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La crepa un thriller fantastico
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La crepa un thriller fantastico
E-book199 pagine2 ore

La crepa un thriller fantastico

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Info su questo ebook

Napoli ha cavità oscure, capaci di generare paure profonde e Giona è mancato per troppo tempo da questa città per capire cosa si agita nel buio. Gli incubi che lo assalgono di notte si dissolvono col sole: sono anime sofferenti che non vogliono farsi vedere.

Un mondo perverso lo attende e lo tira giù, lo illude che possa ritrovare quanto ha smarrito. Una furia improvvisa accompagna la sua disperata ricerca, tra cunicoli infiniti, fiumi perduti e luoghi nei quali l'amore non basta a salvare.

La morte è sempre in agguato. Ma non è la cosa peggiore che possa capitare.
LinguaItaliano
Data di uscita24 feb 2014
ISBN9788890958953
La crepa un thriller fantastico

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    Anteprima del libro

    La crepa un thriller fantastico - Demetrio Salvi

    Demetrio Salvi

    LA CREPA

    un thriller fantastico

    Demetrio Salvi

    LA CREPA

    un thriller fantastico

    ISBN 978-88-909589-5-3

    prima edizione febbraio 2014

    Fotografie, illustrazioni e grafica

    Rosa D’Avino

    ©Edizioni Malebolge

    Via Trivice 55 - Napoli

    +39 081 19280022

    edizionimalebolge@gmail.com

    facebook.com/lacrepa

    facebook.com/demetriosalvi

    youtube.com/malebolge

    plus.google.com/+malebolge

    Le case sono chiese

    sono luoghi nei quali si stratificano presenze,

    corpi, movimenti, odori, particelle minute

    che rimarranno lì, negli angoli,

    nascoste dietro ai mobili, per secoli,

    forse per sempre.

    Entrare in una casa vuota è una sorta di profanazione.

    Se non c’è il proprietario o l’inquilino che l’ha abitata per lungo tempo,

    se si entra di soppiatto per rubare o solo per curiosare,

    non si fa altro che procedere a una tremenda profanazione.

    È ciò che ho fatto io quando sono entrato in quella casa.

    Ma, allora, queste cose non le sapevo.

    Le ho capite col tempo.

    Come una malattia che ti si attacca e che non accetti,

    io non ho voluto sapere

    e non ho voluto capire nulla di quello che stavo vivendo

    e mai avrei immaginato come si sarebbero messe le cose,

    come sarebbe andata a finire.

    Accade sempre quando inizi a scrivere una storia:

    non sei consapevole ma stai raccontando

    e mettendo assieme le caratteristiche di un malessere

    che, talvolta, è, fatalmente

    e semplicemente, mortale.

    La città di sopra

    IL BAMBINO

    Prima notte

    M’ha svegliato un rumore sottile. Forse me lo sono sognato. E il cuore batte come un martello. Tum-tum, tum-tum, e non mi lascia dormire, riprendere questo sonno agitato che non m’abbandona da giorni. Una paura innaturale circola nelle mie vene e non ne capisco il motivo anche se, improvvisamente, per un attimo, smetto di respirare e ho la sensazione che qualcosa aliti nella mia stanza. Deve essere uno spiffero d’aria che scivola sotto l’anta della porta e attraversa questo basso nel quale sono rinchiuso e che m’ostino a chiamare casa. Respiro a fatica, in modo irregolare; stavo dormendo e qualcosa m’ha svegliato. Non sono venuto fuori da un incubo, ci sto cadendo dentro. C’è qualcuno nella mia stanza. Pensiero immotivato. Qualcuno è vicino a me e, nel buio assoluto, non posso vederlo e non voglio sentirlo. Sarebbe atroce percepire un respiro non mio.

    Potrei accendere la luce ma è l’ultima cosa che voglio fare: io non voglio vedere NULLA. Mi sono svegliato con un sobbalzo, come se mi stessi strozzando, e, per un attimo, non ho riconosciuto il posto, il letto. Dove sono? Ora lo so.

