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Il Rinnegato
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E-book455 pagine6 ore

Il Rinnegato

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Info su questo ebook

Questa è una storia di mare. Dal mare arrivano le navi che cambiano la vita al giovane Hassan, quando non era ancora questo il suo nome. Il mare diventa poi la parte più importante della vita stessa del giovane. Allevato dal Re dei pirati Barbareschi il famoso Barbarossa ne segue le orme fino a diventarne figlio adottivo. Così, al servizio di Solimano il Magnifico, insieme al suo formidabile padre, il pastorello rapito dalla sua terra, diventa Re, in un mondo completamente diverso da quello di nascita. La vera storia di un bambino rapito dai pirati, nel lontano 1500.
LinguaItaliano
Data di uscita8 ago 2018
ISBN9788827842690
Il Rinnegato

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    Anteprima del libro

    Il Rinnegato - Salvatore Barrocu

    vita!

    La Capanna

    La capanna dove avrebbe vissuto per tutto il resto dell'estate, e forse l’intero autunno, lo attendeva sul versante occidentale dell'isola, a due ore di sofferente camminata dal villaggio, ormai in stato di abbandono. Come era stato minacciato dal soprastante, all’alba si erano presentate due figure alla stalla. I somarelli che avevano fatto compagnia al bambino durante la notte si svegliarono ragliando, quando un calcio strappò un urlo al bambino addormentato nel fieno.

    Zitto e muoviti. Si parte! disse la figura del soprastante. Con sguardo impaurito, Matteo guardò quell’ombra da cui erano uscite le parole che gli colpivano le orecchie. Per un momento gli sembrò che non l’uomo, ma solo l’ombra, terrificante, fredda e infernale, fosse davanti a lui a ricordargli che ormai apparteneva al demonio. Si alzò in un attimo, mentre i ragli degli asini cancellavano le parole degli uomini, e raccolse la sua bisaccia.

    Sono pronto… pigolò, irritandosi contro se stesso per il tono acuto della sua voce ancora infantile.

    Anche se aveva terrore, non voleva dimostrare di averne, ma la voce lo aveva tradito. L’ombra rise, aspra, e disse: Segui Andria, ti porterà a destinazione e verrà ogni settimana a controllare che il tuo gregge sia integro e se tu sia vivo o morto!

    Poi si voltò, e con passi decisi scomparì incontro al sole che stava nascendo dal mare, lontanissimo.

    Non ricordò il viaggio, né le parole che si scambiarono col vecchio Andria mentre camminavano appresso al somarello carico delle loro bisacce. Matteo ricordò solo, da allora e per sempre, l’ultima curva dopo il crinale del monte che lo condusse alla sua nuova dimora.

    Il mare, enorme e senza confini, senza nemmeno l’illusione di una terra a segnarne l’orizzonte, senza una nuvola a mutarne i colori, si stendeva ai suoi piedi. Una valletta verde, ombreggiata da querce secolari e coperta di erba verde, separava i due esseri umani da quella immensità così difficile da comprendere appieno. Il gorgoglio dell’acqua, il profumo delle piante e dell’erba e l’abbaiare lontano di un cane salutarono i due, mentre il loro sguardo si staccava a fatica dall’immensa distesa d’acqua per osservare la meta ormai quasi raggiunta.

    Il gregge, sorvegliato da due grossi cani, brucava la verde erbetta vivificata da una sorgente perenne che sbucava dal fianco del monte percorrendo poi, in un rivolo, la breve strada che lo portava al mare. Questa sorgente era la benedizione di Dio, in estate. Mentre nel resto dell'isola, come nella più grande Sardegna, il sole, dopo aver seccato le pozze e le sorgenti, rendeva la vegetazione gialla come l'oro, macchiata appena dal verde cupo delle querce e degli ulivi, lì, grazie alla fresca acqua, una striscia di verde erba permetteva al piccolo gregge di vivere senza eccessivi stenti, dovendo solo ripararsi dai dardi cocenti del sole. Le capre non si allontanavano mai da quel luogo, e così, nonostante fossero state lasciate a se stesse per qualche giorno, il bambino, dopo una camminata attraverso i boschi, ritrovò il gregge al completo, radunato sotto una grande quercia da sughero, a godersi l'ombra, sorvegliata dai cani sonnolenti.

    Dopo aver lasciato che Andria controllasse se tutte le bestie fossero presenti, non sapendo né leggere, né scrivere, né tanto meno contare, Matteo si rasserenò all’annuncio che il gregge era al completo, e con fare deciso si impadronì della sua bisaccia, sgravando la schiena del somaro da quel peso.

