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Mi chiamo Elizabeth e sono un'assassina
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Mi chiamo Elizabeth e sono un'assassina
E-book396 pagine5 ore

Mi chiamo Elizabeth e sono un'assassina

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Info su questo ebook

«Non è semplicemente un thriller avvincente, questo libro ti scava dentro.»

Mi chiamo Elizabeth e sono un’assassina. Ho sognato spesso di pronunciare queste parole ad alta voce. Sarebbe un sollievo riuscire a liberarmi del peso che mi tormenta ogni notte. Ogni giorno. Ogni secondo della mia vita. Ma i segreti hanno un modo sottile di controllarti, di plasmarti e, alla fine, di cambiare per sempre la persona che credevi di essere. Più a lungo tieni un segreto e più distrugge la tua anima. Nessuno potrà mai condividere con te quella disperazione. Chi mai potrebbe capire? Nessuno immagina che dietro la madre amorevole, la moglie affettuosa e il brillante avvocato c’è una donna con un segreto terribile. Un segreto che potrebbe mettere in pericolo tutto ciò che amo. Ho paura che la vita che ho costruito possa essere distrutta. Mi terrorizza affrontare le conseguenze delle mie azioni. No, non posso dirlo a nessuno. Devo rimanere l’unica custode della verità. Nessuno può sapere che io, Elizabeth, sono un’assassina.

Una madre. Una moglie. Un’assassina.

«Un thriller intenso, con una storia che cattura fino all’ultima pagina. Fantastico!»

«Uno sviluppo del personaggio magistrale. Raramente un libro sa addentrarsi così a fondo nella psicologia umana.»

Cynthia Clark
è nata e cresciuta a Malta, dove si è laureata in Comunicazione e ha lavorato per un quotidiano, prima di trasferirsi negli Stati Uniti, dove ha collaborato con diverse riviste economiche online. Vive a Londra con il marito e le loro due gemelle. Mi chiamo Elizabeth e sono un’assassina è il primo libro pubblicato dalla Newton Compton.
LinguaItaliano
Data di uscita12 mar 2019
ISBN9788822733054
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    Anteprima del libro

    Mi chiamo Elizabeth e sono un'assassina - Cynthia Clark

    2247

    Copertina © Sebastiano Barcaroli

    Titolo originale: If You Only Knew

    Copyright © Cynthia Clark, 2017

    Traduzione dall’inglese di Micol Cerato

    Prima edizione ebook: maggio 2019

    © 2019 Newton Compton editori s.r.l., Roma

    ISBN 978-88-227-3305-4

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Librofficina

    Cynthia Clark

    Mi chiamo Elizabeth e sono un’assassina

    Indice

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    Capitolo 5

    Capitolo 6

    Capitolo 7

    Capitolo 8

    Capitolo 9

    Capitolo 10

    Capitolo 11

    Capitolo 12

    Capitolo 13

    Capitolo 14

    Capitolo 15

    Capitolo 16

    Capitolo 17

    Capitolo 18

    Capitolo 19

    Capitolo 20

    Capitolo 21

    Capitolo 22

    Capitolo 23

    Capitolo 24

    Capitolo 25

    Capitolo 26

    Capitolo 27

    Capitolo 28

    Capitolo 29

    Capitolo 30

    Capitolo 31

    Capitolo 32

    Capitolo 33

    Capitolo 34

    Capitolo 35

    Capitolo 36

    Capitolo 37

    Capitolo 38

    Capitolo 39

    Capitolo 40

    Capitolo 41

    Capitolo 42

    Capitolo 43

    Capitolo 44

    Capitolo 45

    Capitolo 46

    Epilogo

    Ringraziamenti

    A J

    Ciao, mi chiamo Elizabeth e sono un’assassina.

    Ho sognato di pronunciare queste parole. Ho sempre pensato che sarebbe stato un sollievo dirle finalmente ad alta voce, smettere di occultare il segreto che mi tormenta ogni singola notte. Ogni singolo giorno. Ogni singolo istante della mia esistenza.

    Vedete, i segreti hanno il potere di reprimere la tua identità, di farti sentire soffocata, come se non fossi più te stessa. E più a lungo li tieni, più ti schiacciano l’anima, facendoti venire voglia di urlare, graffiarti la pelle, strapparti i capelli. È la disperazione di essere sola, di sapere che non potrai parlarne ad anima viva, non potrai condividere il tuo segreto con nessun altro, né lasciare che qualcuno ti aiuti a portare il fardello. Perché, dopotutto, chi potrebbe capire? Sai che ti vedrebbero soltanto come un mostro. So che è quello che la gente penserebbe di me, se mai mi azzardassi a dirlo.

