La sindrome della fenice
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La Sindrome narra in modo delicato la debolezza dell’essere umano, anche di colui che, privilegiato di nascita e nella società, sembra avere tutto quanto possa far felici, all’apparenza.
Quello di Rusty è un viaggio geografico, fisico e mentale, che supera i confini non solo dell’Italia verso il Canada, alla ricerca di una cura che forse vuole solo risposte. Come la fenice, Rusty sa darsi fuoco per poi rinascere ripulito dalle sue stesse ceneri. Quella che sembra una ripetizione dell’identico, un loop tossico, avrà una risposta, un finale spiazzante, di quelli che fanno desiderare di rileggere l’inizio.
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Anteprima del libro
La sindrome della fenice - Giovanni Gastel
Arbogast
1. Carta velina
Non ho ancora smesso che già ci ricasco.
Immaginavo un ritorno trionfale, dopo essermi ripulito e avere ricostruito la mia integrità in Canada; mi aspettavo i miei genitori all’aeroporto, festosi, non dico con gli striscioni, ma quasi.
Immaginavo gli abbracci e le lacrime.
Immaginavo male.
Ad aspettarmi, due persone della comunità di Cuveglio, due sconosciuti che mi dovevano scortare in comunità.
Mi fanno lo spoglio come all’ultimo dei tossici: il cammino fatto a Le Portage sembra non contare un cazzo, come se dovessi ricominciare tutto da capo, di nuovo.
Come sempre.
Sabato di marzo. Cuveglio, provincia di Varese, Italia. Il fondovalle, uno scolo per resti umani con qualche viziata ambizione di vivere: la Valcuvia.
Avevo terminato la fase residenziale della comunità in Canada e ora mi appoggiavo a quella di Cuveglio, gemellata con Le Portage, per la fase di reinserimento sociale. Fino agli anni Ottanta i due centri lavoravano insieme, poi in parallelo, infine si sono resi autonomi.
Cuveglio, una comunità per drogati ricchi. Famiglie da spennare, polli da rendere soldati attraverso la furia delle privazioni: nessuna comodità, comandi indiscutibili impartiti gridando addosso, ordine e pulizia maniacali come povera metafora del prendersi cura di noi, lavando gli atri sporchi dell’anima bucata
. Militare, spietata, necessaria forse. Un gioco che s’impara subendo, poi comandando gli altri.
Vagavo per i corridoi, salivo scale, non trovavo conforto in nessun luogo finché Orso, lo staff on duty, operatore in carica in quel momento, mi ha chiamato a entrare nella staffroom, intuendo che avevo bisogno di aiuto. Ho bussato alla sua porta. Mi bastavano poche parole, semplici, scandite piano, confortanti. Ho messo le mani dietro la schiena, le spalle in fuori, fermo, completamente fermo. Nemmeno potevo cambiare espressione del viso. Il codice non lo consente. Avrei rimediato solo un teaching, cioè un insegnamento: un’urlata sulla compostezza del corpo che non deve lasciar trasparire nessuna emozione
. Così dovevo rimanere: immobile. Infatti il mio holdin’up, la posizione di rispetto verso chi ha più gradi di te, era perfetto. Le braccia dietro – un polso cinge l’altro con fermezza – lasciano vedere che hai il cuore in vista, che hai una posizione di apertura agli altri, agli insegnamenti, che non hai paura di mostrarti o di ricevere i temuti teaching.
«Sono Rusty, Orso, chiedo di entrare.»
«Entra, siediti.»
Varcata la soglia ho riassunto la posizione che avevo fuori.
«Sciogli pure l’holdin’up... Siediti, mettiti comodo.»
Non ci riesco, rimango in piedi nella mia posizione. Ho paura di disturbarlo mentre lavora sul computer; lui è un uomo solitario, lo chiamano Orso per questo, ma è anche una persona estremamente dolce. Ha fatto il programma di riabilitazione in Canada - la comunità, per intenderci - in tempi in cui quel luogo aveva un sistema rigidissimo. La gente che arrivava dal carcere spesso chiedeva di tornarci. Terminato il programma a Le Portage, Orso ricadde negli abusi, e chiese di rientrare, per ricominciare da capo, da zero... Lo portò a termine ancora una volta.
Anche per questo era molto rispettato.