    Per la capanna, segui il rumore dell’acqua disse Andria. E questo fu il suo congedo. Senza proferire altra parola, si incamminò, riprendendo il sentiero appena percorso, al contrario, verso la cima del monte, diretto chissà dove. Matteo ne guardò la schiena per un poco mentre, fermo sul sentiero, uno dei cani lo annusava sospettosamente, fino a che, certo che non si sarebbe più voltato, il bambino sospirò e si mosse verso il vivo suono dell’acqua che scorre.

    L’acqua aveva dato vita a una serie di alti cespugli di rovi e di more così alti da nascondere la vista dell’acqua, del ruscello e del mare. Solo le alte cime delle piante svettavano, lottando contro il sole, in una battaglia già persa, ma che regalava alla terra un’ombra benedetta.

    Era ormai metà pomeriggio. Matteo guardò cani azzuffarsi per un osso trovato chissà dove; la loro magrezza metteva in evidenza ogni costola e la bava colava a grosse gocce dai musi in lotta. Osservò per un momento i mantelli marroni striati di nero, come se una frusta scura come il carbone li avesse colpiti lasciano sulla pelle cicatrici di inchiostro invece che di sangue; poi, sistematosi la bisaccia sulla spalla, si incamminò verso l’acqua, e la sua nuova casa.

    Appena dopo i cespugli spinosi, un ruscelletto, appena un rigagnolo di acqua chiarissima, correva verso il mare sul suo sentiero di ciottoli tondeggianti. E dopo il torrentello, un prato di erba ancora verde e, appena al di qua della linea degli alberi, di spalle al mare ormai prossimo, la capanna. Un muro rotondo, sormontato da un tetto di frasche e di paglia, con un’apertura rettangolare per porta, che dava sul prato, alta quel tanto che bastava per far passare Matteo senza che si dovesse chinare. Le pietre vive che mostravano il volto della capanna al bambino gli diedero la sensazione della durezza della vita che lo attendeva in quel luogo, nonostante il verde e il canto dell’acqua. Sospirò, rassegnato, guardandosi prima alle spalle e poi posando lo sguardo alla porta spalancata che si apriva, nera e impenetrabile, verso il buio dell’interno. Superò quella soglia con passi affaticati, ed entrò.

    Un altro cambiamento

    Erano passati i giorni, a volte veloci come saette, altri lenti come il passo della noia che li accompagnava. Matteo aveva preso in fretta possesso del suo piccolo regno, e si era presto fatto amico i due cani e anche le capre, con l’istinto che unisce da sempre bambini e animali.  Dimostrandosi loro amico, sembrava che gli animali ricambiassero quel sentimento: i cani facendo il loro lavoro di guardiani con insospettabile solerzia; le capre limitando, pareva, le loro anarchiche scorribande in cerca di cibo. Che fosse merito della verde erbetta, molto più invitante dei rinsecchiti ciuffi che stentavano al di fuori della valle, o semplicemente il caldo ottundente che colpiva al di fuori della cerchia degli alberi, a tenere unito quel gruppo di esseri viventi, non era sicuro. Ma a Matteo piaceva pensare che fosse per l’amicizia verso di lui, che il resto di quel piccolo mondo gravitasse, come pianeti intorno al sole, senza mai troppo allontanarsi dal suo sguardo.

    In settimana era passato Andria, come promessogli dal soprastante, annunciato dal suo passo tranquillo e dagli incitamenti nei confronti dell’asinello; gli portava pane, formaggio, e qualche notizia. Andria non era vecchio, anche se agli occhi di un bambino di otto anni anche gli adolescenti appaiono tali. Aveva appena trent’anni, portati male come male li portano tutti i poveri diavoli. Basso (il che non era un grave difetto in una terra dove ogni uomo era legato dalla natura più alla terra che al cielo), nero come il carbone, di capelli, di occhi, di pelle. Il sole aveva giocato impietoso con la pelle di quell’essere umano. Qualche profonda ruga, come solco in un fertile campo arato di fresco tagliava il suo viso, dandogli la parvenza assorta che lo faceva apparire ancora più anziano.

    Non parlò molto, ma si sedette al fresco degli alberi (vicino alla sorgente che seguitava a sputare limpida acqua) e raccontò al bambino le pochissime cose che erano accadute nell’isola. Usava un coltello per intagliare distrattamente un pezzo di legno, mentre si faceva violenza per emettere insieme quelle poche frasi. Il bambino guardava affascinato quella lama che a lui pareva lunga e affilata come quella di una spada, e nella sua mente sognava già di impugnare una simile arma per guadagnarsi pane e rispetto. Guadagnarlo nella città, però, dove la sua banda di amici aspettava solo un capo per diventare finalmente qualcosa di più che non un gruppo di fastidiosi monelli.