    Perché non importa per quale ragione ho fatto ciò che ho fatto. Il nocciolo della questione è che ho tolto una vita. E quella vita apparteneva al figlio, al vicino, all’amico di qualcuno.

    Ho riflettuto sulla possibilità di confessarlo ad almeno una persona. Sondare il terreno e sperare nella sua comprensione. In un paio di occasioni ci sono andata vicino. Ma, alla fine, la paura ha sempre avuto il sopravvento e sono tornata sui miei passi, il proposito di condividere il mio più intimo e oscuro segreto scosso nel profondo. Ho troppa paura di distruggere la vita che mi sono costruita. Mi terrorizza il pensiero di dover affrontare le conseguenze delle mie azioni, compiute nella foga del momento.

    No, non posso dirlo a nessuno. Devo rimanere l’unica custode della verità. La mia realtà spaventosa. Nessuno può sapere che io, Elizabeth, sono un’assassina.

    Capitolo 1

    2014

    Sto ripulendo la cucina dagli avanzi della colazione quando il mio telefono di lavoro squilla, facendomi fermare di scatto. Vedo il nome della mia assistente lampeggiare sullo schermo.

    «Ciao Jennifer, che succede?»

    «C’è questa ragazza». La sua voce giunge trafelata. «Finirà massacrata dall’accusa se non accetti di occuparti del suo caso».

    Stringendo il telefono tra l’orecchio e la spalla, sciacquo via i Coco Pops da una scodella di cereali. Non c’è tempo da perdere, sono già in ritardo. «Okay, ti ascolto».

    «Sono arrivata presto per depositare i documenti del caso Preston. Stavo aspettando l’arrivo dell’impiegato quando ho sentito Sarah, l’avvocato d’ufficio, parlare di questo caso».

    Jennifer si interrompe per respirare.

    «Quindi, di cosa si tratta?», la incalzo.

    «C’è questa ragazza, Chloe. Ha quindici anni e l’accusano di tentato omicidio».

    «Che cosa ha fatto?». Spostando il telefono all’altro orecchio continuo a pulire, e intanto la incito mentalmente a raccontarmi la storia per intero invece di darmi brandelli di informazioni.

    «Ha investito un tizio ed è scappata». La sua voce è pervasa di eccitazione.

    «Un momento, che cosa ci faceva al volante? Non hai detto che ha solo quindici anni?»

    «Sì, è così. È salita in auto e l’ha investito in retromarcia».

    «Come ha ottenuto le chiavi? Gliele ha rubate?»

    «Non ne sono sicura…». La voce di Jennifer si spegne.

    «D’accordo, possiamo scoprirlo più avanti. Lui è ferito?»

    «Oh sì». Di colpo si rianima. «È ancora in ospedale. Ha entrambe le gambe rotte, un paio di costole fratturate, un polmone perforato e una grave emorragia interna. I dottori non sanno se riprenderà mai a camminare».

    «Ahia». Faccio una smorfia e rabbrividisco, cercando di togliermi dalla testa l’immagine del corpo ferito di questo sconosciuto.

    «Sarah ha suggerito di parlarti del caso, vedere se avevi tempo di occupartene», prosegue Jennifer.

    Inspirando a fondo, rifletto sulla mia attuale mole di lavoro. «Non lo so. Sai quanto sono impegnata al momento».

    «Sì, ma cerchi sempre di aiutare le giovani donne, le ragazze che non hanno nessun altro a cui rivolgersi. Ed è qualche mese che non prendi un caso pro bono».

    Jennifer ha ragione. I casi in cui l’accusata ha una storia difficile, quelli da cui gli altri fuggirebbero a gambe levate, mi toccano sempre e mi stimolano a fare del mio meglio.

    «Sei ancora lì?»

    «Sì, sì», rispondo in fretta, tornando alla realtà. «Non lo so. È un’omissione di soccorso. Vale la pena?»

