501 luoghi - Agnese Palumbo

    I.

    Tra mito e storia:

    perché non possiamo

    non dirci figli degli dèi?

    1. L’isolotto di Megaride: fondazione e fondamenta

    Corruptio unius est generatio alterius, la morte di uno è la genesi di un altro. Alla base di tutto c’è questo aforisma alchemico, l’unica via per cercare di comprendere il senso più profondo dei natali della città. A ogni insediamento umano delle ere antiche, fino a un certo punto della storia, veniva attribuita una discendenza mitica con la quale si raccontava un lignaggio divino. Napoli non è da meno, anzi. Il mito della sua fondazione, che risale all’incirca alla fine del IX secolo a.C., è stato (ed è) così vigoroso che tutti i protettori successivi al primo nume tutelare, la sirena Parthenope, hanno dovuto misurarsi e confondersi con esso. E ciò vale, prima di ogni altra cosa, per i più noti e rilevanti: Virgilio, san Gennaro e santa Patrizia. La vicenda che descrisse Omero fu ripresa pienamente dalla tradizione e riadattata in funzione dei viaggi di Odisseo: l’eroe, dopo aver ascoltato nell’isola di Eea (lamento) i moniti e le istruzioni della maga Circe, figlia del Sole, esperta di incantesimi e dell’oltremondo, si fa legare all’albero della sua nave «nigra» mentre i compagni di viaggio hanno le orecchie tappate con la cera e, sordi all’incantamento, tirano dritto. Odisseo osa ascoltare il melodioso canto profetico delle sirene, la loro malia è anticipata da un’improvvisa caduta di vento e dal sospendersi del moto ondoso: il mare è come assopito da un dio, e lo stesso fluire del tempo sembra interrompersi. È in questo momento che il re ramingo di Itaca ode le parole delle tre donne-uccello emissarie della dea Ecate: «Vieni qui, o glorioso Odisseo, grande vanto degli Achei: ferma la nave se vuoi ascoltare la nostra voce. Nessuno mai è passato da qui con una imbarcazione senza prima udire dalle nostre bocche la voce dal dolce suono: ma poi se ne va con viva gioia e conosce più cose […]». Chi ha il privilegio di udire il canto seducente delle sirene ha in dono la morte o la conoscenza: i loro versi, quando non possono uccidere, effondono sapienza. È la metafora del linguaggio degli uccelli, apprenderlo significa parlare la lingua degli angeli, qualifica che hanno, per esempio, gli sciamani, i quali possono vagare liberamente tra i diversi piani dell’universo, o eroi come Sigfrido dopo essersi immersi nel sangue del drago. Sconfitte dalla caparbietà e dall’astuzia – ma soprattutto dalla centratura – di Odisseo, le tre sirene si lasciano morire e Parthenope, la nera Vergine, va a spiaggiare sulle rive di Megaride – dove ora si eleva il Castel dell’Ovo di Virgilio (luogo su cui approdò pure santa Patrizia) – e dà inizio e assegna il proprio nome al primo nucleo abitativo. Un dèmone meridiano, una vergine di origini divine, quindi, immola le proprie membra e compie l’opera al nero inseguita dagli alchimisti: Napoli sorge sul corpo – o dal corpo – della sirena la quale, concretizzando un’autentica cosmogonia, diventa le sue fondamenta rituali e il suo Genius loci, Genio del luogo.

    2. Il monte delle Ninfe, Pizzofalcone

    «[…] Cui sorride il mare, sorride il cielo». L’umanista Giovanni Pontano descrisse il promontorio di tufo che s’avanza a settentrione sopra l’isolotto di Megaride come una ninfa, Hercli, «dalle nere sopracciglia e dal candido seno, ricca di coralli, ricca del dono del miele» (Lepidina, 1496). All’epoca, quest’associazione poetica non dovette sembrare una stravaganza, come appare invece oggi: tra il Quattrocento e il Cinquecento, la collina di monte Echia (Pizzofalcone è un nome duecentesco) era ancora selvaggio e territorio di caccia, sgombro da palazzi, quindi, e i resti della grandiosa villa di Licinio Lucullo, il Castrum Lucullanum (I secolo a.C.), prima che fossero ingoiati dalle pietre e dal cemento, erano ancora ben visibili. Ciò vuol dire che il ninfeo sul belvedere – oggi abbandonato e sconosciuto, un pezzo per cui qualsiasi altro posto del mondo farebbe follie pur di averlo – spiccava per la sua imponenza. Proprio sul banco tufaceo accanto al tempio dedicato alle ninfe (di cui sono riconoscibili sei nicchie) si possono notare alcune opere preesistenti, probabilmente il primo insediamento di Partenope, che fu sopra e sotto la collina. Infatti, le enormi grotte Platamoniche, un tempo al livello del mare sulla linea della spiaggia (oggi lungo tutta via Chiatamone, fino alle spalle di piazza dei Martiri), sono collegate alla vetta di monte Echia con vari cunicoli secretati. Qui dovette sorgere Palaiàpolis, la città vecchia, che si continuò a chiamare così per distinguerla da Neàpolis, la città nuova, di fondazione successiva. A monte del promontorio, in via Giovanni Nicotera, fu scoperta una necropoli con oggetti protocorinzi e corinzi del VII e del VI secolo a.C.

    3. Cardi e decumani, perché non dovrebbero dirsi così?

    Prima di tutto, per quanto innocuo, smascheriamo un errore costante e ripetuto. Le strade che compongono la pianta di Neàpolis non dovrebbero essere chiamate alla latina, e non per un capriccio: sono di origine greca e, in virtù del patto di ferro che legò la città con Roma (il foedus Neapolitanum del 326 a.C.), Napoli tutelò la propria libertà di culto e di espressione finanche nella formulazione degli atti pubblici, e continuò a parlare la propria lingua, il greco, fino al V secolo d.C. I decumani sono le tre strade parallele principali, le plateiai, corrono da oriente a occidente e ripartiscono il centro antico in quattro sezioni; le tre vie longitudinali s’incrociano con una serie di vie più piccole e perpendicolari che calano da nord a sud, le stenopoi o cardi, alla romana. L’intreccio tra plateiai e stenopoi forma la caratteristica scacchiera (una rappresentazione simbolica del Cosmo) attribuita al famoso architetto pitagorico Ippodamo da Mileto, sebbene ci sia chi è pronto a giurare che la città nuova non porti la sua firma: Ippodamo visse nel V secolo a.C., e la fondazione parrebbe risalire a uno o due secoli prima. La querelle, però, è di lana caprina: la struttura a strigas, fasce, di Neàpolis, invero, rispecchia pienamente la concezione dell’urbanistica tradizionale rielaborata dai pitagorici, corrisponde, cioè, a un modello di città sacra quale proiezione sulla Terra dell’ordine dell’Universo in cui ogni via è proiezione celeste e – applicando le regole delle proporzioni, della corrispondenza numerologica e dell’ordine cifrato del Kòsmos (la formula pitagorica della tetraktys) – ricalca il tracciato della mappatura dello zodiaco. Del resto, c’è da aggiungere, lo stesso Maestro di Samo, Pitagora – indirettamente anche a Napoli – fondò una scuola in cui, agli iniziati – chiamati non a caso esoterikoi, esoterici – insegnava le leggi divine, non le proprie.