    Cerco di riprendermi, di mettere ordine tra i miei pensieri. Devo partire da ieri sera, da quello che ho fatto ieri sera, devo ricordare se ho chiuso bene la porta, se ho messo i fermi alle finestre. Maledizione, vivo in un basso! Sono sulla strada. Apro la porta e sono sulla strada. Niente scale, niente corridoi. Solo una stanza che dà sulla strada. Magari è entrato un cane, un cane randagio, un maledetto essere randagio, che io spero sia un cane, ma anche se fosse uno stupido cane, comunque morirei di paura. E poi, e poi, perché non guaisce, perché non abbaia, perché non ansima? Non può essere un cane. Che idiota! Potrebbe essere un topo. Se un topo ti azzanna ti uccide. Ti infetta e tu ti ammali e, poi, soffri e, poi, muori. Se ora, per un attimo, non respiro, sono sicuro che sentirò un altro respiro e se questo succede io impazzisco.

    Sono paralizzato da un po’. Ho provato anche a non respirare ma non sento niente. C’è il mio respiro e basta, non c’è altro.

    Ecco, ecco. Ancora una volta. Ho sentito qualcosa strisciare! Non posso sbagliarmi. Se ne avessi il coraggio, allungherei il braccio, afferrerei la cornetta, comporrei il numero e chiamerei la polizia. La polizia. Verrebbe la polizia a casa mia? Se dico che c’è qualcuno in casa, che ho beccato qualcuno in casa, la polizia viene. Ma se questo qualcuno mi sente, scopre che sono sveglio, finisce che mi uccide, che mi colpisce con un’accetta. In Delitto e castigo, il giovane uccide la vecchia con l’accetta e io, quella scena, me la sono impressa bene nella mente, si è stampata così forte nel cervello, che non posso fare altro che pensarci e ci penso anche adesso, quando un assassino sta scivolando sul pavimento e viene verso di me e sta per uccidermi. Ma io cosa ho fatto di male? Niente, io non ho fatto niente e questa è solo una terribile sensazione che sto vivendo. Forse sono rumori normali, un’eco di qualcosa che è lontanissima e che a me pare un’inquietante entità che scivola sul pavimento. Sì, deve essere così e, mentre allungo la mano, non mi succede niente, ecco, vedi?, io allungo la mano e non mi succede niente. La agito nel buio davanti a me e non mi succede niente. Afferro la cornetta del telefono e non mi succede niente. Compongo il numero. Polizia? Polizia? Sì. Sono Giona Michetti… abito in Via del Carmelo 23. C’è qualcuno in casa, sì, è per questo che parlo a bassa voce. Forse è un ladro, non lo so. Sento… qualcosa che scivola sul pavimento… sì, scivola, struscia, non so… Mandate subito qualcuno? Vi ringrazio. Io aspetto qui. Non possiamo continuare a parlare mentre mandate qualcuno? Ah, ho capito…

    Mentre due poliziotti girano per il mio minuscolo appartamento, il commissario continua a guardarmi e a sorridermi. Rigira tra le labbra una sigaretta spenta da poco.

    Quando hanno finito di perquisire, lui, che per tutto il tempo è rimasto in silenzio, con le mani nelle tasche del cappotto grigio, mi chiede se sono forestiero.

    Abito qui da poco… Però sono napoletano. Ho vissuto gli ultimi quindici anni a Pescara…

    E perché è ritornato, signor Michetti?

    Mi sono separato…

    Ah.

    Sì, ma… di comune accordo…

    Lei la tradiva?

    Mia moglie?

    No, dico lei, lei!

    Ah. No. Per niente. Non eravamo d’accordo su di un punto: lei voleva dei figli, io no.

    Se n’è andato solo per questo?

    No. Lei… ha iniziato a frequentare altre persone.

    Capisco.

    Faccio un sorrisetto ebete. Cos’avrà capito questo tizio, questo ispettore, questo poliziotto che, invece di aiutarmi, cerca di ficcare il naso negli affari miei?

    E la casa?

    Era dei miei nonni.

    Ah, quei due erano suoi nonni.

    Sì… da parte di madre. Perché?

    Lo sa che vendevano sigarette di contrabbando?

    Ah faccio io. No, non lo sapevo. È vero: non lo sapevo. Che figura di merda! I miei nonni erano contrabbandieri! Ecco perché mio padre non li sopportava e non ci andava d’accordo!

    Non mi piace la sua famiglia, glielo dico francamente.

    Ma io faccio l’insegnante…

    Dove insegna?

    Alla Giovanni Verga.

    Cos’è? Un liceo?

    No. È una scuola elementare.

    Ma allora lei è un maestro!

    Sì, e allora? Questo mi sta sulle scatole e, se penso che dovrebbe difendermi, mi viene la pelle d’oca. Comunque cerco di essere educato: Sono un maestro, ma sono laureato…

    In cosa è laureato?