    «Be’, non è il tipico caso di cui tendi a occuparti. Ma il fatto che non sia una vittima di violenza non significa che non meriti una difesa solida. E sai quanto sono impegnati gli avvocati d’ufficio», insiste. «Sarah sta seguendo altri diciotto processi. Non avrebbe tempo di difenderla come si deve. La ragazza è spacciata».

    C’è qualcosa che non torna in questa descrizione del caso. Dentro di me una vocina consiglia di non perdere tempo, di passare oltre. «I suoi genitori non possono trovarle un buon legale?»

    «Non lo so, ma se è stata mandata da un difensore d’ufficio probabilmente non ha altra scelta. Presumo».

    Nonostante le mie riserve, sono intrigata. «Puoi chiedere a Sarah il fascicolo del caso?»

    «Te ne ho già preso una copia. La troverai sulla scrivania appena arrivi». Sul mio volto si allarga un sorriso. Gli straordinari talenti organizzativi di Jennifer mi permettono di concentrarmi su ciò che conta davvero: difendere i clienti.

    Jennifer riattacca e io continuo a pulire la cucina. Questa mattina c’è stato il solito delirio mentre vestivo i miei due bambini, preparavo loro il pranzo e controllavo che finissero la colazione. Come ogni giorno mio marito è uscito per primo, lasciandomi ad affrontare il disastro della nostra convulsa routine mattutina. «Devo andare», ha detto. «Voglio evitare il traffico».

    «Lo dici tutti i giorni e rimani sempre imbottigliato», ho risposto, scuotendo la testa mentre guardavo il disordine.

    «Questa è la volta buona. Me lo sento», ha ribattuto, baciandomi sulla guancia prima di sfrecciare fuori. Il suo ottimismo è ammirevole, ma sarebbe bello se ogni tanto mi desse una mano a pulire. Ancora non riesco a capire perché insiste per andare al lavoro in auto invece di prendere la metro. Gli farebbe senz’altro risparmiare del tempo, per non parlare dello stress di restare bloccato nel traffico. Ma del resto, anche io mi rifiuto di fare come buona parte dei londinesi, che utilizzano i trasporti pubblici. Guidare mi dà il tempo di pensare, la possibilità di saltare in auto e andarmene ogni volta che ne ho bisogno. E odio stare a stretto contatto con tutta quella gente, pigiata contro il lato della vettura durante l’ora di punta.

    La lavastoviglie borbotta, indicando l’inizio del ciclo di lavaggio. Mentre mi volto per uscire, la vivace tazza di Peppa Pig di mia figlia attira la mia attenzione. Sporgendomi sull’isola della cucina ne afferro il beccuccio rosa ma, quando lo faccio, il coperchio si stacca e rovescia succo di mirtillo rosso sulla superficie bianca.

    Un grido soffocato mi sfugge prima che possa fermarlo e in fretta chiudo gli occhi, il corpo scosso dai tremiti. Posando il coperchio della tazza, mi aggrappo forte al piano per farmi forza. Odio il colore rosso. Lo detesto così tanto che sono capace di tutto pur di non vederlo. Per anni ho evitato qualunque cibo rosso. La mia dieta non contemplava fragole, barbabietole o pomodori. E la carne doveva essere ben cotta, le bistecche strinate fino ad asciugare ogni goccia di sangue. Era l’unico modo in cui potessi mangiarle. Mio marito sa che questa avversione è legata alla mia paura del sangue, ma ho lasciato che lui, come chiunque altro venga a conoscenza del mio odio, la ritenga una conseguenza di quando, da ragazzina, ho visto un cane morire dopo essere stato investito da un’auto fuori dalla scuola. Non possono certo immaginare che sia stato un altro episodio cruento, soltanto un paio di anni più tardi, a consolidare l’avversione per qualunque cosa mi ricordi il sangue.

    Capitolo 2

    Quindici anni prima

    Era cominciato come un giorno qualunque. Mi ero svegliata tardi ed ero corsa a lezione in pigiama. Be’, non che qualcuno dovesse saperlo. Di visibile c’erano solo i miei pantaloni di flanella neri, incastrati nelle Dr. Martens. Mi ero infilata un maglione di lana sulla canottiera e avevo legato i capelli rossi in uno chignon mentre correvo dalla mia stanza nella casa dello studente verso l’aula universitaria, con la borsa che ballonzolava sulle spalle.

    Ero arrivata giusto in tempo, trafelata, rimproverandomi per non avere di nuovo sentito la sveglia. Stava diventando un’abitudine e non c’era più mia mamma a controllare che mi fossi alzata. Ero tutta sola nella mia stanzetta.

