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Il disperato silenzio delle betulle
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E-book223 pagine3 ore

Il disperato silenzio delle betulle

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Info su questo ebook

Crudo, duro come lo sono le vicende che racconta e come talvolta è la vita di chi non viene risparmiato dai drammi e dalle tragedie nemmeno in tenera età, "Il disperato silenzio delle betulle" narra le vicende di due giovani, storie impregnate di problematiche e implicazioni psicologiche. Avvenimenti che portano a comprendere le difficoltà di chi spesso non riesce ad assaporare appieno la fortuna di aver trovato un porto franco, un luogo dove poter ricevere protezione e amore. Per qualcuno, purtroppo, posti del genere semplicemente non possono esistere.
LinguaItaliano
Data di uscita1 feb 2016
ISBN9788867932092
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    Anteprima del libro

    Il disperato silenzio delle betulle - Anna M. Galimberti

    http://creoebook.blogspot.com

    Annamaria e Mariaadelaide

    G a l i m b e r t i

    IL DISPERATO SILENZIO DELLE BETULLE

    Prologo – Marzo 2008

    La piccola falce luminosa sbucava a fatica dal nero minaccioso del cielo, cercando di rallegrare quel piccolo e povero villaggio formatosi sul confine ucraino e bielorusso. Satbok, incastonato tra le acque ghiacciate del lago e il fitto bosco di betulle, mostrava le sue misere case in legno colorate, le cui ombre spettrali si gettavano sugli angusti vicoli. Alcune costruzioni erano particolarmente malconce, la vernice esterna scrostata; altre sembravano abbandonate e persino le cicogne, che un tempo nidificavano nei camini, avevano smesso di fare ritorno. Il vento, che quella sera ululava furioso, era qualcosa di vivo, di famelico. Si faceva spazio tra le fitte betulle e le sbatteva senza pietà l’una contro l’altra. Annullava impietoso le orme impresse nel suolo a suo piacimento, come se volesse cancellare ogni traccia di vita, mentre sollevava in vortici la terra più sottile. Trascinava l’odore di terra umida fino a trasportarla dentro la finestra di quell’umile cucina dove un telo di plastica, agganciato alla vecchia intelaiatura, si scuoteva cupamente. Faceva dondolare la lampadina che, con la sua debole luce, rischiarava a malapena il misero interno. Una vecchia stufa mal riscaldava l’ambiente.

    L’ultimo pezzo di legna l’aveva infilato la piccola Palina, scottandosi il pollice della mano destra. Aveva cercato di lenire il dolore acuto, infilando il dito in una bacinella di acqua ghiacciata, in un silenzio composto e rassegnato, mentre si mordeva il labbro inferiore fino a farlo sanguinare.

    Daisy si lamentava per la fame, emettendo miagolii strazianti e fissando la ragazzina con gli enormi occhi gialli. La dispensa era quasi vuota, ma Palina trovò un cartone di latte aperto in fondo al terzo ripiano. Lo versò in un pentolino e lo pose sulla stufa a intiepidire. Magra e spelacchiata, con un pancione gonfio che sfiorava il pavimento di cemento, la gatta cercò di sedersi ai piedi della ragazzina aspettando la sua razione di zuppa. Palina le accarezzò la pancia e vi posò l’orecchio delicatamente, cercando di capire se i cuccioli potessero essere vivi. Bevve un piccolo sorso di latte direttamente dal cartone e appoggiò il pentolino sul pavimento. Poi vi sbriciolò dentro del pane secco.

    Dai, Daisy, mangia e riscaldati. Il vento oggi è troppo forte. Fa paura. Non uscire.

    Le diede un’ultima carezza, poi si infagottò in un logoro piumino, di tre taglie più grande. Indossò una cuffia di pile col paraorecchie, per correre tremando nel piccolo bagno di legno, situato all’esterno della casa diroccata. Nonostante avesse già dodici anni le capitava spesso di bagnare il letto durante la notte, e lo scherno e la rabbia della madre di fronte a quegli episodi, rendevano ancora più bruciante l’umiliazione.

    Il cielo, a un tratto divenne pece, coprendo quell’unico piccolo spicchio luminoso di luna e la pioggia cominciò a scrosciare violenta. Il buio era tutt’intorno e s’insinuò dentro di lei con una consistenza oleosa, appiccicosa. Palina tremava, batteva i denti per il gelo e, imprigionata in un’indomabile paura, ingoiava tutte le sue lacrime mentre si infilava nell’angusto gabinetto. Chiuse gli occhi e l’immagine del volto della madre, arrabbiata e ostile, la colpì con la nitida violenza di un lampo.