    4. Piazza San Gaetano: l’agorà e il centro del mondo

    Non era una piazza, tutt’al più era la piazza della città. E con ciò vogliamo dire che era il cuore pulsante di tutto l’insediamento urbano, quello che gli antichi di lingua greca mettevano in relazione con l’omphalòs, l’ombelico, che non è soltanto un luogo baricentrico di natura fisica, bensì il centro spirituale del mondo: il punto in cui confluiscono le energie celesti e terrestri, il mozzo della ruota sacra, un simbolo antichissimo. Dell’agorà greca di Neàpolis si sono perduti gli esatti confini, ma non c’è dubbio che il nucleo in cui si svolgeva la politica (gli interessi della città) e ove sorgevano gli edifici per amministrare la giustizia, il fulcro vitale degli scambi, degli affari, del mercato e della religione fosse in questo quadrivio di forma rettangolare che sospende via Tribunali (il decumano – o plateia – maggiore) e che chiamiamo piazza San Gaetano, presieduta dalla basilica di San Paolo, che ha acquisito le colossali colonne del tempio dei Dioscuri e parte del suo frontone. Nell’agorà convenivano suonatori di tibie, venditori ambulanti, artigiani e giocolieri, senatori, filosofi e poeti e, come scrisse l’archeologo Bartolomeo Capasso in Napoli greco-romana:

    (Si ritrovavano, n.d.a.) cittadini e forestieri, uomini e donne di ogni età e condizione: vi si vedevano gli Alessandrini e le persone venute dal lontano Oriente, che si riconoscevano dai pendenti che portavano alle orecchie, i Greci col pallio, i sandali e dalla voce sottile, i Romani con la toga e le scarpe, se pure, venendo in Napoli per svago, non avevano smesso il severo costume della toga, per adottare l’abbigliamento greco come facevano i patrizi romani ai tempi di Cicerone.

    Una girandola di colori e odori ancora presente in questo crocevia assediato da turisti, tavolini, pizzerie e rovine – sotto e sopra il piano di calpestio – dei fasti di un tempo.

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    4. Piazza San Gaetano. Sullo sfondo: San Lorenzo Maggiore.

    5. La villa di Lucullo

    Nella splendida villa di Lucullo (I secolo a.C.), ovvero il Castrum Lucullanum, si facevano molte cose. Enorme per estensione – dal monte Echia (Pizzofalcone) fino all’isolotto di Megaride (Castel dell’Ovo), e una cospicua porzione tra piazza Municipio e il Maschio Angioino – era rinomata soprattutto per i banchetti e la ricca varietà delle portate. Il padrone di casa era un riconosciuto comandante militare di origine aristocratica che, dopo la schiacciante vittoria su re Mitridate (69 a.C.), si era ritirato negli otium partenopei costruendo una delle fortezze più note e grandi dell’antichità. Eppure, nonostante il suo indubbio coraggio e la celebre cultura (era noto per la padronanza della lingua latina e di quella greca), il comandante è passato alla storia come un grande estimatore dei piaceri della tavola.

    Aveva infatti molta cura dei suoi ospiti nei famosi banchetti che si tenevano nella sala d’Apollo, dove trionfavano meraviglie gastronomiche. Quando i camerieri domandavano quanto cibo fosse necessario per regolarsi sul numero degli ospiti, lui era solito rispondere: «Stasera Lucullo cena da Lucullo». Così nella sala si allestiva, ogni giorno, un trionfo inimmaginabile di portate: un menù di frutti di mare, asparagi, scampi, pasticcio d’ostrica, porchetta, pesci, anatre, lepri, pavoni, pernici frigie, murene, storioni di Rodi, dolci, vini e frutta esotica, come riportano le fonti. Il romano adorava la carne di tordo e si ospitava in grande stile. Tra le ricette prestigiose passate alla storia ci sono le zucchine alla scapece, oggi tipico contorno napoletano dall’origine indefinita. Alcuni studi farebbero risalire il nome e l’origine di questo piatto a base di aceto e menta al latino ex Apicio, dal nome di un famoso cuoco dell’antica Roma, Marco Gavio Apicio (25 a.C.-37 d.C.).

    6. L’avevo detto io che lì c’era il porto

    Alla fine degli anni Ottanta, in piazza Municipio, fu aperto il cantiere della linea tranviaria rapida (LTR). La notizia che sotto i giardini e l’asfalto, in prossimità del Maschio Angioino, ci fossero i resti dell’antico porto di Neàpolis era un segreto di Pulcinella: una cosa che tutti sapevano, ma tutti facevano finta di non sapere. Con il primo sterro profondo (scavato soltanto dopo il Duemila) i lavori furono bloccati e si gridò alla meraviglia: «È il porto antico!». In realtà, la scoperta sensazionale era già stata riportata da illustri studiosi – tra cui Bartolomeo Capasso a fine Ottocento – i quali, metro più metro meno, avevano individuato il luogo in cui si trovava la darsena partenopea: tredici metri sotto il piano stradale e tre sotto l’attuale livello del mare. Probabilmente all’epoca fu un pretesto per avviare gli scavi e ottenere i fondi necessari, fatto sta che, quasi trent’anni dopo, il cantiere è ancora aperto, la LTR è stata sostituita dalla linea 6 della metropolitana e i costi della nuova rete tranviaria sono arrivati alle stelle. In compenso, quel che si sta recuperando è straordinario: il futuro archeologico e il nuovo palinsesto (stratificazione di epoche) di Napoli passano da qui. Sono state rinvenute ben tre imbarcazioni da carico: la prima, di nove metri per due, sotto la statua di Vittorio Emanuele a cavallo; la seconda, con caratteristiche simili, a poca distanza; e la terza, lunga addirittura tredici metri, larga due, e con una singolare prua piatta. Sembra quasi che i nostri avi smarrissero nelle acque portuali ogni genere di cose: gioielli, monete corinzie con scene dionisiache, calzari, balsamari, anfore ancora tappate, coppe di provenienza africana, aghi per le reti e altri attrezzi da pescatore, arpioni, garrocci e lampare per un totale di circa tremila reperti datati massimo al IV, secolo in cui l’attracco napoletano finì nella palude, prima di scomparire – interrato da una strada costruita nel VI – per riemergere solo oggi.

