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Casa Balboa - Cronache di ordinario disordine
Casa Balboa - Cronache di ordinario disordine
Casa Balboa - Cronache di ordinario disordine
E-book222 pagine3 ore

Casa Balboa - Cronache di ordinario disordine

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Info su questo ebook

Il nuovo libro del Bukowski della Toscana Con un occhio a Bukowski e uno a John Fante, questa volta Mario Rocchi, dopo “Diario imprevisto di un serial killer” e “Maledettamente mia”, ci offre uno spaccato di vita familiare, ma non solo, inquadrata in un mondo pieno di limiti, di pregiudizi, ma anche di caos umano e intellettuale. La storia è ambientata in una Lucca di cui scopre anche singolari personaggi, una città verso cui l’autore mostra tutto il suo amore-odio, così bigotta e bestemmiatrice, incolta e colta, addormentata e viva, che viene fuori in una realtà schietta. Si dirà: ma dove è andato a finire il tormento esistenziale dei romanzi precedenti? Pur con un linguaggio parlato, sciolto, spregiudicato e con situazioni addirittura ironiche e comiche, Mario Rocchi riesce anche questa volta, sia pur senza angoscia a inquadrare un’esistenza di “pater familia” sofferta, esasperata, forse non tipica, ma inserita in una realtà tipica. Nel romanzo non accade nulla e accade tutto: si passa dalla monotonia della vita quotidiana alle performance erotiche di Balboa, alle delusioni per i cambiamenti inconsulti dei figli, dalla gelosia della moglie all’amore sviscerato, e contraccambiato, per il cane Otto. Ma se si riesce ad andare al di là dei fatti, si troverà il senso di una sofferta solitudine, quella che è sempre stata presente in tutti i libri di questo singolare scrittore.
LinguaItaliano
EditoreAbel Books
Data di uscita26 feb 2013
ISBN9788867520459
Casa Balboa - Cronache di ordinario disordine

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    Casa Balboa - Cronache di ordinario disordine - Mario Rocchi

    Mario Rocchi

    Storie di Casa Balboa

    Cronache di ordinario disordine

    Abel Books

    Proprietà letteraria riservata

    © 2013 Abel Books

    Tutti i diritti sono riservati. È  vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico.

    Le richieste per l’utilizzo della presente opera o di parte di essa in un contesto che non sia la lettura privata devono essere inviate a:

    Abel Books

    via Terme di Traiano, 25

    00053 Civitavecchia (Roma)

    ISBN 9788867520459

    "Quando penso alla carne della

    mia carne, chissà perché,

    divento subito vegetariano."

    (dal film Amici miei)

    Quando a Otto piglia il ruzzo devo tenerlo ben tirato al guinzaglio. Quel porco non conosce limiti. In via Fillungo o sulle Mura, se gli si sguaina la spada, non conosce distinzione di sesso e siccome le cagne in calore non le portano a passeggio e quelle che non lo sono fanno le scontrose, va a cercare di ingroppare qualche maschio, senza distinzione di taglia. Tanto che con quelli più piccoli va a vuoto e si scopa l’aria. Lo tengo ben tirato dicevo, perché non voglio litigare con i padroni degli altri cani. Ho da litigare abbastanza con la moglie e con i figli bighelloni che non hanno voglia né di studiare né di lavorare. Stefi si è voluta iscrivere a filosofia, ma che cazzo se ne fa di quella laurea, le serve forse per trovare subito un lavoro? Ma lei, dura come una pigna verde:

    - Non ti preoccupare, vedrai che mi servirà.

    - Sì, per vaneggiare come fai sempre, o per cazzeggiare a giornate intere.

    - Tu pensa ai  cavoli tuoi o a quelli di Maurizio che è più in ritardo di me.

    Maurizio, due anni più grande, orecchini da drogato, capelli a zero dalle tempie fino alla nuca, con un ciuffo nel mezzo da galletto in calore, frequenta dottrine politiche, una di quelle facoltà che sembra aprano le porte di tutti i lavori e che invece le aprono solo alla gingillometria, professione adatta ai vagabondi a spasso. Quando torna la sera, chissà da dove, non certamente da Pisa dove dovrebbe andare per frequentare l’università, si stravacca sul letto come una ciotta di vacca e lo vedi là, con il corpo sfatto e abbandonato come quello di una foca. Quando me ne accorgo mi verrebbe la voglia di prendere la pistola a tamburo, ricordo di guerra di mio padre, e sparargli una revolverata nel culo e bucargli quelle chiappe che, da quando non fa più un’ora di sport, sono diventate flaccide come una medusa.