    Lo spasmo partì dal diaframma, poi salì nel petto e nella gola, fino alla bocca. I singhiozzi esplosero, mentre nella mente le grida della madre risuonarono e si replicarono fino a materializzarsi:

    Se bagni ancora il letto andrai a dormire in solaio. Tuo padre ha costruito il bagno apposta per voi. Usalo!

    L’idea di restare rinchiusa in solaio la riempiva d’angoscia, per via del buio e dei topi. E degli spettri. Rimase rigida come una statua di ghiaccio, come se tutte le paure che aveva ingoiato per anni si fossero solidificate nel suo corpo.

    Si tappò d’istinto le orecchie perché l’eco delle urla della madre la perseguitava e angosciava più del buio, del vento, dei tuoni, dei lampi. Tuttavia il suono riecheggiava inflessibile, come il rumore del mare si conserva nelle conchiglie. Tutte le volte che la madre le ringhiava contro in modo così furioso, Palina si sentiva ferita fino a rifiutare il cibo per diversi giorni, e quando la nonna la costringeva a mangiare, il suo piccolo e delicato stomaco si ribellava e lei si ritrovava in bagno a piangere e vomitare.

    Un tuono la fece sussultare. Alzò i calzoni in fretta e uscì di nuovo all’aperto. C’erano solo lei, la notte e quel terrore intrappolato nella gola. Cercò di correre, ma gli stivali di gomma rossi, stinti e crepati, affondavano nel fango, rendendo lento e difficoltoso il suo procedere verso casa. Rimpianse il tepore confortante del letto in ferro battuto. Suo padre lo aveva comprato da un vecchio rigattiere che raccoglieva oggetti usati di tutti i tipi e lo aveva tinteggiato di rosso. Palina accarezzava la vernice vermiglia ogni sera prima di coricarsi, come se potesse sentire ancora il calore della mano paterna. Quando lo aveva pitturato, Igor aveva canticchiato le canzoncine preferite dei suoi figli. Era passato tanto tempo da che se ne era andato, e la sua perdita aveva lasciato in lei un vuoto, un corpo che rimbombava di dolore. Allora appoggiava il visino alla sponda del letto come a cercare una carezza, lasciandosi andare alla malinconia.

    Il rumore di un ramo spezzato la spaventò. L’oscurità ora filtrava ovunque, assoluta, inesorabile. Passò davanti alla finestra della cucina e gettò un’occhiata distratta verso l’interno. Qualcosa catturò la sua attenzione.

    L’azzurro dei suoi occhi rimase per un lungo istante impresso sul telo di plastica trasparente che sostituiva, in un tentativo vano, il vetro rotto, memorizzando una serie di immagini agghiaccianti.

    In quell’angusto locale, pochi attimi prima Natasha, la madre di Palina, stava discutendo ferocemente con il suo nuovo compagno.

    Erano entrambi ubriachi e i loro battibecchi si erano susseguiti per tutto il pomeriggio, in crescendo. Nikita era un uomo violento e senza scrupoli, e spesso quelle liti lasciavano sul corpo di Natasha lividi e ferite. Per tutto il giorno non avevano fatto altro che bere e Palina era rimasta rintanata nella sua stanzetta cercando di fare i compiti e attendendo il ritorno del fratello maggiore. Aveva recuperato da una vecchia scatola di latta, alcune fotografie che non guardava da tempo perché appartenevano a un passato felice che sembrava risalire a mille anni prima. Una, in particolare, le aveva suscitato un’ondata dolorosa di malinconia. Ritraeva lei con Yeva, Andrej e papà. I ricordi erano emersi dall’oscurità come un’ancora che, tirata su dal fondo, aveva riportato in superficie relitti dimenticati. La tristezza era divenuta una lama tagliente. Yeva, la sua adorata gemella, si era portata dietro il mistero di una tragica morte. Il padre, dopo il lutto, aveva deciso di andarsene via, scatenando dentro il suo fragile cuore un vuoto urlante. Nella foto compariva anche Andrej, il fratello maggiore, il suo più caro affetto, con una mano appoggiata sulla sua spalla e un berretto azzurro a incorniciare il suo sorriso.

    Le grida di Natasha improvvisamente si spensero e dalla cucina ora proveniva un silenzio inquietante e carico di presagi. Un lampo più intenso e lungo degli altri fece sussultare la ragazzina, che strinse gli occhi, per meglio mettere a fuoco la scena all’interno della cucina. Come da una coltre di nebbia, resa sbiadita e tremolate per effetto del cellophan, Palina riuscì a vedere la figura della madre, ritta in piedi, girata verso di lei. I corti capelli neri con le ciocche rosa, il trucco degli occhi che colava misto alle lacrime e la bocca deformata da una smorfia orrenda.