«Cosa c’è, Rusty?»
«Non so, Orso. Sto male, mi sembra d’impazzire, continuo a cercare spiegazioni al malessere, ma non ne trovo… Mi sembra che manchi sempre qualcosa; ho paura di freakkare fuori…»
Mi guarda, intanto, e il suo sguardo vaga lento nel vuoto, come per cercare risposte, come seguisse il volo di una mosca ubriaca. Come se nelle imperfezioni della tinta del muro, degli angoli di quella stanza, si trovassero gli specchi delle nostre vite. Stringo le braccia dietro la schiena, il mio tono è un po’ troppo ossequioso, io, troppo piccolo e immaturo per conoscere l’orgoglio.
Aspetto, sono impaziente, voglio sentire le sue parole come una carezza del mio genitore, lontano spazio e tempo. Sento di avere davanti la persona giusta. E bramo un suo feedback come una rivelazione divina, perché Orso sa di terapie più che della vita.
«Uhm, ok, Rusty, hai finito con le guilts? – Apro parentesi: se uno si è fatto una scopata con una tipa, cosa gravissima in comunità, come può poi accusare qualcun altro di non essersi lavato le mani? La guilt è il senso di colpa che impedisce di avanzare nel percorso terapeutico della comunità – Le hai scritte, le cose che avresti dovuto fare e non hai fatto, le cose che hai fatto e non hai detto, le cose che avresti voluto fare? Le sigarette che hai fumato di nascosto quando non era consentito? Hai altro? Contatti sessuali?»
Contatti sessuali
, penso a queste due parole, che qui in comunità significano anche sfiorarsi la mano
, così come prendere un panino senza chiedere equivale a rubare
... D’altronde, se si considera solo il bianco e il nero, ogni analisi risulta più facile, e ogni comportamento più leggibile, mi dico rispondendomi da solo.
Orso continua.
«Ti sei fatto confrontare, indagare dalla famiglia? Hai scritto tutto?»
Famiglia… I componenti in generale della comunità sono chiamati famiglia
perché viene così più facilmente considerato l’insieme dei residenti, l’interezza del gruppo, senza le effettive distinzioni di gradi… È una parola che mi fa incazzare, perché penso alla mia famiglia di sangue, che mi manca da morire…
«Sì, ma è come se non riuscissi a liberarmi definitivamente, come se ci fosse sempre qualcosa che mi tormenta, che mi fa sentire in colpa.»
Orso aspetta prima di tagliare l’aria di quella stanza disadorna e rispettata, temuta e riverita. Aspetta e fa bene, perché, stretto nel mio holdin’up, trepido per una risposta che mi possa rinfrancare.
«Vedi, il fatto è che sei una persona acuta e ricettiva, troppo, inutile nasconderlo… La tua pelle è come carta velina che lascia entrare anche le cose più piccole e lievi. Ora, sei in un momento un po’ difficile, sei quasi in transizione e tra pochi giorni lascerai la comunità per la fase di reinserimento a Milano, ed è normale che tu ti senta così inquieto, ma cerca di tranquillizzarti. Oggi è sabato, c’è il film, il tiramisù, la Coca Cola. Rilassati, qui sei al sicuro; non ti preoccupare: fuori è fresco e stanotte dormirai bene».
Anche se le parole non hanno toccato punti particolarmente profondi o illuminanti ho lasciato quella stanza più tranquillo, poiché l’ascolto che mi ha concesso, la sicurezza del tono della voce e la semplicità del suo sguardo hanno placato le mie ansie paranoiche.
O forse le uniche risposte che davvero aiutano sono quelle che ci diamo noi.
Lascio la staffroom, e vedo che nella dining room hanno già iniziato la proiezione del film del sabato, una pacchia: free smoke, un bicchiere di Coca Cola a testa e una fetta di torta ciascuno. Fuori fa davvero fresco, mi piazzo vicino alla finestra e penso agli amici, i samurai e le geisha, le ragazze amate che quando sei lontano ami di più... E i ronin di tutti i luoghi. I ronin come me, lasciati nelle psichiatrie a parlare con i caloriferi, a contare i marziani, a pregare i santi dell’almanacco. I ronin… Combattenti che hanno perso i gradi, la dignità e l’onore.
Orso, prima di diventare operatore, era stato