    I mercoledì erano giorni leggeri. Avevo solo tre lezioni al mattino. Questo non significava che potessi tornare a dormire, però. Al contrario, dovevo andare in bici fino a Chesterton, dove avrei trascorso il resto del pomeriggio e della sera a riempire gli scaffali del supermercato. Quando ero stata ammessa a Cambridge, la mia prima scelta in fatto di università, i miei erano stati chiari: avrebbero pagato la quota d’iscrizione ma io avrei dovuto trovarmi un lavoro e dare una mano con le bollette. E se volevo proseguire con gli studi di Giurisprudenza, dovevo risparmiare il più possibile.

    A essere sinceri, il mio non era un lavoro stancante. Sì, significava arrampicarsi sulle scale e portare giù scatoloni, ma almeno era un’attività ripetitiva. Mentre attaccavo le etichette dei prezzi sui prodotti e li allineavo sugli scaffali potevo ascoltare la musica, o fuggire in un mondo immaginario. Il direttore mi aveva chiesto se volevo un posto alle casse ma, anche se avevo accettato di seguire il corso di preparazione, non ci tenevo a cambiare il mio turno. Mi piaceva lavorare in relativo silenzio, senza nessuno che mi infastidisse e con la possibilità di perdermi in fantasticherie, immaginando che un giorno sarei diventata un avvocato di grido e avrei guadagnato abbastanza da non dover fare gli stessi sforzi dei miei genitori.

    Perciò non fui esattamente felice quando, arrivata al supermercato, scoprii che una delle cassiere si era data malata e io avrei dovuto prendere il suo posto. Ero stanca e irritabile e non mi sentivo proprio in vena di parlare con nessuno. Ma non potevo rischiare di perdere il lavoro, così annuii soltanto e mi sedetti alla postazione, sorridendo fiaccamente agli acquirenti e replicando alle loro domande a monosillabi. Non sono mai stata brava a chiacchierare con gli sconosciuti. Non ho mai capito perché la gente si disturbi a parlare del tempo o del traffico con qualcuno di cui ignora perfino il nome. Immagino sia per questo che non sono mai riuscita a forgiare grandi amicizie. Ero sempre la solitaria che preferiva passare ore in biblioteca invece che al parco giochi. Speravo che le mie risposte brevi avrebbero dissuaso gli acquirenti dal fare conversazione, che avrebbero capito l’antifona e smesso di importunarmi. Ma era una speranza vana e, quando lasciai il supermercato alle otto di sera, mi sentivo mentalmente esausta per essere stata costretta a parlare del più e del meno per ore e ore, mentre il nastro trasportatore continuava a scorrere e il registratore di cassa suonava.

    Uscendo nell’aria frizzante di aprile, mi chiusi la cerniera della giacca e indossai i guanti. L’inverno era finito ma l’aria era ancora gelida. Dopo aver infilato i jeans negli stivali perché non s’impigliassero nella catena della bici, cominciai i quindici minuti di pedalata che mi separavano dal college. Non vedevo l’ora di tornare nella mia stanza per farmi una doccia e mettermi a letto, così decisi di prendere una scorciatoia che tagliava per il parco di Midsummer Common, seguendo i sentieri che si snodavano nel verde. In quel modo, non avrei dovuto preoc­cuparmi del traffico in senso contrario e avrei permesso al cervello di rilassarsi.

    Era una strada piacevole. Potevo inspirare il profumo dei fiori selvatici in piena fioritura invece di carburante e inquinamento. Potevo vedere le stelle che splendevano nel cielo invece della luce accecante dei fanali d’auto. Persino il lontano rumore dei treni sembrava mistico invece che minaccioso. Forse fu perché ero distratta dall’ambiente circostante che non mi accorsi del camioncino che avanzava lentamente alle mie spalle finché non fu troppo tardi. Urtò la ruota posteriore della mia bicicletta, facendomi sbandare e volare nel campo.

    Per un attimo restai sotto shock, cercando di riordinare i pensieri e di capire se avessi riportato qualche ferita grave. Dopo aver passato in rassegna ogni parte del corpo mi resi conto che stavo bene, ero solo un po’ indolenzita dalla caduta. Mentre mi affannavo a rialzarmi, vidi un uomo avvicinarsi di corsa. «Mi dispiace tantissimo». Aveva la voce segnata dalla preoccupazione. «Ti sei fatta male?». Tese una mano per aiutarmi a tornare in piedi. «Stai bene?», chiese di nuovo, e io annuii.