    Mio padre si era fatta la guerra, come se l’era fatta mio nonno e il mio bisnonno Manoel Balboa che venne in Italia nell’ottocento per mettere su una rivendita di vino portoghese dato che veniva da Lisbona. Era un tipo incazzereccio e una volta ebbe delle noie giudiziarie per una specie di duello a pistolettate per una questione di donne. Dopo un po’ di tempo aprì un negozio di alimentari proprio a Lucca dove aveva incontrato la sua futura moglie. Il negozio, che di anno in anno divenne sempre più grande, passò a suo figlio, cioè a mio nonno, e poi a mio padre e c’è sempre ancora, con altri proprietari, lì, all’angolo di via Anfiteatro con via Fillungo.

    Ma ho deviato dal discorso principale. Parlavo dei figli. Dei primi due ho già detto, poi c’è Manuel, ovverosia Emanuele in versione spagnola. All’anagrafe è Emanuele, nome che ha voluto mia moglie per ricordare suo padre. A me non piaceva assolutamente perché mi faceva venire in mente la genìa deleteria dei Savoia, ma per fare prima lo abbiamo sempre chiamato Manuel, nome che in fondo ricorda il mio capostipite. E’ l’ultimo arrivato e non voluto. Sembra che  sappia che io volevo l’aborto, tanto che ti fa i dispetti su ogni cosa. Ha appena 15 anni e in quanto a rompere le palle è l’asso. Gioca a pallacanestro perché è una specie di spilungone per l’età che ha e non gioca male. Se lo contendono le squadrette giovanili e a me, tutto sommato, fa piacere perché lo sport fa bene, almeno così si dice. Ma come arriva a casa lo sport sparisce dalla sua mente e non pensa altro che alla musica e alle ragazzine che, sono quasi sicuro, non chiava nemmeno. La scuola è in second’ordine e se non fosse perché oggigiorno l’istituzione scolastica è in fallimento e vengono promossi tutti, comprese le teste di cazzo, a quest’ora sarebbe sempre in terza media.

    I figli sono un problema, ma la vita è tutto un problema. Se sapessi bestemmiare, bestemmierei dalla mattina alla sera. E farebbe bene anche all’atmosfera di questa città bigotta dalle cento chiese, una più bella dell’altra, e una più ipocrita dell’altra. Perché la gente che le frequenta ci va a battersi il petto, ma appena esce di lì diventa la padrona assoluta di tutte le stronzate possibili e immaginabili. Mi raccontava un amico giornalista come me e grande bestemmiatore, che una volta, all’uscita da una conferenza stampa presso l’arcivescovato, dato che ci aveva lasciato l’ombrello e doveva tornare indietro a riprenderlo, e che quindi aveva dovuto abbandonare la compagnia degli altri giornalisti usciti dall’edificio, appena si trovò da solo nell’atmosfera incensata della sede arcivescovile, sentì un impellente bisogno di bestemmiare per dissacrare il luogo e per arrivare a una liberatrice catarsi dopo ore di discorsi a bischero dei vari prelati custodi del sottopancia del portastanga del vescovo. E fu, mi disse, una cosa da orgasmo.

    Dicevo che quando a Otto piglia il ruzzo non c’è da fermarlo. E’ come quel tipo buffo che faceva il posteggiatore, quando un noto commerciante gli regalò un manichino che gli si era rotto. Che fece? Lo incartò con dei fogli di giornale e si fece tutta via Fillungo tanto che, raccontava, la gente pensava: Guarda, ha ammazzato la su’ moglie. Andò a casa, incollò il braccio, mise il manichino sul letto, ci fece un buco nel punto giusto, poi, dato che aveva ammazzato un coniglio, prese un po’ del suo pelo, lo incollò bene a forma di triangolo lì, fra le cosce, Tu vedessi diceva, sembrava proprio una topina. Poi sono andato a lavorare. Non ci pensavo più, mi avevano fatto anche incazzare, sai, quei biscari della Lazzi, col braccio fuori, sai, un ti s’arizza, un ce l’hai. N’ho tirato una sassata a uno che n’ho spaccato lo specchietto. Son tornato a casa, non ci pensavo più al manichino, accendo la luce, ti vedo tutto nudo questo topino, m’è diventato un biscaro duro, gli son saltato addosso… sbrench, s’è spaccato tutto. A fa’ quelle cose lì c’è da andà al manicomio.