    Anche lui aveva un coltello. Ma era una lama adatta a tagliare pane e formaggio, ridotta nelle dimensioni e nelle possibilità, che suo padre gli aveva affidato mesi prima, la prima volta che Matteo aveva avuto esperienza di vita in campagna. In vista di quell’incarico che ora svolgeva, infatti, il sovrintendente del feudatario in città aveva affidato al padre il compito di istruire il figlio sui compiti che ci si aspettava da lui. Aveva imparato tutto, e alla fine delle lezioni il premio e la condanna era stata la consegna di quel pezzo di ferro, malamente affilato e appuntito, con un manico fatto di legno e spago attorcigliato. Ne era stato fiero fino a quando non aveva visto il coltello di Andria. Ora gli pareva insignificante, addirittura brutto e poco utile, il suo amato coltello. Cosa avrebbe dato per averne uno uguale a quello che, ora, intagliava il legno come se fosse burro, nelle abili mani del vecchio.

    L’uomo si accorse dello sguardo voglioso del bambino e sorrise, aggiungendo qualche ruga al suo volto già devastato.

    Ti piace? Era di un soldato, di un Turco. Spera di non vederne mai altri concluse, buttando il pezzo di legno che aveva martoriato e infilandosi la lama nella cintura che gli sorreggeva le larghe brache da marinaio. Si era alzato e si apprestava a partire, così, all’improvviso. Ma mentre recuperava il suo asino, beatamente impegnato a ingozzarsi verde erbetta, serio ancora più del solito, avvisò: Se mai vedessi o sentissi, di notte o di giorno che sia, voci e rumori dal mare, scappa, nasconditi e non uscire dal tuo nascondiglio fino a che ogni rumore è cessato.

    Non lo guardò neppure mentre camminando di fianco all’animale, imboccato il sentiero del monte, concluse: Anzi, meglio fai se stai lontano dal mare: nulla di buono arriva da lì. E scomparve, lasciando a Matteo solo il ricordo di quelle parole e il suono del passo balzano del ciuco.

    Guardava lottare i cani, sfidatisi inizialmente per un osso e poi, pareva, ben decisi a regolare una volta per tutte ogni loro divergenza passata. Ringhiavano e si rotolavano nell’erba, scappando, ora l’uno ora l’altro, per sottrarsi ai denti nemici.

    Nel giovinetto stava tornando la malinconia, dimenticata durante la traversata e la lunga camminata, e nei giorni spesi a esplorare e ambientarsi nel suo nuovo mondo. Il bimbo, sempre più spesso nella sua mente, risentiva la voce della madre, delle sorelle e degli amici lasciati a Sassari, con un senso sempre più forte di scoramento. Non bastavano gli animali e la natura, gli mancavano gli affetti e i giochi; ma sapeva che la sua vita era quella e, alla sua età, quasi tutti i bambini erano costretti a crescere, aiutando i padri al lavoro nei campi o ad accudire le bestie. Peggio andava ai figli dei minatori (lui ne conosceva uno), che dovevano seguire i padri nelle strette gallerie nelle viscere della terra, dove vivono i morti e i demoni, per strapparne briciole di minerale. Loro sì che erano destinati a una vita breve e dolorosa. Questi erano i suoi pensieri, quel giorno. E furono proprio questi pensieri, soffocanti più dell’afa opprimete che uccide nel sonno i bambini più deboli, che per la prima volta, per non soccombere alla tristezza, scoprì il mare. Si alzò sul sedile di pietra che utilizzava come un palco di teatro per godersi le esibizioni degli animali, controllò di avere il suo coltello infilato nella corda che aveva promosso a cintura, e con passo deciso si mosse verso quel rumore che, da quando era arrivato, aveva sempre cercato di ignorare: quello delle onde che lambiscono la terra.

    La giornata era serena e la lieve brezza dell’ovest spingeva pigramente le onde ad accarezzare la poca sabbia che proteggeva la terra dal mare. Sbucando dal rifugio degli alberi, Matteo vide quello che, anche se non lo sapeva ancora, sarebbe diventato il suo mondo. La giornata era adatta. Il sole, che andava abbassandosi davanti a lui, illuminava quel mare colorandolo di mille colori: dal verde più cupo, fino ad arrivare all’indaco e al bianco della cresta delle onde che morivano baciando la terra. Tutti i colori del creato sembravano essersi accordati per dare a Matteo un’immagine così bella da mozzargli il fiato.