    «Sì», aggiunsi, in caso non potesse vedermi nel buio sempre più fitto.

    «Non ti avevo vista. Tengo le luci spente per guardare le stelle. Quando ti ho urtato probabilmente stavo fissando il cielo», spiegò. Annuendo comprensiva tornai verso la mia bicicletta, conscia del fatto che mi stesse seguendo. La raccolsi e imprecai sottovoce. La ruota anteriore era storta, il che la rendeva inutilizzabile. Avrei dovuto tornare al college a piedi e ci avrei messo un’eternità.

    «Oh no, mi dispiace», disse lui. «Ovviamente, pagherò io per aggiustarla». Feci un gran sospiro di sollievo. La bici aveva solo qualche mese e non potevo proprio permettermi una ruota nuova o la riparazione di qualunque altro danno non riuscissi a vedere al momento.

    «Senti, non puoi usarla in queste condizioni. Perché non lasci che ti accompagni a casa, e intanto parliamo di come farla mettere a posto?», chiese.

    Con il senno di poi, so che non avrei mai dovuto accettare un passaggio da uno sconosciuto. Ma era tardi e non mi andava di trascinarmi dietro una bici per tutta quella scarpinata. E il tizio sembrava abbastanza simpatico. Doveva essere un po’ più grande di me, aveva occhi verdi che splendevano sotto la luna e un sorriso tenero. Forse fu il suo bell’aspetto a farmi gettare la prudenza al vento, e così, dopo averlo guardato caricare la mia bici sul retro del camioncino, salii al posto del passeggero. L’ultima cosa che ricordo è di essermi voltata per allacciare la cintura.

    Non so quanto tempo passò prima che mi risvegliassi. L’odore di cloroformio mi bruciava ancora le narici. O almeno, ipotizzai che fosse cloroformio. Non l’avevo mai annusato prima, perciò non potevo esserne sicura. Aprendo gli occhi, mi guardai intorno. Ero distesa su un sottile materassino di gommapiuma sul pavimento di una stanza buia. L’unica luce proveniva da una minuscola lampadina appesa al soffitto. Non c’erano finestre, solo una grande porta di legno.

    Lui era seduto su una sedia, una bottiglia di birra tra le gambe e la testa reclinata sul petto, evidentemente addormentato.

    Sentivo gli arti pesanti, ma la mia mente correva nel tentativo di escogitare una via di fuga. Il cuore mi batteva fortissimo mentre il terrore cedeva il passo al desiderio bruciante di salvarmi. Avrei avuto tempo più tardi per provare paura, per incolparmi della stupida decisione di salire in auto con uno sconosciuto o persino di tagliare per il parco. Cominciai ad alzarmi e mi resi conto di avere le gambe nude. La confusione momentanea fu sostituita dal panico quando compresi che mi aveva tolto le scarpe, i jeans e persino le mutandine. Le lacrime mi punsero gli occhi mentre mi chiedevo se fossi stata stuprata e trattenevo il respiro per capire se sentivo dolore. Rendermi conto che non era così fu un sollievo istantaneo. Ma dovevo trovare una via d’uscita.

    Torcendo il collo, mi guardai intorno e individuai i miei jeans e le scarpe in fondo al materasso. Non avevo tempo di infilarli, ma non volevo correre a casa mezza nuda o scalza. Attenta a non fare rumore, strisciai verso il bordo del materasso e mi alzai in piedi, afferrando i jeans e le scarpe e stringendomeli al petto. Rimasi china, perché non volevo svegliarlo con qualche movimento improvviso, e camminai lentamente verso la porta, trattenendo il fiato e sperando che le assi del pavimento non scricchiolassero. Lo sentivo russare: respiri pesanti che si trasformavano in grugniti. Almeno stava ancora dormendo.

    Raggiunta la soglia mi raddrizzai, posai la mano guantata sulla maniglia e la girai. La pesante porta non si mosse, e mi sentii morire. Mi costrinsi a restare calma, anche se il panico cominciava a ribollirmi nel petto. Era sprangata con un grosso chiavistello di metallo, così con mani tremanti cercai di aprirlo. Si sfilò agevolmente e, miracolo, senza fare il minimo rumore. Entrò un soffio d’aria fredda. La porta dava sull’esterno. Avrei potuto uscire e correre al sicuro. Correre fino ad arrivare a casa o a una stazione di polizia.