    Otto mi ricordava quel tipo, aveva sempre la spada sguainata e non conosceva nessuno sull’ingroppata, per lui tutto era buono. Se, quando stavi seduto, allungavi appena un piede, ti si attaccava allo stinco e non finiva più di trombarti a vuoto. E’ sempre arrapato, un po’ come noi tutti, specie da giovanotti quando non si vede altro che la topa. Ma che dico, da attempati è peggio perché la voglia aumenta. Tanto che capita anche di fare delle belle figure a bischero, Come quella volta quando si passava, ma lì eravamo giovani, stretti nella topolino di Antonio, lungo la via dell’Acquacalda all’uscita della Cantoni. Frotte di operaie per lo più in bicicletta, ci impedivano quasi il transito. Uno di noi, il più sciagurato, tirò giù velocemente il vetro del finestrino e, rivolto alle operaie disse:

    - Bimbe, si tromba?

    E una di loro di rimando.

    - Noi sì.

    Una figura di merda incredibile. Noi, biscarelli borghesucci da strapazzo, non avevamo neanche la freddezza per incassare bene. Non come quella piazzaiola ambulante che, dopo una grossa folata di vento che le fece cadere tutti gli oggetti di plastica che vendeva sul suo carretto al termine di via San Paolino, tirò a voce alta una madonna… eccetera che fece voltare tutti i passanti compresi diversi turisti. Lei rispose allo sguardo di tutti dicendo:

    - Tanto è dillo che pensallo!

    Filosofia popolare da premio.

    Avevo cominciato a parlare del cane e poi ho deviato lungo il percorso. Dicevo che Otto è sempre arrapato. Ho 56 anni e sono sempre arrapato anch’io, quindi lo comprendo. La moglie s’incazza quando guardo le altre donne e non capisco perché: io non m’incazzerei affatto se lei guardasse gli altri uomini. Sofia dice che lo faccio perché non la amo, ma è solo una scusa. Lei non s’incazza perché mi ama, ma perché mi ritiene sua esclusiva proprietà. A me la proprietà ha sempre fatto schifo, non ci sono votato, e se ho uno straccio di casa, è perché sono stato costretto da mia moglie quando ci dettero lo sfratto. O vai in culo o la compri a prezzo ragionevole. In quel senso mi sento anarchico e a volte scherzando, a chi me lo dice, rispondo con la canzone: Siamo anarchici, rivoluzione, abbasso il papa, abbasso il re.

    Allora, per essere più precisi nel racconto, porto a giro Otto inculatore folle.  E’ un cane nero, un meticcio, come si chiamano ora i bastardi, di setter. E’ così bello che molti lo scambiano per razza pura. E poi è simpatico. Capitò per caso, da cucciolo, dopo la gazzarra di fine anno. Ha una paura folle degli scoppi tanto che appena ne sente uno a distanza, comincia a gironzolarti intorno come per chiedere aiuto. E’ una cosa che mi fa incazzare e più di una volta ho cercato di parlargli, perché io sono convinto che capisce più lui che i miei incomprensibili e incomprendenti figli. Gli ho detto che non deve aver paura, che non c’è ragione, che non sparano a lui, che non gli fa male nessuno. Lui mi dice sì con la testa, io lo capisco, quando muove la testa in su e giù vuol dire di sì. Allora sono tutto contento, poi qualche bimbetto di merda scoppia un petardo lontano un miglio, e lui ricomincia a guaire e a girarti intorno e poi, se sente un altro colpo, scappa via e io sono costretto a corrergli dietro come un deficiente fino a che non riesco a farlo fermare e a fargli capire che non deve scappare perché sono colpi innocui, che non gli fanno male, che sono solo il divertimento di qualche bimbetto rompicoglioni. Lui dice di sì e io sono contento come una pasqua. E allora, prima che possa ricredermi sulla sua intelligenza, torno a casa velocemente.

