L'unghia di Camillo
Di Enzo Ferrea
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Anteprima del libro
L'unghia di Camillo - Enzo Ferrea
PERSONAGGI PRINCIPALI
in casa Banti:
Vera Banti – una ricca vedova
Bruno e Lidia – figli di Vera
Anna Banti – una vecchia amareggiata
Isabella – nipote di Anna
Selma Ghio – fidanzata di Bruno
Piero Conti – pittore ospite dei Banti
Silvana, Ersilia, Giulio – servitù
in Commissariato:
Francesco Carli – procuratore
Felice Russo – commissario
In casa Sartori:
Cerere e Raffaella – sorelle ceramiste
Alessandro Pace – investigatore ospite delle sorelle Sartori
Camillo – gatto
altri personaggi:
Maria Bozzo – sorella di Silvana
Guido Bozzo – marito di Maria
Michele – figlio del commissario Russo
Renzo Quadri – il giovane con i pattini
La lettera
La lettera l’ho spedita... Maria la riceverà e mi dirà come devo comportarmi...
Silvana diede un lungo sospiro. Aveva sonno, ma le dispiaceva chiudere gli occhi. Era così bello starsene distesi al sole e guardare il mare! Da quel punto del giardino il mare sembrava a due passi, si aveva l’illusione che bastasse allungare un dito per toccarlo e invece era lontano... Potevo telefonarle... ma è difficile dire certe cose per telefono. Come è calmo il mare... tutto quel blu... non c’è neanche una vela...
Silvana si rannicchiò sulla sdraio; posato tra l’erba vide un fiore, lo raccolse. Nel palmo della mano contò cinque petali, o forse erano quattro? Non riusciva a concentrarsi, sentiva un piacevole torpore... Le idee in testa si fecero confuse. Chiuse gli occhi e si assopì. Nel sogno rivide il mare, e in mezzo al mare c’era qualcosa che galleggiava. Guardò meglio e riconobbe la busta. Riuscì anche a leggere l’intestazione: per mia sorella maria.
È la mia lettera, pensò, sta viaggiando. La lettera seguiva il ritmo delle onde, su e giù placidamente, come in una culla. In lontananza c’era uno scoglio; attorno la superficie dell’acqua ribolliva, si aprivano squarci come profonde ferite. Montagne schiumose si levavano alte per poi infrangersi contro il nero lucente delle rocce. Ad ogni schianto si produceva un suono simile a grida umane. La lettera prese quella direzione. – Torna indietro! – implorò Silvana. – Non devi bagnarti! Ma viaggiava troppo veloce e non poteva sentirla.
Poi vide la prima sbavatura. La M di Maria divenne una macchia informe, quindi fu la volta della a e in un istante tutto il blu dell’inchiostro si mischiò al blu del mare; anche il francobollo si staccò e fu portato via, la busta rimase completamente bianca. Silvana diede uno strillo. La lettera aveva ormai raggiunto lo scoglio, un cavallone la prese in groppa e la scaraventò contro la roccia. L’acqua stava impregnando la carta, scollava i bordi, entrava dentro la busta... Tutta quell’acqua Silvana la sentì improvvisamente in gola: soffocava. Il suo corpo si torse sulla sdraio, una mano si strinse a pugno, l’altra corse al collo. Un gorgoglio e fu la fine.
– Etcì! – L’uomo scese dalla bicicletta. Guardò la casa ed il prato che doveva attraversare per raggiungerla. Il prato, tra il verde, era giallo, rosso e bianco. Polline, pensò disgustato. Passare tra quei fiori era per lui peggio che camminare su un tappeto di spine. La sua allergia sarebbe peggiorata ed avrebbe passato il resto del giorno con la tentazione di cavarsi gli occhi per grattarli furiosamente. Tutto questo per una dannatissima lettera. – Etcì!
– Contò sette starnuti.
– Ciao – disse il bimbo sbucando da dietro un cespuglio.
Era un bambino paffuto con grandi occhi azzurri ed i capelli biondi, quasi bianchi.
– Ciao Mimmo, cosa fai?
– Gioco – disse il bambino poco convinto. – E tu?
– Ho una lettera. Tua madre è in casa?
Il bambino fece di sì con la testa.
– Me la chiami?
Mimmo lo guardò con occhi imbambolati. L’uomo frugò nel borsone, ne cavò una lettera e la mostrò al bambino. – Se tu chiami la tua mamma io le dò questa – disse pazientemente. – Se scendo per il prato poi mi viene il raffreddore e sto male.
– Perché?
– Perché l’erba mi fa starnutire.
Il bambino spalancò ancora di più gli occhi: – Perché?
L’uomo starnutì violentemente. – Vedi! – disse.
– Ah! – fece il bimbo convinto.
– Allora mi chiami la tua mamma?
Mimmo corrugò la fronte nello sforzo di pensare, poi indicò la busta.
– Vuoi portarla tu?
– Sì.
L’uomo si chinò all’altezza del bambino: – Posso fidarmi? – chiese guardandolo negli occhi.
– Sì.
– Allora vai di filato a casa.