    7. Il gymnasium, i ludi isolimpici e le corse Lampadiche

    L’ultima sorpresa è arrivata da un cantiere della nuova metropolitana, all’inizio di un cardo greco-romano sventrato e diventato una strada maestra della nuova città: via Duomo. Subito si pensò ai resti di un edificio di età augustea realizzato per i giochi isolimpici che si tenevano a Napoli, i ludi quinquennali emuli delle Olimpiadi greche e delle gare capitoline di Roma. Man mano, però, che dopo millenni di sepoltura i reperti saltavano fuori, ci si rese conto che anche in questo caso, oltre un secolo fa, Bartolomeo Capasso aveva fatto centro: il glorioso gymnasium partenopeo, non l’unico bensì il più grande, è nei pressi di piazza Nicola Amore, e sia i ludi isolimpici che gli agoni dedicati alla sirena Parthenope – le corse Lampadiche – passavano da lì. Sui marmi recuperati insieme a parti del frontone, a delle colonne, a dei capitelli, a dei mosaici di pavimenti, a del materiale votivo e a un’urna funeraria contenente i resti di un infante, sono incisi in lingua greca i nomi dei vincitori per discipline e per categorie. E non deve sorprendere il ritrovamento di un podio all’interno di un tempio dell’età imperiale: l’idea che abbiamo oggi della palestra o di altri luoghi per l’allenamento non ha nulla a che vedere con quella antica. Il culto del corpo andava di pari passo con quello degli dèi, con pratiche religiose e spirituali. Spesso, inoltre, nei saloni del ginnasio, retori e filosofi tenevano i loro corsi o si sfidavano, e i poeti vi si recavano per leggere i loro componimenti. Il ritrovato sito archeologico sarà inglobato nella nuova stazione metropolitana, ma coperto da una cupola trasparente (in vetro e metallo) per essere visibile al pubblico.

    8. I templi seppelliti e quelli ritrovati

    In una città importante come fu Neàpolis non poterono non esserci luoghi di culto altrettanto di rilievo. Molti templi sono stati ritrovati o identificati, molti altri soltanto supposti poiché il palinsesto dell’insediamento urbano è così stratificato che l’intero centro antico dovrebbe essere raso al suolo per disegnarne un censimento esatto. In genere, la norma vuole che sotto ogni chiesa paleocristiana, o successiva fino al Medioevo, giaccia una struttura religiosa preesistente. A Napoli, però, a causa dei continui stravolgimenti a cui è stato sottoposto il territorio, e a causa della perdita – molte volte consapevole – di tracce documentali dell’antichità, l’associazione non è così immediata. Per esempio, il tempio di Vesta era nell’attuale piazza San Domenico Maggiore, ma fu prima assorbito dalla chiesa di Santa Maria Rotonda e dopo costituì le fondamenta del palazzo di Sangro di Casacalenda. In questo gran caos aiutano, tuttavia, altre due linee di principio: la fondazione cultuale della città nuova che sull’asse da nord a sud riproduce lo schema cultuale delle divinità, dagli Olimpi verso gli Inferi (la plateia a nord riservata al dominio celeste – al principio numinoso Apollo –, quella al centro alla funzione intermedia tra Terra e Cielo – ai Dioscuri – e quella a meridione al piano orizzontale e all’Aldilà – Demetra e Persefone). Alla comprensione della distribuzione antica del territorio contribuisce pure l’insediamento delle fratrie, associazioni politiche e religiose di cittadini sull’orma della struttura ateniese che, in epoca più tarda, divennero i seggi o i sedili di Napoli. Le fratrie furono dodici (Eumelidi, Artemisi, Cinei, Aristei, Agarresi, Panclidi, Gionei, Eumidi, Antinoiti, Eunostidi, Partenopei, Mopsopiti) e ciò combacia con la tipica struttura duodenaria: ognuna delle fratellanze era sotto l’egida di un dio. I templi degli dèi patri erano: nell’area del duomo quello di Apollo (basilica di Santa Restituta); a piazza San Gaetano quello dei Dioscuri; tra Spaccanapoli e San Gregorio Armeno il tempio di Cerere/Demetra. Il culto di Ercole era tributato nella zona di Forcella; quello di Zeus sulla plateia massima, all’altezza del duomo; i templi di Ares e di Hermes dovevano essere nei pressi di San Giovanni a Carbonara e della chiesa dei Santi Apostoli; quello di Artemide dove sorge la chiesa detta della Pietrasanta; i templi sotterranei di Mithra sono sparsi un po’ ovunque e molti sono ancora da rintracciare; un sacello alle Parche vicino porta San Gennaro è nel vico Fate a Foria e nella zona di via Toledo alla Marinella: una volta questi vicoli erano detti Tria Fata e, in qualche modo, ne hanno conservato il nome (dal latino fatum, destino). Sul tempio della Sirena si discute da secoli, e c’è chi vuole farlo coincidere con la sua tomba, nei pressi del teatro San Carlo, al quale Parthenope avrebbe lasciato in eredità la sua virtù più preziosa: l’armonia del canto o delle Sfere.

    9. I teatri romani, sotto e nei cortili dei palazzi

    Pensereste mai che entrando in un palazzo del centro antico (via San Paolo 4/A) e affacciandovi da una finestra sulle scale nel cortile, scartando i panni stesi ad asciugare, potreste trovarvi nel bel mezzo di un’arena romana? Gridereste alla meraviglia o alla follia vedendo che sugli spalti in pietra – alcuni ancora ricoperti dai marmi originali – poggiano il primo e il secondo piano di edifici moderni? A Napoli anche questo è possibile. Si tratta del teatro scoperto (nudum) di età augustea – rimaneggiato in epoca flavia –, una cavea semicircolare per seimila persone divisa in ventitré settori radiali, compresi gli ingressi (i vomitoria) per il pubblico. In via Anticaglia si possono vedere parte delle mura esterne (saccheggiate da turisti stranieri impuniti che ne prelevano i mattoncini come souvenir) e due archi laterizi portanti (parzialmente sotterranei); mentre nei locali che una volta furono un forno e poi una falegnameria, in vico Cinquesanti (già vico del Teatro), ci sono ancora strutture in opus reticulatum e latericium. Il teatro coperto (tectum), invece, è interrato dalle stratificazioni e i suoi ambienti furono adibiti, a seconda delle epoche, a stalle, sversatoi e cantine: per vedere alcuni dei resti si deve accedere attraverso uno dei percorsi della Napoli sotterranea. Il piano di recupero ideato nel Ventennio (1939) prevedeva l’abbattimento di tutti i palazzi moderni circostanti, ma non fu mai avviato. Fino a non molto tempo addietro, l’unica via di accesso al proscenio del teatro coperto era una grande botola nascosta sotto il letto di un basso di vico Cinquesanti 23, chiamato fino agli anni Sessanta il palazzo di Nerone. Gare poetiche, certami musicali e di canto: gli artisti maggiori della Grecia e dell’Urbe trovavano accoglienza ideale nell’odèon. Tra questi giunse anche l’imperatore Nerone con la sua cetra, il quale, convinto che la sua voce fosse più straordinaria delle altre, amava tenere concerti. Intanto, pressappoco nello stesso periodo, Lucio Anneo Seneca – che sostava con regolarità a Neàpolis per seguire le lezioni del suo maestro filosofo – in una lettera (76) si lamentò con l’amico Lucilio: «Come sai, chi va alla casa di Metronatte deve passare davanti al teatro dei Napoletani. È sempre pieno zeppo e vi si giudica con grande attenzione chi sia un buon flautista; il suonatore di tromba greco e il banditore hanno anch’essi una grande folla di ammiratori. Ma nel luogo in cui si cerca la virtù, in cui s’impara a diventare uomini onesti, siedono pochissimi; e molti pensano che essi non abbiano niente di meglio da fare e li chiamano esseri inetti e oziosi. Possa capitare anche a me codesta derisione: chi vuol raggiungere la virtù deve ascoltare serenamente le ingiurie degli ignoranti e saper disprezzare il loro disprezzo».