    La paura, il ricordo del mal di mare patito all’arrivo, le parole e il monito di Andria, tutto fu immediatamente dimenticato, davanti al mistero del mare. Col cuore che batteva forte, il fanciullo mise i piedi sulla stretta striscia di sabbia, proprio lì dove andava a morire il ruscello, e iniziò la sua nuova vita, esplorando quel mondo sconosciuto e dimenticando, nel farlo, famiglia, amici e malinconia.

    Uomini e navi

    Khareyddyn e Oruk tornavano a casa. Dopo aver saccheggiato la zona tra la Liguria e la Toscana, prendendo per il naso le navi Genovesi, Papaline e Pisane che davano la caccia per ogni dove ai vascelli barbareschi. Con le loro quattro navi cariche di bottino e schiavi, avevano rivolto le prore a sud-ovest, navigando sulle ali del vento, certi così di evitare il blocco navale che attendeva tra la Corsica e la Toscana ogni naviglio straniero. Conoscevano quel mare a menadito, i fratelli. Da anni imperversavano saccheggiando ogni paese, violando ogni insenatura e beffando ogni esercito di quello che era ormai, o stava diventando, un lago musulmano.

    Con sfrontata arroganza, quindi, nonostante il più focoso Oruk avesse avuto l’idea di forzare il blocco con armi e sangue, seguivano la più sicura rotta che costeggiava la Corsica ad ovest, lambendo dal mare le alte montagne che si gettavano quasi a picco nell’acqua.

    Era giovane, Khar El-Dyn, ma insieme al fratello Oruk, più anziano, stava diventando una leggenda per i musulmani e un incubo per i cristiani. Una leggenda fatta di sangue, di oro, di spietata scaltrezza e anche di un’intelligenza del mare quasi infallibile. Del resto sul mare ci erano nati, i fratelli Barbarossa, come cominciavano a chiamarli i Cristiani.

    Quella spedizione, una come tante altre, la guidava da lui, nonostante il fratello avesse nominalmente il comando, grazie alla sua sagacia, che rendeva gli uomini degli equipaggi molto più malleabili ai suoi voleri di quanto riuscisse l’irruenza del fratello.

    Del resto, Oruk, aveva ben altri pensieri per la testa. Il consolidamento del potere dei fratelli sull’isola di Djerba, per esempio. Potere conquistato col sangue degli antichi padroni, ma che andava mantenuto, sempre nel sangue, perché non si perdesse. Lasciava quindi volentieri il comando al fratello minore, di cui si fidava ciecamente, mentre nella sua lussuosa cabina, situata sul ponte della nave più grande, studiava piani su piani per espandere il potere della sua piccola flotta, trovando un approdo più consono.

    Khareyddyn guardava il mare davanti a lui, con gli occhi stretti a fessura per attenuare il bagliore del sole che si rifletteva sulle onde. Le mani appoggiate al parapetto del ponte di comando, le spalle rivolte alla costa, quasi in un gesto di rifiuto per la terra, come se la disdegnasse, o come se quel mucchio di sassi e piante fosse solo un piccolo inconveniente che interrompe la perfezione dell’oceano infinito. Pensava, il giovane capitano, a dove approdare senza rischi per il ricco bottino che riempiva le stive, ad approvvigionare di acqua e carne i suoi legni, per arrivare a Djerba senza dover sbarcare in Sardegna. Era un pirata, non un missionario, e una volta riempite le stive di oro e di schiavi, la rapida fuga era la soluzione ideale, anche se non onorevole secondo la mentalità dei soldati che lo combattevano, per raggiungere l’obbiettivo prefisso: arricchirsi rapidamente a spese dei Cristiani.

    La Corsica poteva andare per questo scopo, ma sia per i difficili approdi, sia per il rischio di venire sorpresi a terra da navi franche o genovesi che pattugliavano assidue quelle coste, lui tendeva a evitarla. E la evitò, dunque, costeggiando al largo  quelle infide coste.

    Da ore scrutava il mare, ignorando, al fianco,  i monti, vaghi per la lontananza, della sorella minore della Sardegna.

    Poi il suo volto si distese, vedendo, lontano all’orizzonte, un azzurro monte sbucare dal mare. Urlò pochi ordini e le navi cambiarono rotta, allontanandosi dalla costa infida e gettandosi nel mare aperto, verso quello che sembrava ancora solo un miraggio.

    L’incontro

    Nei giorni che seguirono la scoperta del mare da parte di Matteo, il mattino il bambino si alzava, e dopo aver dato un rapido sguardo al gregge posto sotto la sua custodia, mangiava un pezzo di pane e si incamminava con lo svelto passo della curiosità, verso il suo nuovo amico. Sì, perché dopo essersi bagnato nelle sue acque, prima con timore, poi sempre più sicuro, avvolto dal tiepido abbraccio salato, Matteo aveva scoperto un mondo pieno di vita, da esplorare e in cui giocare.