    Cavolo, non me ne fa passare una! Comunque dico: In Lettere.

    Questa volta è lui a fare un sorrisetto.

    Signor Michetti, a casa sua non c’è nulla. Avrà sognato qualcosa… Avrà avuto un incubo. Oppure sono i rumori di una vecchia casa… da quanto tempo è qui, a Napoli?

    Da quattro mesi.

    Ecco, vede, troppo poco tempo. Questa è una città… vecchia, molto vecchia. Ci vuole tempo per capirla. Torni a dormire e cerchi di stare calmo. Il quartiere è infuocato. Ci sono troppe cose da tenere sotto controllo. Il male si annida dappertutto. Lei è una brava persona, ne sono convinto, ma, talvolta, anche le brave persone danno da fare… Torni a dormire. Non si inquieti più!

    Prima di uscire il commissario mi guarda per un’ultima volta. Mi lancia un sorrisetto d’intesa, forse ironico. Allora mi rimetto a letto, ma vestito, completamente vestito.

    Seconda notte

    Sono le due. Una giornata vissuta come un automa, un rimbambito fatto di sonno e, ora, non dormo. I miei occhi sono sbarrati, ma cerco di non muoverli. Perché, se mi guardo intorno e, nel buio più fitto, vedo qualcosa muoversi, io muoio. Dio, diosanto. Sento un fruscio. Sono sicuro d’aver sentito un fruscio. Qualcosa si è mosso. Ho avvertito come un sottile alito che mi accarezzava il viso. È un soffio di vento diabolico, lo so. E, se chiamo qualcuno, dirà che me lo sono solo immaginato, perché, in presenza di altri, quello scappa, fugge, si rintana negli inferi. Io non sono pazzo, lo so. La paura mi assale, ma, se riesco a starmene ancora un po’ fermo, sono certo che passa tutto, che non sentirò più nulla, che riprenderò a stare bene. C’è stato un tempo in cui non avevo nessuna paura, dormivo come un sasso. Mi bastava aprire un libro e, dopo due minuti, il volume mi cadeva sulla faccia; allora spegnevo la luce e, dopo un po’, ricadevo in un sonno profondo che tutti m’invidiavano, a partire dalla mia ex-moglie, che aveva un sonno leggerissimo.

    Mi dico queste cose ma non riesco a distrarmi. Cerco di convincermi che, è vero, sono io a inventarmi i rumori, i respiri; è questa casa, che conosco da troppo poco tempo, a non darmi pace. Scherzo, se parlo dello spirito della casa. Sono terrorizzato, perché ho la sensazione che, in questo buio assoluto, ci sia qualcuno che mi guarda e io non so che fare. Oppure lo so, lo so fin troppo bene e fra poco lo farò. Con uno scatto, afferrerò la cornetta e chiamerò la polizia. Perché non dovrei farlo? Sono un cittadino e pago le tasse. Tutti possono farlo quando vogliono, perché io non dovrei?

    Qualcosa ha toccato il letto. La coperta è stata tirata leggermente da una parte. Cos’altro posso fare?

    Il commissario mi fissa.

    Dico: Lei non mi crede. Lo so.

    Perché, lei al mio posto?

    No, non le crederei neppure io. Immagino.

    Cosa vuole che facciamo?

    Non avete trovato niente…

    Niente. E le porte erano ben chiuse.

    E dietro ai mobili…

    Solo crepe.

    Questa parola mi mette paura: crepa. Si porta dentro qualcosa di terribile. Che banalità mi dico, eh? E come faccio a trattenere questi qui? Come faccio a convincerli a rimanere ancora un po’? Basterebbe che sorgesse il sole… che la luce esterna… Altrimenti, vabbe’, ho deciso: rimango sveglio. Questi se ne vanno e io resto con la luce accesa. Apro la porta.

    Stasera, co’ ’sto gelo…

    Perché l’ha detto? Perché ha detto che fa freddo? Ma me ne frego. Rimango con la porta aperta, con la finestra spalancata e la luce accesa. Accendo la televisione, mi metto a cantare e a ballare. Porca miseria. Mi metto a urlare. I poliziotti mi guardano con una faccia… Faccio la figura dell’imbecille. Oppure pensano che li voglia fregare, che voglia far perdere loro tempo prezioso, mentre un mio compare svaligia qualche casa. Risucchio le poche forze dei carabinieri, della polizia, in questa città malvagia. Perché sono tornato qui?