    10. Gli scavi del Carminiello ai Mannesi

    Quando, quella terribile notte del 1943, la piccola chiesa cinquecentesca di Santa Maria del Carmine ai Mannesi fu colpita dalla bomba di un aereo delle forze americane, quasi sicuramente nessuno pensò che scavando tra le macerie si sarebbe trovato un tesoro. L’esplosione tirò giù quasi completamente la struttura della chiesetta detta del Carminiello, e tra le rovine ancora fumanti si scoprì che sotto le fondamenta giacevano i resti di un’importante domus romana del I secolo. Non solo: si scoprì che l’edificio ne incorporava uno ancora precedente, di età repubblicana. Oggi gli scavi sono aperti al pubblico raramente e soltanto su prenotazione, ma dalle inferriate del complesso, in una traversa di via Duomo, tra il decumano maggiore e quello minore, è possibile intravedere quanto basta per rendersi conto della vastità dei ritrovamenti. La domus è su due piani: in quello superiore si individuano soltanto due vasche, una di forma rettangolare in cocciopesto e un’altra in marmo bianco, con fontana, che in seguito fu utilizzata come sepolcro per bambini fino ai quattro anni d’età. La vera sorpresa, però, è nei piani inferiori, dove dai detriti della deflagrazione sono emersi una stanza affrescata, delle terme private e altri ambienti di servizio. In due di questi locali è stato scoperto un mithreo, luogo di culto dedicato alla divinità indo-iranica assorbita e adattata dalla religione di Roma, con tanto di rilievo in stucco della tauromachia del dio: Mithra che sacrifica il toro. Dallo scavo sono stati recuperati molti reperti antichi, tra cui la testa di una statua di Mercurio.

    11. La Canefora di Demetra

    Se vi va di giocare a una caccia al tesoro archeologico, il cardo di via San Gregorio Armeno è quello che fa per voi. Dovreste però evitare i periodi natalizi: quando i pastori e i visitatori prendono il sopravvento, per percorrere i circa settanta metri della strada a volte non bastano una ventina di minuti. Per competere alla pari dovreste partecipare un giorno di bonaccia turistica, e per la scommessa potrete mettere sul piatto tutto ciò che volete: vincere è praticamente impossibile. E davvero di un tesoro prezioso si tratta, una perla rara che si nasconde come il culto misterico che rappresenta. Il primo a individuarlo fu Giulio Cesare Capaccio, agli inizi del Seicento, che la chiamò puella canistrifera: è un rilievo consumato dal tempo, una giovane sacerdotessa del culto di Demetra avvolta da un drappeggio e con la testa rivestita da un polos, un alto copricapo a corona. La fanciulla regge con la mano destra una fiaccola e con la sinistra una cesta: è una canefora, ed è esattamente nella zona in cui tutto fa pensare vi fosse il tempio di una delle divinità patrie napoletane, Demetra/Cerere. All’epoca di Capaccio si potevano ancora ammirare capitelli, statue, busti, colonne, oggi soltanto questo gioiello dimenticato. Gli studiosi Romanelli e Capasso nell’Ottocento avvalorarono la tesi della presenza del tempio, e da quel momento iniziarono le congetture sulla posizione di un luogo di culto parallelo e in prossimità, intitolato alla figlia della dea, Persefone/Proserpina, e al collegio di sacerdotesse di Demetra/Cerere. Cicerone annotò (Pro Balbo) che le sacerdotesse napoletane del tempio di Cerere erano le più richieste dallo stesso tempio romano, ovvero le più qualificate a celebrare i riti. L’archeologo Karl Julius Beloch focalizzò la ricerca sulla chiesa di Santa Patrizia; negli anni Cinquanta, però, Mario Napoli recuperò la tesi inizialmente scartata di Fabio Giordano sull’ubicazione a San Gregorio dell’Augusteum o del Caesareum. Recenti ritrovamenti in piazza Nicola Amore stanno rimettendo tutto ancora una volta in discussione.

    La Canefora rinvia ai Misteri di Eleusi che si svolgevano tra settembre e ottobre: nei giorni finali della celebrazione, la notte veniva rischiarata dalle fiaccole degli adepti che correvano agitando le torce (come fu a Napoli durante le Lampadaforie o corse Lampadiche, dedicate sia a Demetra che alla sirena Parthenope) e replicavano il dramma della ricerca della figlia della dea, Persefone/Kore, diventata regina degli Inferi.

    I ritrovamenti negli edifici del vecchio Policlinico – tra la clinica Villa Chiara e il monastero di San Gaudioso, più a nord della Platea Nostrana (San Gregorio) – di un complesso dedicato a Demetra potrebbero essere tutt’altro, ovvero un luogo intestato a Demetra Tesmofora, la Legislatrice, che non è quella eleusina e il cui culto non prevedeva fiaccolate.

    Ma dov’è, allora, la bellissima Canefora del mistero? È più semplice a dirsi che a trovarsi: inglobata sotto l’arco del campanile in via San Gregorio Armeno al civico 14, all’ingresso del palazzo del Fondaco, c’è la bottega di un preseparo con l’insegna Alpa3. Dato che nemmeno così la rintraccerete, chiedete di Aldo: il bassorilievo è quasi ad altezza stradale e, per proteggerlo, Aldo usa coprirlo con un piccolo espositore e i propri pastori. Quando, spostando una cesta di statuette, vi indicherà dov’è, resterete a bocca aperta. Provare per credere.

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    12. Il forum Vulcani, la Solfatara

    Dopo il geografo Strabone (I secolo a.C.), che la definì la dimora del dio Vulcano e l’ingresso agli Inferi, tra i primi a parlarne in modo più esteso fu Petronio Arbitro nel Satyricon:

    C’è un luogo remoto al fondo di un abisso che si trova fra Napoli e gli sterminati campi di Dicearchia (Pozzuoli, n.d.a.), è bagnato dall’acqua di Cocito (uno dei fiumi degli Inferi, n.d.a.): esala un vapore denso che si spande intorno con calore soffocante. D’autunno non cresce mai nulla, e sui campi non spunta mai un filo d’erba, a primavera sui teneri virgulti non si odono canti di uccelli, ma sempre e solo rovine e dirupi sinistri di pomice nera, alle quali fa da corona una fila di cipressi funerei.