    Il ricordo del suo primo viaggio per quel mondo presto svanì, sostituito dal quello di piccoli pesci, conchiglie, ricci di mare e granchi da molestare con la rozza lama del suo coltello. Il tempo passava in fretta, mentre, accompagnato da uno dei cani (il più intraprendente sicuramente), giocava sulla stretta spiaggia, confine tra due mondi ancora da conoscere.

    Era un bambino sveglio, Matteo, e ora che l’acqua l’aveva sommariamente ripulito dallo sporco della città, che pareva si fosse attaccato alla sua pelle come il corallo alla roccia, era persino più bello. La pelle liscia, accarezzata dal sole, era diventata scura, specialmente quella del viso. Il bianco niveo dei suoi occhi spiccava in mezzo al viso abbronzato, come stelle in un cielo senza luna, e i capelli, finalmente puliti, gli scendevano a coprire il collo in riccioli che brillavano alla luce del sole. La camiciola lurida, lasciata da parte in un angolo della sua capanna, aveva liberato alla vista un petto ancora infantile, stretto e glabro, che col passare dei giorni prese prima il colore di oro vecchio, poi di bronzo. Il sole lo aveva accarezzato con dolcezza, in quei giorni di gioco in riva al mare.

    Andria lo trovò in spiaggia, dopo averlo cercato invano nella piccola valle, e Matteo, con nelle orecchie il rumore dolce della risacca, non aveva sentito né l’uomo né l’asino arrivare. Fu il cane che, correndo sulla spiaggetta a rincorrere le onde, avvisò Matteo della presenza di un ospite. Si fermò di colpo, proprio mente sembrava fosse riuscito a fermare il ritiro dell’acqua verso il mare artigliandola con una zampata. Mentre il mare sfuggiva superando la zampa ormai immobile, il muso dell’animale si volse verso l’ombra delle piante alle spalle di Matteo, e scoprendo i denti emise un sordo ringhio.

    Il bambino stava tormentando un granchietto che, con impudente arroganza, aveva osato farsi scorgere da lui senza avere abbastanza gambe per sfuggirgli. Accucciato sui calcagni, con in mano il rozzo ferro, lo stava spingendo a fuggire per poi bloccargli la strada. Il sole gli accarezzava la schiena, dandogli una sensazione di pace, la stessa che, da infante, gli dava la carezza della madre. Il ringhio del cane lo fece irrigidire. La mano destra si strinse al coltello, così tanto che le nocche divennero bianche e il granchio, che ormai vagava impazzito, come avesse capito di non avere più scampo, con l’istinto che guida ogni essere vivente alla vita, fuggì veloce come non era mai stato, verso le onde vicine, e la salvezza.

    Matteo si voltò di colpo verso gli alberi, alzandosi rapidamente come solo i fanciulli riescono a fare.

    Non ti spaventare, sono Andria!

    La voce proveniva dall’ombra che a mala pena si distingueva, tra alberi e macchia, ed ebbe la facoltà di far rilassare Matteo, che abbassò un poco le spalle, tese per la tensione, e la mano che impugnava il coltello. Con un rumore di rami scostati e di foglie agitate dal vento, l’uomo si fece avanti, fino a superare la linea d’ombra e farsi vedere, stringendo gli occhi per la luminosità intensa del sole.

    Ti avevo avvisato di stare lontano dal mare, ma naturalmente non mi hai dato retta. Nessuno dà mai retta a chi ne sa più.

    Il tono era serio, quasi triste; il viso, rivolto verso di lui con gli occhi socchiusi e le labbra serrate, impenetrabile.

    Non facevo nulla di male… Gli animali ci sono tutti e stanno bene disse Matteo, tra l’imbarazzato e l’adirato.

    Torniamo indietro! disse Andria, voltando le spalle e incamminandosi. Matteo attese un attimo, incerto, prima di seguire con riluttanza l’uomo. Con un fischio richiamò il cane che, dopo aver dato l’allarme, riconosciuto l’umano, si era rimesso a giocare, seppure con meno zelo, con le onde. Uno scatto e il magro animale fu al suo fianco e poi davanti a lui. Pochi balzi e scomparve, superando anche l’ospite.