    Avrò dormito un’ora, un’ora e mezzo. Devo essermi assopito verso le cinque. Uno stereo che suonava da qualche parte, un film porno a casa di un ubriaco che s’è addormentato davanti al televisore. Quelli della volante sono tornati per spegnere la tv dello spostato. Questo trambusto mi ha fatto compagnia e mi ha rassicurato, così sono riuscito a prendere sonno. In classe, però, gli alunni hanno capito tutto. Sono vivaci e rumorosi e spesso insopportabili. Ora vorrei dormire, anche davanti a loro lo farei: mi distenderei sulla cattedra e mi appisolerei e ho dei microsecondi in cui veramente mi addormento; per un attimo chiudo gli occhi e abbasso il capo, poi, subito dopo, scatto come una molla e spero che nessuno se ne sia accorto. Mario è il più vispo, è quello che mi tormenta, quello che mi obbliga a chiedermi continuamente cosa dovrei fare per lui, perché per lui dovrei fare veramente qualcosa. Il padre è in galera per un paio di morti sulla coscienza e per associazione a delinquere di stampo camorristico. Il padre è un criminale e lui viene a scuola per torturarmi, perché proprio non so cosa fare, cosa dirgli. Gli ho fatto riempire un questionario e, alla domanda cosa ne pensi della camorra, ha risposto mi piace. Vive dentro quel sistema e, per lui, il meccanismo è chiaro e ben oliato, che posso fare io? Convincerlo che la verità è altrove? Dargli un buon esempio di retta via da seguire? Ne sono capace? Io, che qualche volta faccio un bel tratto contromano e qualche altra compro dvd e cd contraffatti? Non sono un santo neanch’io. Certo, non sono un delinquente come il padre, ma che facciamo? Ci mettiamo a contare i punti di differenza? Non si fa così, non si fa così.

    Allora, tanto per cambiare, oggi urlo un po’ e faccio tremare tutti, ma proprio tutti, Mario compreso, che dice sempre che sono un bravo maestro, ma che quando m’incazzo divento una iena. Ha scritto così, in un compito.

    All’uscita di scuola mi fermo a comprare un po’ di frutta e un fastidioso ronzio che domina i miei pensieri non m’abbandona nemmeno per un attimo. Mentre cerco di aprire la porta, impicciato come sono, con la busta della spesa, la borsa, le chiavi − le chiavi che sono sempre nella tasca più scomoda da raggiungere, nella tasca sbagliata −, vedo una vecchina che mi sorride soddisfatta. La vedo affacciata alla finestra del suo basso, di fronte al mio, ma un po’ più distante. Non l’ho mai vista prima, ma io non guardo mai nessuno. Questo quartiere non mi piace e non mi piacciono le persone che ci vivono. Troppo difficile giudicarle, però non mi piacciono.

    La vecchina continua a sorridermi e forse anch’io, quasi senza accorgermene, le lancio un mezzo sorriso che lei deve aver colto, perché adesso è ancora più allegra. Tutto sommato, nonostante l’età, può farmi comodo avere un vicino che possa chiamare, dal quale possa farmi aiutare. Vabbe’, le sorrido un’ultima volta, prima di chiudere la porta alle mie spalle.

    Terza notte

    Buongiorno. Mi ha detto buongiorno, ma nel suo dialetto incorrotto. Che poi è anche il mio, ma così stretto, non riesco nemmeno a ripetermelo. Mi ha sorriso. Io, invece, ho l’aria sconvolta; terribili occhiaie che mi devastano il viso, lo sguardo disperato e truce, la barba incolta e strane striature che il cuscino mi stampa sulle guance, quando mi obbligo a dormire.

    La vecchia è lì, davanti a me. Quasi non mi lascia passare.

    Devi dormire. All’età toja avisse durmì ’e cchiù. Non devi passare tutte le notti sveglio.

    È un brutto periodo.

    Ma che lavoro fai?

    Sono un maestro.

    E i maestri nun dormono ’e notte?

    Sì, i maestri dormono la notte.

    Ma stai preoccupato, è ovèro?

    Sì. Ho un po’ di fretta.

    Vai a fare colazione ’o bar, ’o saccio. Ce vai ogni matina.

    Già.

    Sono cose che fanno male.

    Ha ragione.

    Va buono. Passa ’na bona jurnata.

    Sì.

    La vecchina si mette a spazzare davanti casa

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