    Da allora, non ci fu visitatore a Napoli che non si allungò all’area puteolana per osservare da vicino questo spettacolo della natura, per sentirsi sulla soglia dell’Aldilà e per provare un brivido irripetibile. Negli anni del Grand Tour divenne addirittura una tappa obbligatoria, ed è per questo motivo che le citazioni di artisti e letterati sono impossibili da catalogare. È la Solfatara, uno dei quaranta vulcani quiescenti dei Campi Flegrei, il suo cratere è a quasi cento metri sotto il livello del mare e, quella che si vede per un perimetro di circa due chilometri, è la zona in cui l’attività incessante del supervulcano è più evidente. L’odore acre dello zolfo e il ribollire scoppiettante del fango – «Rumore delle fontane di acqua bollente: rumore del Tartaro per i poeti» (Chateaubriand, Viaggio in Italia, 1803-1804) – incutono timore – «Getto di vapori sulfurei, acqua e terreno bollente, scolo che risuona sotto i nostri passi mi mette un senso di paura» (R. Fucini, Napoli a occhio nudo) – e si fissano indelebili nella memoria. «Vi sono intorno solo la terra, il lapillo, la pietra, la roccia: e la terra e la pietra si avvallano, formano piccole montuosità e si aprono in fessure», scrisse Matilde Serao, ma l’inquietudine più grande, come invece ricordò lo scrittore di lingua tedesca Otto Julius Bierbaum (Viaggio sentimentale in automobile. Napoli e Sorrento), che visitò la Solfatara nel 1902, è di finire nelle acque dello Stige, «accorgersi che tutto il terreno qui sotto è vuoto. Se si getta per terra una grossa pietra si sente un rumore cupo e risonante che rivela chiaramente l’incertezza del suolo sul quale si cammina».

    13. Il lago d’Averno, l’albero inverso e la Fata Morgana

    Nei dintorni c’è un avvertimento che arriva esplicitamente dal mondo di sotto: nelle terme di Mercurio del Parco archeologico di Baia, un fico selvatico, albero sacro a Giove, cresce a testa in giù e si nutre dalla volta di una delle cave termali. Il fenomeno dell’adattamento gravitropico (così si chiama scientificamente) della pianta è come un chi va là, una sorta di cartello di divieto che segnala l’accesso alla zona governata da Giove nel suo aspetto di Vediovis (o Catactonio), l’alter ego del dio Plutone. Se non bastasse, a cavallo tra il XII e il XIII secolo, il chierico Pietro da Eboli nel suo carme Balneum tripergulae descrisse con una miniatura le terme romane: prima di risorgere, Cristo discende nelle acque dell’Averno e spacca in due le porte dell’Ade. Non molto più in là in linea d’aria, infatti, c’è l’Averno, il lago vulcanico che i greci e i romani ritenevano uno dei varchi all’Oltretomba. Il nome è significativo, in greco vuol dire privo di uccelli: si ritiene che nelle epoche antiche i volatili non potessero attraversarlo poiché sarebbero morti a causa delle effusioni sulfuree. Nel Settecento, Domenico Antonio Parrino scriveva che: «Sono l’acque di detto lago nere e torbide, e molto profonde, ma non già che non vi si trovi fondo, perché è d’altezza 90 passi; il pesce che ora vi si piglia sono tinche, ma poche e di mal sapore, e degli uccelli poche folighe vi si vedono». Nell’Ottocento, poi, lo specchio scuro dell’Averno fu anche oggetto di studi della Reale Accademia delle Scienze del regno borbonico a causa della rara manifestazione della Fata Morgana, un’illusione ottica che ha preso il nome in prestito dalla mitologia celtica: il miraggio della Fata Morgana in genere si presentava sotto forma di castelli sospesi in aria che attiravano i marinai conducendoli a morte certa; ma non solo, almeno nel sud Italia. Una sera al tramonto del marzo 1833, il marchese Giuseppe Ruffo, in spedizione di caccia sulle rive del lago con l’amico Michele Palazzolo, fu abbagliato dall’incantesimo della Maga:

    Ci prese meraviglia non più trovando il lago là ove doveva pur essere! Sulle prime temei che il mio visivo senso si fosse ad un tratto scemato; ma sospingendo gli occhi pei circostanti oggetti, questi mi si offrivano quali io gli aveva cento e cento volte veduto. Perché avvisandomi trattarsi di un’ottica illusione, veloce mi corse alla mente ed al labbro la fata Morgana: voce che l’estasi ruppe al mio compagno, e lo sbalordimento. Dove adunque eran ite le acque famose dell’Averno? Esse eransi trasmutate in prati di fresca verdura, in alberi belli e diritti, in colline dolcemente chinate: e tutto ciò come se notante in leggiera nebbia di minuta polvere di argento. (Annali civili del Regno delle Due Sicilie, vol. IV, 1834)

    14. L’Ulisse di Omero è sbarcato qui

    «Qui Giove fulminò i Giganti, figli della Terra; qui fu l’impari contesa; qui caddero precipitati tra i superbi monti che elevavano per scalare l’Empireo; qui vi fu l’orribile distruzione; tuonò irato il figlio di Saturno e perirono i Titani ribelli», scrisse Charles de Brosses (Viaggio in Italia, 1739) sui Campi Flegrei. Qui, in Campania, le impronte del cantore che chiamiamo Omero sono forti e chiare, sembra veramente che, per trovare ispirazione per il seguito dell’Iliade, il poeta cieco avesse visto le nostre coste. «Ora l’Odissea è davvero per me una parola viva», (1787) aggiunse Goethe con convinzione visitando i luoghi. Primo tra tutti a segnalare con precisione i percorsi del ritorno a casa del re di Itaca, però, fu uno studioso francese, Victor Bérard, che agli inizi del Novecento scrisse un libro monumentale (in quattro volumi) sulle tappe del viaggio di Ulisse: Les navigations d’Ulysse. Tutto si concentra in due soli libri dell’Odissea, il IX e l’XI. La descrizione parte dall’isoletta delle Capre sulla quale l’eroe approdò poco prima d’imbattersi nel Ciclope, figlio del suo acerrimo nemico Poseidone: secondo Bérard, non si trattò dell’Etna bensì di un’altra regione vulcanica in cui i greci «conobbero un popolo degli occhi che chiamarono Opikoi, Opici, e che localizzarono nelle vicinanze di Cuma». In greco antico Kyklops significa dal viso o dall’occhio rotondo. Tutto farebbe pensare a Nisida – «di foreste ombreggiata, ed abitata da un’infinita nazion di capre silvestri» (IX, 150-151) – ma il porticciolo descritto non fu la darsena di porto Paone, piuttosto dovette essere un’ansa vicino alla Crypta neapolitana a Mergellina: all’epoca, infatti, il mare arrivava a coprire pure l’attuale piazza Sannazaro; e anche la descrizione della fonte – «del porto in cima s’apre una grotta, sotto cui zampilla l’argentina onda d’una fonte e a cui fan verdissimi pioppi ombra e corona» (IX, 176-179) – condurrebbe lì nei pressi, alla fontana della piazzetta del Leone. Odisseo, allora, sbarcò sulla costa di Posillipo? Bérard indica l’insenatura aperta di San Basilio, sotto le falesie della collina tufacea che «lenisce i dolori»; e ci sarebbero pochi dubbi pure per l’antro smisurato in cui Odisseo e i suoi dodici compagni furono rinchiusi dall’immane ciclope: si tratterebbe della grotta di Seiano che attraversa da sotto tutta l’altura di Posillipo fino ad arrivare a Bagnoli, allora ancora selvaggia, oppure della Crypta alla quale si legò Virgilio? Il libro XI dell’Odissea racconta dell’eroe omerico in cerca dello spettro dell’indovino Tiresia: egli s’inoltra tra la nebbia (i vapori della Solfatara?) e si reca nella terra dei Cimmeri che vivevano in case sotterranee (argillae) collegate fra loro da una fitta rete di cunicoli, e «mai su di loro il sole splendente guarda coi suoi raggi». All’ingresso del regno di Ade, Odisseo sacrifica un montone e una pecora al dio degli Inferi: la scena sembrerebbe proprio ambientata nei Campi ardenti, tra i laghi di Lucrino (chiamato dai greci Plutònion) e d’Averno. Strabone, ancora nel I secolo, scriveva che «I nostri antenati hanno raccontato che nell’Averno si svolse la nekyua (l’evocazione delle anime dei defunti, n.d.a.), quella descritta da Omero, e, in verità, narrano che qui fosse pure il Nekyomanteion (il santuario di Persefone, sede di consultazione oracolare e via di comunicazione con l’Aldilà, n.d.a.) al quale si recò Odisseo» (Geografia, V, 4-5). La vicenda più nota, però, è senza dubbio quella delle sirene vinte da Odisseo, poiché la loro sconfitta portò alla fondazione di Partenope: si svolse al largo delle bocche di Capri. Non è certamente un caso che Sorrento prenda nome dalle sirene, che su punta Campanella ci fosse un tempio importante alle ambasciatrici di Ecate (poi dedicato a Minerva) e che gli scogli in mezzo al mare, detti oggi Li Galli, fino al Medioevo ebbero come nome Sirenusse.