    Qualche volta lo porto proprio in campagna, sulle colline lucchesi e ne approfitto per andare a trovare qualche amico che ha la casa nei dintorni. O forse vado a trovare l’amico e ne approfitto per portare in campagna Otto. Insomma lo porto su queste belle colline piene di verde e di pievi romaniche. L’altro giorno capitai a Benabbio a trovare Raffaello che ha lì la sua country house. Si fece baldoria un bel po’ e venne a trovarci un tale che si qualifica parente di un grande poeta scomparso. Noi eravamo un po’ alticci ma lui era del tutto ubriaco. A un certo momento si mise a raccontare, con la sua voce impastata e la cadenza lenta che ricordava il suo parente, diversi episodi della sua vita. Disse anche che la notte appena passata aveva fatto un sogno strano. "Sai ho visto arrivare Gesù raccontò convinto e non per burletta, con la veste bianca che gli arrivava fino ai piedi, con i capelli lungi e fluenti, gli occhi celesti. Mi si è avvicinato e mettendomi una mano sulla spalla mi ha detto: Giulio, porco…" e giù un moccolo. Noi, non più alticci ma ubriachi, ci siamo messi a ridere come matti, e anche Otto rideva, perché non è vero che i cani non ridono, lo vedi dallo sguardo che diventa più allegro, lo vedi dalle zampe che si allungano verso di te come per dare il suo consenso, lo vedi dal pelo che vibra. Perché mai non dovrebbero ridere? Ridono i miei figli di tante cazzate che si dicono fra loro o di quelle che sentono alla televisione nelle miriadi di trasmissioni falsamente comiche, perché non dovrebbe ridere Otto? Sono sicuro che Otto ha anche capito la barzelletta, o per lo meno ha capito la bestemmia, ne ha sentite tante in vita sua.

    Allora dicevo che ero andato a spasso con il mio cane. Gironzolavo per via Fillungo e perché Otto tirasse meno, lo tenevo con il guinzaglio corto, così non mi rompeva le palle. Arrivato in piazza Scalpellini, scorgo un carretto pieno di limoni. Era di una piazzaiola venditrice ambulante, una delle ultime rimaste. Mi metto seduto sulla panchina che lì hanno sistemato da poco, ma prima faccio fare a Otto una bella pisciata all’angolo della porta che sbuca in piazza Anfiteatro. Mi vergogno un po’, ma sino a che non costruiscono pisciatoi per cani come ce ne era una volta per gli uomini, cosa posso fare? Insomma mi metto seduto e mi rilasso. Sto bene perché è da mezz’ora che non incontro rompicoglioni che ti chiedono perché il giornale non pubblica questo e quest’altro, perché non criticano il sindaco che fa da dittatore fregandosene delle opinioni anche dei suoi amici di partito, perché non scriviamo che la Lucchese non vince per questa o quest’altra ragione, insomma tutti rompicoglioni che manderesti volentieri in culo ma che non puoi fare per ordine di scuderia. Figurarsi se io non lo farei, se non manderei a fare un viaggetto di merda tutte le personalità comunali, provinciali, regionali e nazionali per non parlare di quelle cattoliche o comunque religiose. Ve l’ho detto, sono anarchico per lo meno fino a questo punto. Forse più in là nemmeno io, dato che non riesco a strapparmi di dosso una volta per tutte le vesti borghesi che mi sono rimaste appiccicate alla pelle da quando mia madre mi fece fare la prima comunione.

    Dunque, ero seduto e mi godevo in santa pace quel momento di oasi spirituale, quando sento che la voce della venditrice di limoni si alza imperiosa. Allora mi diverto ad ascoltare quello che dice con la sua particolare cadenza e l’inconfondibile tono che distingue come nessun’altra cosa la gente di piazza. E penso che è proprio vero che i piazzaioli sono una razza a parte. Diceva: "Tre limoni 50 centesimi, venga signora, li prenda che fan sempre comodo in casa. Poi a una donna che passava e aveva tirato di lungo, Venga signora, venga... ‘ada fia, un si gira neanche, credeva ni regalassi?"