    Un suono di vetri infranti trafisse il silenzio. La porta si richiuse con uno schianto e vidi di fronte a me la sua mano, il braccio nudo ricoperto di peli scuri. Non feci in tempo a pensare che mi afferrò con l’altra e mi girò verso di sé. «Dove credi di andare?», chiese, il volto contratto in un cipiglio orribile. Gli occhi verdi che prima mi erano sembrati così belli stavano ardendo minacciosi. Avrei voluto implorarlo di lasciarmi andare, di non farmi del male. Ma non riuscivo a pronunciare le parole. «Abbiamo qualche conto in sospeso», disse, allontanandomi dalla porta e spingendomi verso il centro della stanza con tanta forza che caddi sulla schiena. «Iniziavo a pensare che non ti saresti più svegliata», disse con un ghigno. «Stavo aspettando con molta pazienza di poterci divertire un po’». Potevo solo immaginare quale fosse la sua idea di divertimento, e anche se non l’avessi indovinato lo mise in chiaro sganciandosi la cintura. Mi guardai intorno freneticamente, cercando di individuare qualcosa da usare per difendermi. Ma persino gli stivali mi erano caduti quando mi aveva spinto. Non che le suole di gomma sarebbero servite a molto, contro di lui.

    «Ti prego, lasciami andare», lo implorai infine, consapevole di non poter fare altro. Ma anche mentre le parole lasciavano la mia bocca sapevo che non sarebbero servite a molto. Potevo leggergli in faccia quanto fosse determinato a concludere ciò che aveva iniziato. Rise in risposta, uno sbuffo crudele, e si avvicinò di un passo. Io mi tirai indietro, cercando di allontanarmi il più possibile, dimenticando l’imbarazzo che mi provocava essere seminuda di fronte a un uomo. Volevo solo scappare. Chiudere gli occhi e svegliarmi da quell’incubo.

    Ma non era un sogno. Era la realtà.

    Lui rise di nuovo e fece un altro passo nella mia direzione, ergendosi minaccioso sopra di me. Mi afferrò per il cappuccio della giacca e mi tirò verso il materasso, prima di inginocchiarsi al mio fianco. Io scalciai, cercando di colpirlo, ma era troppo lontano. Rise dei miei vani sforzi, poi la sua espressione si fece rabbiosa e mi schiaffeggiò con forza sul viso. D’istinto mi coprii la guancia dolorante con la mano, ma lui me la staccò dal volto. «Farai la brava?», chiese.

    Mi afferrò la cerniera della giacca e l’abbassò con uno strattone. Era una giacca vecchia e la cerniera tendeva a incepparsi, costringendomi ad armeggiare qualche secondo per liberarla. Ma in quel caso scivolò giù senza problemi. «Toglila», ordinò. Quando esitai mi colpì di nuovo, sull’altra guancia, un ceffone così forte che mi fece girare la testa. «Togliti la giacca», ripeté, e questa volta feci ciò che chiedeva, vergognandomi di eseguire i suoi ordini, anche se non avevo scelta. «Brava ragazza», disse quando l’ebbi posata al mio fianco. Il suo atteggiamento era cambiato, adesso che gli stavo ubbidendo. Mi posò una mano sulla guancia e con delicatezza accarezzò la carne bruciante per qualche secondo.

    Si accucciò sui talloni. «Sbottonati la camicia», fu l’ordine successivo. Quando non eseguii all’istante, una maschera di rabbia calò sul suo volto. «Ho detto di sbottonarti la camicia», sbottò.

    Con dita tremanti, armeggiai con il primo bottone della mia camicia di flanella. Tremavo così tanto che ci misi un secolo a sfilarlo dall’asola, anche perché i guanti di pelle non aiutavano, ma ero troppo scioccata per toglierli. «Sbrigati», latrò lui, gli occhi verdi accesi di rabbia. Riuscii a sganciare altri due bottoni, ma il successivo non voleva saperne di aprirsi. Implorante, incontrai i suoi occhi. Fu un errore. La sua mano scattò, afferrandomi la mascella e stringendo la presa fino a strapparmi un gemito di dolore. «Fa’ come ti dico», disse. Poi, stanco di aspettare, mi strappò la camicia, spargendo i bottoncini di madreperla per tutta la stanza. «Toglila», disse. E io me la scrollai di dosso, sapendo di non avere scelta se volevo sperare di uscire viva da quel posto.