    Non vi furono prediche o altri ammonimenti. Andria scaricò in silenzio la bisaccia con pane, formaggio e olive per Matteo e un involto di ossa spolpate per i due cani. Fece tutto con mosse lente, senza parlare. Con poche parole si congedò, lasciando il bambino dell’idea che si fosse inquietato per la sua mancanza di considerazione verso i consigli che gli erano stati elargiti.

    Ma il motivo del silenzio di Andria era ben altro, e l’uomo ci pensò per tutto il viaggio di ritorno.

    Mentre stava lì, nascosto dalle ombre del bosco, e guardava la schiena del fanciullo immerso nei giochi, una sensazione ben conosciuta aveva mosso i suoi sensi, partendo dal basso ventre per arrivare allo stomaco. La sua era vita di solitudine, con l’unico sfogo di amori solitari, qualche rapida incursione nel mondo animale, o la visita alle professioniste del sesso di Sassari, una volta l’anno. La pelle del fanciullo e la sua acerba innocenza erano state un richiamo a cui aveva resistito a fatica.

    Solo le minacce di dannazione tra i fuochi eterni dell’inferno (predicati dal curato che una volta la settimana, lasciando gli agi relativi di Porto Torres, veniva a dire messa sull’isoletta) avevano frenato una voglia improvvisa. Allo stesso modo lo fece desistere il timore dell’impiccagione, che il feudatario aveva imposto come pena a chi avesse goduto impropriamente delle sue proprietà, e Matteo, indubbiamente, era una proprietà del nobile. E poi c’era il padre del ragazzo, un osso duro, per quanto Andria lo conosceva. Mentre tornava a casa, valutava tutti questi fatti, i pro e i contro, ma la tentazione già scavava grandi falle nelle sue sicurezza e, quando si stese sul suo pagliericcio puzzolente per il sudore e lo sporco, aveva già deciso: alla prossima visita avrebbe avuto il fanciullo, con le buone o con le cattive. Poi avrebbe deciso se tenersi un amante condiscendente, o avrebbe fatto sparire il cadavere della vittima della sua violenza. Avrebbe avuto poi ancora una settimana per trovare una scusa plausibile per la scomparsa eventuale di Matteo, da presentare al feudatario e al padre del bambino, che, uomo implacabile, l’avrebbe ucciso tra mille tormenti al solo sospetto che la storia fosse stata falsa. Quella sera si addormentò limando con pazienza i suoi piani, come un fabbro lima la lama da rendere affilata, e accarezzandosi il membro, duro come una roccia.

    Anche Matteo dormiva, ignaro della tempesta da lui provocata, inconsapevole delle voglie degli uomini, a meno di duecento metri dal mare. E mentre dormiva inconsapevole, sulla spiaggia dove aveva giocato poche ore prima, stavano camminando i corsari di Barbaria.

    Silenziosi come spettri, i pirati, notata la presenza di capre, si erano appostati ai margini del bosco. Khareyddyn aveva subito visto la sorgente e aveva sorriso, soddisfatto che il suo ricordo fosse stato così efficiente da fargliela ritrovare dopo solo due tentativi, indicandola ai suoi uomini. Nonostante le ombre, la luna piena illuminava la scena con una spettrale luce grigia, sufficiente a mostrare anche ai poco adatti occhi umani, le forme della notte. I cani che sorvegliavano il gregge, stanchi per una giornata vissuta sotto il caldo opprimente e per le dispute che li avevano spossati per le ossa che erano state loro portate da Andria, dormivano emettendo un sordo ringhio ad ogni pesante respiro.

    Khayr el Din, che era sceso dalla nave con un gruppo di uomini armati di scimitarre e archi, su una barca piena di botti vuote per far incetta di acqua, respirava a fondo l’aria della notte, inebriandosi con essa. Aveva osservato la capanna per un minuto, valutando quali pericoli potevano esserci al suo interno, annullandoli poi con un’alzata appena impercettibile delle sue spalle.

    Solo un esercizio mentale aveva pensato, ridendo tra sé dei pensieri che aveva avuto appena un minuto prima; e con la scimitarra sguainata si fece avanti in tranquillità.

    Quindi, con un cenno, aveva indicato i due cani che, ancora ignari, ansimavano nel sonno. Due frecce sibilarono nel silenzio rotto solo dal rumore della risacca e dal frinire dei grilli. Un guaito di dolore, e i due animali morirono.

    All’interno della capanna, sul pagliericcio troppo grande e duro, Matteo si svegliò di soprassalto spalancando gli occhi nel buio assoluto. Nei suoi sogni aveva vissuto l’incubo di un'ombra che lo inseguiva, e della sua impotenza a camminare, mentre la minaccia voleva ghermirlo; così, al guaito dei cani, gli occhi gli si aprirono di scatto, quasi lieti di lasciare il sogno. Ma l'ombra che lui aveva sognato, il suo incubo,  c'era davvero. La sua giovane mente, per qualche secondo, vacillò tra la certezza di essere sveglio e il sospetto di stare ancora nel vellutato mondo del sogno, mentre il cuore, nel petto, iniziava a battergli furiosamente.