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    15. …e anche Enea

    Tra lame di luce e coni d’ombra, l’erede dell’epica di Omero ambientò gran parte delle avventure dell’eroe troiano Enea, progenitore del popolo di Roma eterna, sulla costa campana. I luoghi e i percorsi descritti nel I secolo a.C. da Publio Virgilio Marone, fin dall’antichità furono meta dei grandi viaggiatori che, a loro volta, quasi a misurarsi con le parole del Vate dell’imperatore Augusto, cercarono e descrissero con propria penna le ambientazioni del VI libro dell’Eneide. Il Mantovano che fu adottato da Neàpolis, elevando a protagonista un personaggio di secondo piano dell’Iliade, non soltanto prese in prestito un eroe omerico ma ricalcò una parte del viaggio di Ulisse. Come lui, infatti, il pio Enea, dopo aver guidato la flotta in direzione delle «spiagge fuggenti d’Italia» in cerca di una nuova patria, sbarcò ai Campi Flegrei. Il nocchiero Palinuro era caduto nei flutti cilentani preda di Morfeo, ed Enea si era messo al timone finché la «riva bramata» gli fu davanti agli occhi: Cuma, da cui si alzava una spirale di fumo. Il figlio di Anchise e di Afrodite salì ai colli, al tempio del dio Apollo: la sua somma sacerdotessa, la Sibilla, lo attendeva negli «orrendi recessi, un antro immane» (l’antro della Sibilla, scoperto nel 1932, è vicino alla porta dell’acropoli di Cuma). Mentre i compagni di Enea erigevano al trombettiere Miseno «un sepolcro d’immensa mole […] sotto un monte elevato che ora viene chiamato Miseno e nei secoli eterno il nome mantiene», l’oracolo accompagnò l’eroe di Troia nei «regni inaccessibili ai vivi», sulle sponde dell’Acheronte (identificato con il lago Fusaro) e poi al nero lago d’Averno, rifuggito finanche dagli uccelli. In un boschetto nei pressi del tempio di Apollo di Cuma, indicato dalle colombe di Afrodite, Enea trovò «l’albero dalla doppia natura», con il virgulto dalle fronde dorate, il Ramo d’oro consacrato a Giunone infernale: la chiave regale per accedere nell’Aldilà senza restarne imprigionati. Dopo il rito sacrificale, Enea si addentrò tra le ombre e incontrò prima l’iracondo Caronte, il traghettatore psicopompo con gli «occhi fiammeggianti», e poi Cerbero, il guardiano con tre fauci che impedisce il passaggio ai viventi. Tra «strida e pene» delle anime che si stavano purificando in attesa di reincarnarsi, nei Campi Elisi «illuminati da una luce diversa» Enea incontrò lo spirito di Anchise. Dopo aver cercato invano di abbracciare lo spettro del padre, il fondatore di Roma tornò al mondo di sopra passando per la porta del Sonno «fatta di candido avorio», attraverso la quale «gli dèi Mani inviano al cielo sogni fallaci».

    16. Sulle tracce di Virgilio il Mago

    Cantò le armi e le gesta dell’eroe troiano che fondò Roma, ma Napoli quasi mai ha ricordato Virgilio come il grande scrittore dell’imperatore Augusto. La figura del Mantovano in Campania ebbe tutt’altro ruolo, molto più significativo, tale da oscurare addirittura la sua stessa fama più nobile: quella di Poeta dell’impero. Il tutto nacque dall’associazione di Virgilio alla figura di protettore della città che lo ha sempre tenuto in considerazione come Vate o come Mago, più di un santo, una specie di divinità o deus ex machina; come uno, insomma, che interveniva per risolvere i problemi, quelli seri. L’invasione delle mosche, oppure la questione delle carni del macello che andavano a male, o la crisi dei pescatori che non riuscivano più a riempire le reti, per dirne alcuni; il rischio Vesuvio e quello portato dalle acque infette, l’invasione delle serpi, la fierezza e l’indomabilità del popolo partenopeo, la loro protezione, la guarigione degli animali – in particolar modo i cavalli –, le malattie, per cui fondò nei Campi Flegrei il sudatorium Trituli, detto anche volgarmente bagno della Tritola, e le erbe prodigiose del giardino di Mons Vergili, poi Montevergine… Favole? Chi le liquida così, non ha compreso a fondo la storia della città. La cosa più straordinaria è che le leggende virgiliane sono tanto radicate nel tessuto urbano da corrispondere tutte a elementi storici, alcuni dei quali riscontrabili e visitabili. Ciò fa pensare non tanto che Virgilio sia esistito, ovviamente, ma che almeno alcune delle sue gesta siano state autentiche, talmente reali (sebbene di una realtà separata) da perpetuarsi in luoghi, statue e palazzi. I testi e gli autori che riportano i prodigi del Mago sono per lo più di epoca medievale (l’anonimo Cronaca di Partenope è del Trecento, ma Giovanni di Salisbury scrisse nel 1159 e Gervasio di Tilbury nel 1215), tuttavia non significa che siano nate durante il Medioevo. Anzi, è vero esattamente il contrario: all’epoca, i miracoli virgiliani erano così diffusi e popolari che si sentì la necessità di riportarne la memoria nei libri. Chi desidera dare uno sguardo ad alcuni di questi luoghi potrebbe iniziare dalla Crypta neapolitana, a Mergellina, e da Castel dell’Ovo, sul lungomare: ottimi entrambi per farsi una prima idea, benché comprendere le storie del taumaturgo che i napoletani chiamarono allo stesso modo della sirena, Parthenias (il Verginiello), significhi molto di più.