    Lui me la strappò dalle mani prima che potessi posarla. Mi ghermì il petto, lacerando il reggiseno sportivo di pizzo e lasciandomi del tutto nuda ed esposta. Incrociai le braccia, cercando di coprirmi i seni, cosciente di quanto quel gesto fosse ridicolo anche prima di sentire la sua risata sinistra. «Adesso divertiamoci un po’», disse, spingendomi di nuovo sul materasso e chinandosi su di me. Io cercai di allontanarlo, ma lui mi afferrò i polsi e me li bloccò sopra la testa, tenendoli fermi con una mano mentre si abbassava la cerniera con l’altra. Gli sferrai un calcio ma rise di nuovo, prima di schiaffeggiarmi la guancia. In quel momento compresi che non avevo alcuna possibilità di evitare ciò che stava per accadere e chiusi gli occhi per un istante, cercando di distanziarmi da quell’orrore.

    Sentii il suo respiro pesante sul volto e poi il dolore bruciante del suo primo tentativo di penetrazione. Urlai, e lui rise. «Questo è il mio giorno fortunato», disse, sfondando la resistenza della mia verginità. Grosse lacrime mi si formarono sulle ciglia e scivolarono lungo le tempie. Tenni gli occhi chiusi, sperando che finisse. Tentai di pensare a qualcos’altro e di non ascoltare i suoi grugniti mentre continuava a spingersi dentro di me in un incubo senza fine. Finalmente, dopo quelle che sembrarono ore, si immobilizzò per un istante e poi si ritrasse dal mio corpo, rimettendosi in ginocchio. «Vedi», disse, lasciandomi andare i polsi. «Non è stato così terribile». Si rialzò in piedi prima di aggiungere: «La prossima volta sarà anche meglio». Il panico divampò nel mio petto come un incendio, mentre le speranze che mi lasciasse andare adesso che aveva soddisfatto il suo appetito venivano distrutte.

    Vergognandomi della mia nudità, mi tirai su a sedere e portai le ginocchia al mento per coprirmi quanto più possibile. Lui andò in fondo alla stanza e mi lanciò una manciata di tovaglioli di carta appallottolati. «Pulisciti», disse. Io li raccolsi e mi asciugai il sangue appiccicaticcio tra le gambe. «Una verginella», ridacchiò lui. «Chi l’avrebbe detto!».

    Si voltò a prendere la giacca, che era appesa allo schienale della sedia, e frugò nelle tasche. Il mio respiro si fece pesante mentre mi chiedevo cosa stesse cercando, che cosa avesse in serbo per me, e quasi sospirai di sollievo quando tirò fuori il cellulare. Tornando a guardarmi, compose un numero.

    «Ehi, Terry», disse con voce roca. Era la mia occasione. «Aiuto», gridai il più forte possibile. Ma invece di correre a zittirmi o riattaccare, l’uomo si limitò a ridere. «Sì, è lei», disse alla persona all’altro capo della linea. «Ne abbiamo una bella grintosa. Una verginella».

    Venne verso di me, coprendo la breve distanza in tre lunghe falcate. I suoi occhi non lasciarono mai il mio volto mentre si chinava a raccogliere la mia giacca. Incastrandosi il telefono tra l’orecchio e la spalla, rovistò nelle tasche fino a trovare il mio portafogli. Lo aprì e cominciò a frugare tra gli scomparti, fino a pescare qualcosa.

    «Vediamo», disse, avvicinandosi al viso la mia tessera della biblioteca. «Elizabeth Phillips», lesse ad alta voce. «È infuocata come i suoi capelli. Voglio godermela con calma. Ti richiamo quando ho finito, così potrai venire». Poi riattaccò, gettando a terra la tessera e il portafogli, posò il telefono sulla sedia e tornò verso il materasso.