    Khareyddyn guardava il fanciullo. Alto, con la scimitarra sguainata tenuta nella destra, pronta a colpire o a difendere; indossava abiti da marinaio, pantaloni larghi, fusciacca di seta bianca alla vita e petto nudo. Il turbante copriva i neri capelli e il viso alla maniera degli abitanti del deserto, lasciando scoperti solo gli occhi color del mare. Guardava il bambino, unico essere umano presente, mentre i suoi uomini, in silenzio, riempivano gli otri.

    Tu chi sei? chiese impaurito Matteo, raggelato dal ricordo dei racconti che i vecchi facevano per intrattenere i bambini e le famiglie; racconti che, per spaventare, parlavano di spiriti infernali, sbucati dal mare, per uccidere e rapire uomini donne e bambini. Il pirata, di rimando, guardava il bambino; non aveva mai visto un fanciullo così bello, scuro in tutti i suoi colori, capelli, pelle e occhi. Poteva tranquillamente essere un figlio d'Africa e non un Rum. Indeciso, alzò la scimitarra, pronto a troncare quella giovane vita.

    Poi, lentamente, abbassò la lama: Non c'è onore a uccidere donne e bambini disse, più per i pirati che gli stavano a tiro di voce che per se stesso. In realtà, un fanciullo sano e bello, al mercato di Tunisi, poteva valere bei soldi. Questo pensiero salvò la vita di Matteo e ne segnò il destino per il resto della sua vita.

    Dopo aver pronunciato queste parole, sorridendo tra sé per l’effetto che avrebbero fatto nel racconto dei marinai nelle bettole dei porti, e che avrebbero creato intorno a lui un alone eroico e romantico, allungò la mano sinistra e avanzò verso Matteo, abbassando la lama verso terra.

    Tu verrai con me gli disse.

    Matteo non capiva ed era impaurito. Si era seduto sul pagliericcio, cercando con la destra la fredda lama del suo coltello e, trovandola, stringendo l’arma al petto cercando il coraggio e il momento per usarla contro l’ombra che si avvicinava. Poi l’istinto ebbe la meglio, e vista la porta libera dalla figura che per afferrarlo si era scostata, con un solo balzo evitò la mano protesa ad afferrarlo e si gettò all’esterno, correndo via, senza una meta precisa. Durò poco la fuga, il tempo di vedere la sua radura occupata da molte figure intente chi a riempire botti alla sorgente, chi a catturare le capre, private ormai della protezione dei cani. Ormai il silenzio era rotto e i corsari, senza più ritenersi, seguivano gli animali, masticando parole che Matteo non conosceva.

    Si fermò attonito, a pochi passi dalla capanna, a osservare quello spettacolo che gli appariva incredibile. Respirava velocemente e guardava lo scempio del gregge, pensando scioccamente alla punizione che gli sarebbe toccata una volta tornato a Sassari. Ma quando due uomini, lasciando il loro daffare, lo circondarono per dar man forte a quello che, alle sue spalle, uscito anche lui dalla capanna, stava parlando con voce imperiosa nel suo gergo incomprensibile, si ribellò, colpendo con calci e pugni e mordendo ogni mano gli si avvicinasse. Resistette fino a che un sonoro ceffone non lo intontì. Non poteva capire le parole che, irridente, Khayr stava rivolgendo alla sua ciurma.

    Un bambino! vi fate prendere per il sedere da un bambino e credete di essere degni di far parte del mio equipaggio?

    Lo schiaffo, che aveva rintronato il fanciullo, era partito dalla sua mano sinistra.

    Al sorgere del sole, le barche dei predoni si allontanavano dalla linea di terra verso i vascelli, rimasti invisibili fino ad allora. Il carico di acqua era completo, sarebbe bastata fino a Djerba, e in più alcune capre belavano in attesa di diventare cibo per i corsari saraceni. Gli schiavi ai remi, invece, si sarebbero dovuti accontentare di un pugno di grano, a mala pena bollito, al giorno.

    Matteo vedeva ogni cosa attraverso un velo di lacrime che offuscava i suoi occhi, cercando di inghiottire il nodo che gli serrava la gola. Lo sciabordio dell’acqua intorno alla chiglia della barca ferma sulla riva e le voci aspre dei saccheggiatori facevano da accompagnamento alle sue pene.