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    II.

    Perché li chiamano quartieri

    se in realtà sono sfumature di Napoli?

    17. Chiaja

    Greca era plaga, ci ha raggiunti attraverso il catalano platja (o il castigliano playa) fino a Chiaja, di bocca in bocca napoletana, con la sua J d’orgoglioso strascico antico. Profumava di cioccolato nell’Ottocento, soprattutto la strada che ne porta il nome, un profumo inaspettato che si diffonde tra negozi di moda, caffè e sartorie. Terra di mare, «la popolazione del borgo costituita soprattutto da pescatori, e le poche abitazioni dei nobili servivano solo per la villeggiatura» (Giancarlo Alisio, 1986). Quartiere compreso tra la zona collinare, che raggiunge il corso Vittorio Emanuele, e la linea costiera, aggiunge un’altra storia oggi, a passeggiare per questo quartiere bellissimo, di vetrine scintillanti e profumi di dolci. L’arco che campeggia sulla via omonima, l’ascensore, che sembra un gioco per chi non abita a Napoli, poco abituato a salire e a scendere la città. Si entra in via Chiaja per ritrovarsi a una fermata in piazzetta Mondragone, piuttosto che percorrere a piedi la lunga salita, dall’altra parte del fianco del Monte di Dio. Una villa lunga e rettilinea la taglia in due, parallela alla terra e al mare. La villa Reale, settecentesco progetto di Ferdinando IV di Borbone affidato a Carlo Vanvitelli (figlio del più celebre Luigi), con la consulenza botanica di Felice Abbate. L’11 luglio 1781, dopo soli due anni, apre i cancelli la Tuglieria (omaggio ai giardini parigini delle Tuileries), il più suggestivo parco urbano in riva al mare d’Europa. Chiaja e memorie di fondazione, la riviera, antico lungomare della città, prima della costruzione di via Caracciolo, la Sirena che feconda queste coste morendovi, approdo di coloni greci (VII secolo a.C.) in cerca di nuova dimora e belligeranti romani (I secolo a.C., come il patrizio Lucullo) in cerca di pace e delizie. Un castello di tufo, una crypta e la tomba dei suoi poeti, un acquario, il primo d’Europa, e grotte scavate dal vento, uteri per naviganti in pericolo e pescatori.

    18. Posillipo/Fuorigrotta/Bagnoli

    Seguiamo l’esempio di Pollione, scegliamo Pausilypon per sciogliere gli affanni, il luogo dove i dolori si leniscono e le pene si alleviano. Posillipo, che è ancora così, nonostante le costruzioni e il cemento imperante, mantiene nei suoi anfratti segreti la magia che lo rese celebre, il tratto di costa animato dai fantasmi di Donn’Anna e gli incantesimi virgiliani. Un intreccio di strade, da prendere appunti, in un percorso mozzafiato di bellezza unica al mondo – via Posillipo lungo la costa, via Petrarca, panoramica per eccellenza, via Manzoni che sale al Vomero, via Orazio – e viottoli e stradine che carezzano i fianchi della collina, in un panorama fatto di casali e abitazioni rurali inattese, ville lussuose e affacci a strapiombo sul mare. Dall’alto del parco Virgiliano (o parco della Rimembranza se lo ricordiamo omaggiando Leopardi) fino alla Gaiola, ai piedi della città stessa, in fondo al mare, dove il massimo poeta latino fondò la sua scuola.

    Distante da Napoli tanto quanto dai Campi Flegrei, Posillipo è la parentesi sospesa sul mare, collegata dalla lunghissima via Antiniana per colles, in seguito avvicinata con la prodigiosa Crypta neapolitana, fino al 1643 quando le rampe di Sant’Antonio collegano i borghi alla città. Il viceregno ne fa il grande teatro delle feste, con spettacoli pirotecnici e spettacoli sul mare. Nell’Ottocento, un altro pezzo si attacca: si conclude il tratto che scende lungo le rampe di Coroglio. Siamo a Bagnoli, Balneolum, la porta della città verso nord-ovest, dove i campi di vulcano sono ardenti. Fonte termale, sorgente antica, ricordata per le virtù curative quasi miracolose. Nel 1904 «il paesaggio più bello del mondo» (L. Young) lascia il posto a fabbriche e altiforni, ciminiere che sbuffano fumo nero e lavoro. Il progetto del Risanamento. Un altro destino sarebbe stato possibile? Il celebre architetto aveva visto avveniristiche stazioni balneari. Immagini e progetti rivalutati oggi, mentre le fabbriche si dismettono. Un ritorno, come spesso accade: la paziente attesa che si ripari agli errori, mentre aspettiamo guardando queste spiagge tornare al mare, dall’altro di Posillipo. E se un giorno la felicità si decidesse a prendere dimora non avrebbe dubbi.

    19. San Ferdinando, la storia di Napoli

    Si parte dalla rocca per comprenderlo, il Pizzo come «becco di falcone curvo che termina a Castel dell’Ovo» (C. Celano). Lo sperone di tufo roccioso su cui ebbe inizio la nostra storia. Non quella della Sirena, in questo momento, ma quella di un gruppo di cumani che nel VII secolo a.C. si mossero alla fondazione di Palepolis. Tra Montecalvario e San Giuseppe (a nord), Porto (est), Chiaia (ovest) e il golfo di Napoli (sud), il quartiere «corrisponde per estensione alla Partenope classica» (G. Liccardo), il centro abitato da cui Ierone di Siracusa fondò Neàpolis. Quattro aree distinte ne caratterizzano la conformazione geologica e la storia di Napoli prosegue per interventi urbanistici. È facile seguirla guardando i mutamenti principali, il succedersi di trasformazioni politiche e dinastiche. Il greco masso del monte Echia (il porto greco-romano, sotto piazza Municipio, riemerso con i lavori della metropolitana), uno zoccolo tufaceo di forma triangolare, dove si trovano Castel Nuovo angioino e il suo arco aragonese, la piazza borbonica del Plebiscito, l’emiciclo coronato dal palazzo Reale e il San Carlo; la collina di San Carlo alle Mortelle, il radicale assetto vicereale, con Toledo che occupa la collina gemella a monte Echia per farne un acquartieramento per i suoi (dove sorgono i Quartieri Spagnoli), il primo piano regolatore della città; fino alla bonifica di stampo ottocentesco con le sue colate, un’area composta da residui alluvionali e una colmata artificiale nei pressi del borgo di Santa Lucia. Ma è Castel Nuovo che determina più di tutto la conformazione moderna del quartiere, nel campus oppidi pianeggiante (oggi piazza Plebiscito), tra la collina e il mare, la platea di Porto Pisano popolata da mercanti toscani. Carlo I affida i lavori a Pierre de Chaules. Dell’antica struttura rimane la cappella Palatina, in forme gotiche raffinate, e i frammenti degli affreschi di Giotto e bottega intorno alle finestre. Degna dimora di una dinastia tra le più prestigiose d’Europa.