    Rimase in piedi di fronte a me a fissarmi con un sogghigno disumano, notando la mia vergogna e la mia sottomissione senza alcuna pietà. Non so quanto tempo passò. Per un po’ nessuno dei due disse nulla, ma io stavo pensando freneticamente. Qualcun altro sapeva che ero qui. Doveva sapere anche quello che mi stava facendo. Perché ci avrebbe raggiunti? Per portarmi via o per continuare ciò che lui aveva iniziato? O fare persino qualcosa di peggio? Dovevo trovare un modo per andarmene prima di ritrovarmi da sola contro due uomini. Cercai il coraggio per parlare, per tentare di convincerlo a lasciarmi andare. «Ti prego, domattina ho lezione», lo implorai.

    Lui sbuffò divertito e si avvicinò. A quel punto compresi che non avrei dovuto dire nulla. Ero solo riuscita a eccitarlo di nuovo. Sapevo cosa stava per accadere e sapevo che non c’era via d’uscita. Eppure, lo schiaffo mi prese alla sprovvista. «Questo ti insegnerà a stare zitta», disse. «Sei la mia puttanella, adesso».

    Mentre ero ancora scioccata dal dolore alla guancia, mi spinse con la schiena sul materasso, costringendomi a divaricare le gambe e inginocchiandosi nel mezzo. «Non pensavo che sarei stato pronto di nuovo così in fretta», disse. «Sei la migliore che abbia mai avuto». Compresi allora che era ancora peggio di quanto pensassi. Non era la prima volta che rapiva e stuprava una ragazza. Quel tipo era un professionista. Dal cloroformio alla stanza senza finestre, doveva aver pianificato tutto con cura. Mi domandai quante altre ce ne fossero state e dove fossero finite. Quanto le teneva prigioniere, ed erano mai riuscite a scappare?

    Mi chiesi se mi avrebbe uccisa. Immaginai i miei genitori che aprivano la porta e si trovavano di fronte dei poliziotti che dicevano di aver trovato il corpo della loro unica figlia. Il pensiero di quanto avrebbero sofferto fu troppo, per me. Con quanta più forza possibile gli sferrai un pugno alla testa, ma lui mi afferrò il braccio e lo sbatté per terra. Strillai dal dolore quando la mia mano atterrò su qualcosa di tagliente. Appena mi lasciò andare il braccio, tastai il pavimento in cerca dell’oggetto che mi aveva punto e le mie dita guantate si chiusero su un pezzo di vetro. Sentendone i bordi frastagliati e la punta affilata, ricordai la bottiglia di birra che aveva lasciato cadere a terra prima di aggredirmi. Era la mia unica possibilità di fuga. Strinsi forte il vetro, senza badare a come mi si conficcava nella pelle, e mentre lui si preparava a penetrarmi di nuovo, usai tutte le mie forze e lo colpii sul lato del collo. Estrassi il vetro e tornai ad affondarlo, questa volta colpendolo appena sotto il pomo d’Adamo mentre voltava la testa per vedere cosa stesse accadendo. Estrassi di nuovo il vetro, e mi stavo preparando a un terzo affondo quando lui mi cadde addosso, il sangue che sgorgava a fiotti dalle ferite. Non urlò, ma fece un gorgoglio. Io usai la forza che mi restava per togliermelo di dosso. Aveva gli occhi sgranati e pieni di paura, e la bocca aperta mentre cercava di gridare.

    Nella luce fioca vedevo il sangue zampillare, schizzare dappertutto, colare tra le assi del pavimento. Pensai di aiutarlo, facendo pressione sui tagli per evitare che si dissanguasse. Ormai era troppo debole per farmi del male. O avrei potuto impiegare quel tempo per cercare aiuto.

    Corsi alla porta, spinsi via la sedia e tolsi il chiavistello. Non mi curai del fatto che fossi nuda. Aprii la porta, ma poi mi bloccai. Eravamo al centro di un campo. Era ancora buio, e intorno non vedevo altro che chilometri di vuoto. Mi voltai di nuovo, afferrando la mia camicia da terra per coprirgli le ferite e bloccare il flusso del sangue. Ma prima ancora di toccarlo compresi che era troppo tardi. Era morto. L’avevo ucciso.

    Capitolo 3

    2014

    Lanciando un’occhiata allo specchietto retrovisore, scruto la strada in cerca di qualunque cosa fuori dall’ordinario. Una Polo rossa avanza a zig-zag nel traffico per fermarsi proprio dietro di me. Allungando il collo, tento di vedere il guidatore, ma non ci riesco perché il debole sole si riflette sul parabrezza.

    Il mio panico è a mille quasi quanto Wild Horses dei Rolling

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