    Io me ne stavo lì a godermi la scena ed era meglio che andare al cinema. Poi a un’altra donna che se ne andava altezzosa senza girarsi nemmeno a guardare: "Venga signora, tre limoni 50 centesimi, venga, sono boni, poi visto che l’appello non aveva avuto effetto: Che ci strizza lei sul fritto, l’aranci?" Sembrava che anche Otto si godesse la scena perché, dopo la pisciata, si era sdraiato accanto a me e stava con il collo ritto e gli orecchi puntati verso il carretto della piazzaiola.

    Fu insomma un momento di relax prima di tornare a casa. Quando stavo montando le scale, con Otto che mi precedeva e voleva giocare a rincorrerci, ma col cavolo che ne avevo voglia, apre la porta la signora che stava sotto di noi. Che vorrà mai, pensai, un po’ di uccello? Aveva una quarantina di anni ed era sposata a un tipo discreto ma un po’ tonto, pecorone nato, che non se la vedeva tutta e continuamente, in ufficio, non faceva altro che lodare le doti e la bellezza della moglie. Si trovano persone spesso, troppo spesso, che andrebbero fucilate alla schiena una trentina di volte. Gente senza coglioni nata solo per essere schiava. Non certamente della nostra razza soda che non conosce ostacoli. Pensate che, non solo il marito di quel topone che abita nel mio palazzo, ma nemmeno certi giovani che si danno arie di trombini, sarebbero riusciti a fare quello che combinò in maniera incredibile Vincenzo, un mio amico pittore.

    Ebbene, questi aveva incontrato per caso una bella topa che conosceva ma che non vedeva da tempo. La invita a casa a bere un whiskino e lei accetta. Montano le scale in piazza sant’Alessandro, arrivano davanti alla porta, e improvvisamente lui si accorge che non ha le chiavi di casa, le ha lasciate allo studio. Con una freddezza incredibile dice a lei: Scusa, ho lasciato le chiavi in macchina, le vado a prendere e torno subito. Aspettami qui per favore. Fa un calcolo immediato in una frazione di secondo: per andare a piedi allo studio e tornare, mi ci vuole un quarto d’ora minimo, e quella non avrà certamente la pazienza di aspettare. Se chiamo i pompieri vengono immediatamente. Così fece e in tempo 5 minuti i vigili del fuoco erano lì sotto casa sua. Quale è la finestra?. Quella lassù al secondo piano. E’ aperta.  Allora montiamo. Lasci fare e mollò un diecione al pompiere, Ci monto io. Così salì sulla scala, infilò la finestra e tranquillamente andò ad aprire la porta. La ragazza entrò e non gli chiese niente. Secondo lei, da dove era entrato? Se la sarà mai posta questa domanda? Tutte cose che non giovano alle femministe. Chi ce l’ha oggi quella intraprendenza per conquistarsi una fetta di topa? Forse mio figlio con l’orecchino e la testa smussata?

    Dico allora che mentre monto le scale mi apre quella giovane signora che mi è sempre piaciuta. Ha gli occhi neri da marocchina e la carnagione appena olivastra. Allunga le braccia e si mette a carezzare Otto. Lui ci sta, quel porco. Ma perché non carezzi me, mi vien fatto di pensare. Ci si crogiola al contatto di quelle mani affusolate. Ma che vedo? Ecco che sguaina la spada, si accosta alla gamba che lei aveva un po’ proteso in avanti e comincia a chiavarla.

    - Otto, porco, che fai! - gli dico.

    - Non si preoccupi poverino, è in amore.

    - Ora glielo do io l’amore - e cerco di tirarlo via per la collottola. E’ dura farglielo capire ma poi ci riesco.

    - Mi scusi signora, ma sa, è sempre arrapato. Non a torto però, perché quando vedo lei mi arrapo sempre anch’io.

    Guardo poi in su per vedere che non si sia affacciata mia moglie. Farebbe un casino da matti. Sarebbe capace di prendere baracca e burattini e andarsene via. Lo ha fatto più di una volta e andarla a prendere a casa di sua madre è una grande rottura di coglioni. Ai figli poi non gliene importa niente e a sua madre neppure. Potrebbe andare anche ad affogarsi in fiume che sarebbe lo stesso. O almeno sembra, insomma bisognerebbe trovarcisi per giudicare, ma secondo me non rimarrebbero sicuramente scioccati.

    La signora si schermisce

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