    Mentre i sensi si allertavano e un’ondata di panico e di orrore la travolgeva, cercò di focalizzare l’attenzione su un altro innocuo particolare: le calze a rete smagliate della donna. Poi, il rassicurante biancore perlato della plastica si fece rosso sangue, mentre la madre alzò la mano destra, che stringeva un grosso coltello dal manico di legno. Subito dopo levò anche la sinistra, osservandola come se non le appartenesse, fissando con incredulità il liquido scarlatto di cui era macchiata. Il riflesso lucente della lama si trasmise per un attimo nei suoi occhi, facendoli brillare in un’espressione folle.

    A terra il corpo di Nikita, con uno squarcio che gli attraversava il collo.

    Palina rimase immobile, con lo sguardo fisso sulla gola dell’uomo, incapace di gridare, con il terrore che si diffondeva come una fredda marea. Poi, un rigurgito acido le riempì la bocca e avvertì prepotente l’urgenza di vomitare. Curva sotto la pioggia, come un fantoccio di stracci grondante, sentì una mano forte posarsi sulla schiena.

    La voce di Andrej la strappò dall’orrore:

    Vieni, dobbiamo correre dalla nonna.

    Luglio 2010

    L’atterraggio strappò Palina dai suoi pensieri.

    Durante le tre ore di volo era stata seduta immobile, aggrappata ai braccioli del sedile, confusa e spaventata. Si sentiva parte fluttuante del vasto spazio azzurro che scorgeva oltre l’ala del velivolo, senza punti di partenza, senza una meta finale. Era un nucleo vagante nell’universo, che le faceva perdere completamente la nozione di sé. Il ricordo della vita dalla quale si stava allontanando gonfiava la sua mente d’angoscia. Anche la paura dell’aereo era passata in secondo piano.

    Il cielo che il velivolo aveva bucato le era sembrato un vuoto infinito e ora se lo sentiva tutto dentro. Gli occhi si allagarono di lacrime, ma cercò di ricacciarle in gola, serrando con maggior forza i braccioli. L’interprete, una giovane donna russa, cordiale ed educata, invitò i ragazzi a rimanere seduti fino al successivo ordine.

    Palina sbirciò fuori dal piccolo oblò, considerando che l’asfalto della pista segnava l’arrivo in un angolo di mondo a lei sconosciuto. Cercò lo sguardo di Andrej, seduto nella fila dietro di lei, per attingere un po’ di energia e far svaporare il senso di precarietà che bloccava ogni sua emozione e la rendeva cerea e fredda. Andrej le strizzò l’occhio e le regalò un sorriso caldo come un raggio di sole che, in quel frangente, poco servì ad allentarle il nodo in gola. Lui aveva sempre protetto e coccolato la sua piccola sorella, che da qualche anno parlava poco e faticava a mangiare.

    La guardava con infinita tenerezza, con quel suo modo speciale di inclinare un poco il collo lungo e aggraziato. Al trascorrere dei giorni la ragazzina però si assottigliava sempre più, mentre le sue ossa si allungavano, come quelle di tutte le quattordicenni. I grandi occhi azzurri erano come opachi a causa di un velo perenne di malinconia. Le aveva fatto lunghi discorsi per convincerla a mangiare, ma quando Palina si sentiva infinitamente triste chiudeva stomaco e occhi al mondo, e anche la sua mente diventava un involucro sgombro di percezioni.

    Quando i due fratelli riuscivano a stare insieme per un’intera giornata – cosa che capitava solo la domenica – Palina riprendeva un po’ di energia e lo stringeva forte, facendo scricchiolare le ossa delle minute dita nel palmo della mano del fratello, maggiore di due anni. Voleva agganciarlo a sé, per la paura di perdere anche lui.

    Mettete il cappellino bianco, quello che vi è stato consegnato alla partenza; scendete in ordine senza far rumore. State vicini e non allontanatevi l’interprete continuava a fare raccomandazioni, che la ragazzina faticava a recepire.

    Andrej strinse più forte la mano della sorella dicendole:

    Ce la caveremo.

    Ho paura di non vederti più, dove andrai? Dove andrò? rispose con un singhiozzo e il terrore nella voce.

    Abbiamo i nostri nuovi indirizzi, ci scriveremo. Da quanto ho capito, non siamo distanti, ci potremo incontrare replicò Andrej cercando un tono paterno.