    Quando giunsero a destinazione, una ruvida mano, dalla tolda della barca, lo prese sotto l’ascella e lo sollevò verso l’alto, senza sforzo apparente.

    Gli avevano legato le mani dietro la schiena, per portarlo fin li,  e caricato senza tanti complimenti sulla prima barca destinata a staccarsi dall’amica terra.

    L’uomo che lo aveva colpito, una volta che Matteo era stato legato, si era disinteressato di lui, come il resto dei pirati. Venne lasciato lì, sul fondo umido della barca, mezzo nudo, a tremare per l’umidità e la tensione, senza avere la forza di cercare di sollevarsi, aspettando che si compisse il suo destino. Quando venne scostato per far posto alle capre e ai barili pieni di acqua, si rattrappì in posa fetale, cercando di scomparire alla vista di tutti.

    Il rumore cadenzato dei remi, accompagnato dal ritmo del capovoga che incitava le braccia al lavoro, gli tennero la mente occupata mentre le immagini spaventose dei racconti ascoltati dai vecchi, gli stringevano il cuore in una morsa di paura per il suo destino. Il viaggio in barca era stato breve, poi venne fatto alzare, e si ritrovò su una nave che a lui parve enorme, incerto sulle gambe, davanti a un uomo alto e robusto. Oruk lo guardava incuriosito, dopo averlo sollevato come un fuscello dalla barca alla nave. Perse solo un momento, però, a guardare la nuova preda, giusto il tempo di calcolarne il valore, poi sovrintese al carico delle botti e degli animali, dimenticando il fanciullo contro la murata, dove, con le gambe molli, Matteo si accasciò seduto, scosso dai brividi.

    Il viaggio

    L’odore della stiva era eguale a quello che aleggiava per i vicoli di Sassari nelle sere estive, quando il vento non riusciva a disperdere gli odori di mille e mille uomini ammassati in stretti vicoli. Piscio e vomito, feci e paglia fradicia, il tutto condito da lamenti e pianti degli schiavi ammassati nel buio della stiva della nave, facevano compagnia al fanciullo, gettato senza tanti complimenti in quel buio ricettacolo.

    Appena separate da una incerta staccionata dalle prede umane, le capre, sistemate molto più comodamente, aggiungevano il loro aspro odore ai mille che rendevano l’aria irrespirabile. Seduto contro una paratia di legno, con il sedere sulla paglia resa umida da chissà quale disgustosa sostanza, Matteo lottava per non lasciarsi sopraffare dallo sconforto. La puzza che gli ricordava i vicoli della sua città teneva la giovane mente ancorata alla realtà, molto di più di cento voci che imprecavano o imploravano in lingue incomprensibili, come quella dei suoi rapitori.

    Dalle assi del soffitto trapelava solo una tenue luce, quella che dal ponte superiore veniva lasciata penetrare dal grande boccaporto, lasciato aperto per non far soffocare la merce prima che potesse essere venduta. Gli ori, le sete, grano e nobili (merce di più alto valore), viaggiavano sull’ammiraglia di Oruk: gli oggetti ben stivati, gli esseri umani che potevano fruttare un riscatto,  appena un poco meglio trattati.

    La nave seguiva il movimento delle onde, rollando e beccheggiando, spinta da un vento svogliato, aiutato a volte dal ritmico immergersi dei remi nell’acqua. Il rumore del tamburo che segnava il tempo di voga, con quello delle frustate, sovrastava spesso il lamento dei prigionieri.

    Il primo giorno di prigionia Matteo lo aveva trascorso chiuso nella stiva, nel più completo disinteresse degli altri compagni di sventura, troppo presi a maledire la propria sorte per preoccuparsi di chiunque altro, se non di loro stessi e, in pochissimi casi, di qualche membro della propria famiglia sventuratamente preso insieme a loro. Nelle lunghe ore in cui la luce ancora permetteva una visione passabile, Matteo aveva osservato la stiva e i suoi abitanti, con l’istinto del monello di strada che cerca una via di fuga. Così aveva individuato una coppia di sposi, sulla trentina, che stavano silenziosi e abbracciati, isolati dal mondo; due fratelli, che andavano bisbigliando, con aria sempre irata, tra loro; e un anziano, che teneva tra le braccia una bambina, sua nipote di certo. Lui guardava attorno con aria implorante, accarezzando la folta chioma della giovinetta, mentre lei, nei suoi larghi vestiti da contadinella, non si era ancora mossa e celava il volto tra le braccia del vecchio. Ogni tanto si notava un lieve sobbalzo, segno sicuro che stava singhiozzando. Per non essere anche

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