    20. San Giuseppe

    Si dice che Napoli sia il più grande paese del mondo, divisa in molti paesi più piccoli, i rioni, che sono in realtà enormi spazi familiari. Le stesse voci, di casa tua, sono le voci di strada, del tuo quartiere. Simbolo e anima di Napoli, San Giuseppe si contende con San Lorenzo l’area più antica (dal 1779 e la divisione della città in dodici quartieri), custodi equivalenti del patrimonio e dell’identità storica della città: «Più al centro del centro antico» (G. Liccardo). Un quartiere che è un fianco, quello destro di via Toledo, da palazzo San Giacomo al Foro Carolino (piazza Dante). Il nome lo prende dal santo falegname, dalla chiesa di San Giuseppe Maggiore (fondata nel 1500 dalla congregazione omonima, restaurata nel 1845 e demolita nel 1934). Su questo spazio, insule di fede e di potere si succedono lungo il percorso, da Santa Maria la Nova a Santa Chiara, Gesù Nuovo, San Domenico Maggiore, San Pietro a Majella. Ma questo è il tempo di Neàpolis, luogo di passaggio: la nascita della città nuova (secondo quarto del V secolo a.C. sulla collina di Sant’Aniello a Caponapoli) e la fine della città vecchia. Partenope lascia il posto e diventa Palepolis. Nell’immaginario collettivo questa zona di Napoli è distinta dal resto della città. Due simboli la rappresentano, imponenti testimoni del tempo e dello spazio: Marianna ’a capa ’e Napule (III secolo a.C.) e la distesa statua del Nilo, che per anni è stata creduta il femminile Corpo di Napoli (II secolo a.C.). Un luogo a sé, questo quartiere, in costante tensione tra sacro e magico.

    21. San Lorenzo, il cuore di Napoli

    Lo senti pulsare, libero da ogni retorica, il cuore di Napoli. Un quartiere che nasce con la vocazione del commercio, un susseguirsi di botteghe e bancarelle, spirito greco d’agorà, compensato da trionfi di fede, istituti religiosi senza pari. Compreso tra due decumani e numerosi cardi del tracciato greco, il quartiere si estende per quasi tutto il perimetro della città antica, dal largo delle Pigne (piazza Cavour) a San Biagio dei Librai, al duomo e Donna Regina fino a Castel Capuano. Un lungo viaggio intestino tra le memorie di un corpo immortale. Si scivola lungo via Tribunali, la piazza di San Gaetano e San Lorenzo Maggiore, il Monte di Pietà e San Gregorio Armeno. Commistioni di sacro e profano, l’uno fuso nell’altro, imprescindibile anima partenopea. San Lorenzo fa da memoria storica con il suo museo. I secoli che passano dai sotterranei, fino ai giorni nostri. Sul portale della chiesa sono elencati gli emblemi dei seggi di Napoli: un cavallo sfrenato per il Nido, un cavallo frenato in campo azzurro per Capuana, un monte verde con tre cime per Montagna, una porta d’oro in campo azzurro per Portanova, un Orione peloso per Porto. La sala del capitolo, nel chiostro, dalla fine del Quattrocento ospitava la deputazione della città, gli eletti dei seggi nobili e quello del popolo. Sette in tutto. Il Tribunale di San Lorenzo. Durante il Risanamento, gli intellettuali napoletani denunceranno il volto della città che cambia, la Napoli Nobilissima e le demolizioni indiscriminate.

    22. Porto/Pendino/Mercato

    Porto-Pendino-Mercato, ampliamento medievale verso la marina. San Pietro Martire (Università Federico II) e l’Orientale fanno da eccezione a una costiera dominata principalmente da dimore popolari. Un prospetto essenziale che contrasta con la parte alta, tutt’altra connotazione, di insediamenti religiosi tra i più rilevanti e ricchi della città: San Giovanni Maggiore, Gesù Vecchio e Donnaromita, al Porto; Monteverginella, Santi Marcellino e Festo, Santi Severino e Sossio, in area Pendino; Sant’Agostino alla Zecca, San Pietro ad Aram (nei confini amministrativi) del Mercato. Il porto è l’identità stessa della città, il grande punto di riferimento del Mediterraneo. Non è un caso che tra i sedili questo fu uno dei più importanti e antichi. Sono i tre moli le congiunzioni rare tra il mare e la città, il molo Angioino a piazza Municipio, il molo dell’Immacolatella e il molo Pisacane, in corrispondenza con gli assi principali della città storica. Si guardano ancora oggi, tra navi da crociera alte come palazzi e antichi e polverosi bastimenti che scaricano merci, approdi di mare che conservano la loro promiscua identità. Informale e viva. Si lavora oggi per poter avere un’area portuale in simbiosi con la città, collegata in maniera convincente, dove in un modernissimo centro commerciale, alla stazione marittima, non si può non fare shopping.

    23. Pendino e l’arte degli orafi

    Pendere, per ricordare le strade che conducevano dalla collina al mare, i pendini. A salire dal mare, è il quartiere gemello del Mercato, tanto che spesso se ne perdono i limiti. Stretti budelli e piccoli vicoli, un solo respiro a piazza Orefici e il suo Cristo protettore (ammirabile da entrambi i lati della croce). Antico tanto da essere inserito nella prima maglia cittadina, lascia tracce nelle mura greche di piazza Calenda a Forcella o nei resti romani del complesso termale di vico dei Mannesi (I secolo a.C.). Nel mezzo della piazza sedeva l’udienza, una specie di consiglio dove i quattro consoli della Corporazione degli Orefici sorvegliavano il lavoro. Da settecento anni il quartiere è noto per le botteghe di borgo degli Orefici. Un pulsare d’artigianato operoso. Dal Medioevo quest’arte orafa (che comprende la manifattura di argenti e gioielli) si distinse per il talento e il prestigio, tanto che alla metà del XIV secolo nacque la Corporazione degli Orefici che ebbe il riconoscimento ufficiale da Giovanna I. Sensibilità francesi, di maestri d’oltralpe trasferiti a Napoli, lasciarono presto la mano alle eccellenze napoletane, la cui memoria e il prestigio si notano ancora tra le preziose opere d’arte del Museo del Tesoro di san Gennaro. Alla fine del Seicento il viceré del Carpio stabilì che solo in quel quartiere si potesse esercitare il mestiere di orafo. Il borgo oggi è un museo a cielo aperto, il Consorzio Antico Borgo Orefici, un concentrato di botteghe unico al mondo che resiste al tempo e alla crisi, formando nuovi artigiani, tenendo vivo l’antico insegnamento. Il borgo della privilegiata Corporazione antichi maestri e i suoi discendenti, depositari di segreti tramandati di padre in figlio.

    24. Mercato, fuoco e rivoluzione

    Famosissimo, come negarlo? Il solo pronunciarlo evoca memorie rivoluzionarie, flussi di sangue e rotolare di teste. In pochi sanno che al di là della piazza omonima, il quartiere è un dedalo inestricabile di strade, dove perdersi è solo l’inizio. Più spesso però il pregiudizio tiene banco, così ’O Buvero per antonomasia, Bùver’Orito (S. Zazzera), divenne presto borgo Loreto, secondo una legge del 1850 che cambiava in nomi decorosi

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