    Dove siamo? piagnucolò Palina, inumidendo le lunghe ciglia.

    Siamo in Italia, non ti ricordi? Non puoi piangere, ora. Vedrai, staremo bene. Dicono tutti che qui la vita è diversa le sussurrò, mentre con un lembo della maglietta le asciugava le lacrime, piccole perle scivolate sulle guance marmoree.

    Ragazzi, mettetevi in fila per due. Ora andiamo a ritirare i bagagli. Ricordate che sui vostri c’è un nastrino rosso di riconoscimento, legato alla maniglia.

    Palina si sentì misera e impaurita. Nella mano destra stringeva forte un sacchetto di plastica, suo unico bagaglio, senza nastrino rosso. Per tutto il viaggio l’aveva tenuto sulla pancia, per il timore di perderlo. La nonna le aveva consegnato della biancheria pulita, un piccolo album con le foto e il suo malconcio orsetto di peluche, dal quale non si era mai separata. Era tutto ciò che possedeva e che la univa alla sua Terra. Per un attimo chiuse gli occhi, rivedendo i colori del suo villaggio, del lago e del bosco. E la sua amata betulla.

    Si vide inginocchiata davanti alla vecchia e nodosa pianta, mentre ne incideva il tronco per far stillare la linfa che la saziava, dissetava, nutriva, curava. Prima di partire si era cosparsa le braccia di quel liquido puro, sgorgato dalla corteccia dell’albero, sperando di far cicatrizzare in fretta i numerosi tagli che martoriavano i suoi bianchi arti. Sapeva che quelle ferite sospette avrebbero richiamato l’attenzione di chi si sarebbe occupato di lei e che non sarebbe stata in grado di custodire a oltranza il suo orribile segreto. Ora le sarebbe mancata anche la betulla, il suo rifugio, il suo nutrimento, il suo sfogo.

    Quando riaprì le palpebre gonfie di disperazione, sentì la calda mano dell’interprete che aveva agganciato la sua. Quindi, con delicatezza, le aveva accarezzato il capo e le aveva detto che, per un mese, sarebbero rimaste in contatto. Avrebbe potuto chiamarla e vederla tutte le volte che fosse stato necessario.

    Andrej le camminava davanti; sembrava a proprio agio. Portava sulle spalle un grosso zaino. Si voltò di scatto. Sentiva il distacco imminente. Con un gesto brusco, si riappropriò della mano della sorella, come se fosse solo sua, staccandola da quella dell’interprete.

    Palina, cerca di farti benvolere le raccomandò. In Italia starai bene, non soffrirai più e potrai tornare a ballare. Le famiglie sono generose, ma dipenderà tanto da te, dal tuo sorriso. Sorridi, sorellina; sorridi alla vita. Fallo anche per me. Io voglio cominciare un’esistenza nuova.

    La vita di Palina si era svuotata e non voleva riempirla in un Paese sconosciuto. Voleva raccogliere il sole a braccia aperte nel suo villaggio, accarezzare il lago ghiacciato e nascondersi nel bosco di betulle, aspettando il suo principe azzurro. Sentì prepotente l’impulso di scappare, ma sapeva che non ne sarebbe stata capace.

    Oltre all’attitudine di mescolare e riacciuffare vecchie e nostalgiche emozioni, le mancava anche il coraggio di mettere in pratica pensieri e idee.

    Il ricordo della nonna le attraversò la mente come un miraggio luminoso. Le pareva di risentire i racconti e le raccomandazioni; ne avvertì, con una fitta di dolore, il pacato affetto e il rammarico per averla lasciata andare via. Tamara le voleva bene, ne era sicura. Avrebbe voluto tenerla con sé, eppure le fatalità si erano abbattute sulle sue vecchie e curve spalle come pesanti zavorre senza permetterle di decidere per i nipoti.

    Ora dobbiamo aspettare i documenti, ci vorrà un po’ di tempo. Vi ripeto alcune regole e, per i ragazzi che sono per la prima volta in Italia, devo spiegare alcuni dettagli. Palina, Andrej, Rusland, Tanja, Irina venite qua e ascoltatemi bene.

    Le parole dell’interprete scivolarono via. A Palina rimase impresso il ricordo della confusione dell’aeroporto. Il chiasso della folla, l’enormità dei cartelloni pubblicitari.

    Una ragazzina dall’aria ostinata, le si avvicinò, chiedendole in che città era ospite e come si chiamava la sua famiglia. Palina la fissò con gli occhi spenti, incapace di rispondere. Si guardò le scarpe bucate, la maglietta stinta e corta e i vecchi jeans tagliati sopra il

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