Mimmo corse via in mezzo all’erba. Non era del tutto sicuro sulle gambe, ma ci stava mettendo dell’impegno. L’uomo aspettò di vederlo entrare in casa, poi con un sospiro di sollievo inforcò la bicicletta. Mimmo fece la sua entrata trionfale in cucina sventolando la lettera. Sua madre non c’era più. L’aveva lasciata poco tempo prima inginocchiata a terra a lavare il pavimento. Lei gli aveva detto: Vai a giocare nel prato, ma non allontanarti troppo, voglio vederti da questa finestra
. Mimmo era uscito controvoglia; a lui piaceva la compagnia della madre, gli piaceva farle domande, seguirla quando andava a far erba per i conigli o a mungere le mucche nella stalla, e ancor più quando in cucina faceva la pasta e ne dava un pezzetto anche a lui. Da solo si annoiava. Ora il postino gli aveva dato quella lettera da consegnare e sua madre non si sarebbe arrabbiata di trovarselo di nuovo tra i piedi.
Mimmo incominciò a pensare dove potesse essere andata la madre quando, sul tavolino davanti al televisore, vide qualcosa che non avrebbe dovuto assolutamente esserci. Una gallina rossa, la più stupida e sporca di tutto il pollaio, si era appollaiata sul mobile e la tovaglietta bianca che lo ricopriva era macchiata di terra. Che una gallina osasse varcare la soglia della cucina e camminare sul pavimento a piastrelle appena lavato era una cosa inaudita, che poi andasse a posarsi davanti al televisore (a lui era proibito toccarlo) sulla tovaglia preferita da sua madre, oltrepassava ogni limite. Mimmo ne fu fieramente indignato. La lettera aveva perso ormai ogni interesse, la posò su una pila di giornali accanto al caminetto, fissò la rossa con occhi terribili e strillò con quanto fiato aveva: – Sciò! Sciò!
Maria rientrò in cucina con un fascio di giornali in mano. Per lei tutta quella carta stampata erano soldi buttati via, ma suo marito prima di fare il contadino, aveva studiato in seminario, e senza il suo quotidiano non poteva affrontare la giornata. D’altra parte Maria era orgogliosa di aver sposato un uomo istruito e poi i giornali venivano bene durante l’inverno per accendere la stufa. In cucina c’era il finimondo.
Suo figlio, con il volto paonazzo, gridava parole incomprensibili. La rossa svolazzava in aria starnazzando. Per terra erano finite due pentole, sul tavolo una brocca con delle margherite si era rovesciata e l’acqua stava colando. Per potersi mettere le mani alla testa, Maria posò il suo carico di giornali sugli altri, accanto al caminetto. Più tardi, riordinata la cucina, li avrebbe trasportati in solaio, in attesa dell’inverno. La lettera seguì la loro sorte.
Dormi, piccola Vera! Nessuno bussa alla tua finestra, è solo la pioggia che batte contro i vetri! Non aver paura, gemiti e lamenti sono prodotti dal vento che scuote le fronde degli alberi. Nascondi la testa sotto il guanciale, il tuono ora è più forte, resisti! Se apri gli occhi sei perduta; il lampo col suo forcone ti inseguirà, balzerai giù dal letto terrorizzata e a piedi nudi correrai in quella stanza chiamando il papà e la mamma. Ricordi? Lì il vento entra dalle vetrate spalancate, gonfia le tende come fantasmi infuriati. Insieme al vento entra la pioggia, il rumore dei tuoni e il lampo maligno. La luce è accesa nella stanza, non quella forte del lampadario, ma quella pallida della lampada a forma di giglio. Tua sorella è accanto alla luce. Come te è in camicia da notte, i capelli sparsi sulle spalle. Non ti ha sentito entrare, non ti guarda; i suoi occhi sono fissi sui suoi piedi. Si è messa le pantofole lei, ed è questo che guarda con occhi enormi. Le pantofole sono bianche, ma una ha la punta rossa e c’è del rosso anche per terra, un laghetto, e poi sulle lenzuola del grande letto, sul corpo dei tuoi genitori distesi in modo buffo, sulle loro gambe, le braccia e più su... Hai paura piccola Vera? E allora distogli gli occhi e, tu che puoi, urla.
Le mani di Vera si aggrapparono al colletto della camicia da notte. Un bottone saltò. Vera aprì gli occhi, poi li richiuse cercando di inspirare aria. La gola era contratta, il cuore batteva ad un ritmo troppo accelerato.
Calma, si disse. Si rizzò pesantemente a sedere poggiando la testa contro lo schienale rigido del letto; accese la luce e guardò la sveglia sul comodino. Segnava le quattro.
Le parve di udire lo scroscio della pioggia che andava scemando, ma non ne era tanto sicura. Avrebbe voluto alzarsi, aprire la finestra per sincerarsene. Era importante sapere se fuori pioveva perché altrimenti... Si sentiva talmente intontita! Il sonnifero della sera prima faceva ancora il suo effetto. Ora scendo, si ripromise. Raccolgo un attimo le forze...
Reclinò il capo, chiuse gli occhi e in quella posizione scomoda si riaddormentò.
Si parla di delitto
La stanza era di forma rettangolare. Lungo le pareti imbiancate a calce erano allineati degli scaffali a ripiani di legno greggio sui quali, alla rinfusa, si potevano ammirare i più disparati oggetti di ceramica. Si andava dal servizio di piatti di un bel blu cupo alle tazzine da caffè rosso fiamma, dagli anelli e collane dai colori allegri e un po’ pacchiani, alle ciotole e vasi di tutte le forme e misure. Tra quest’accozzaglia, l’occhio era attirato da qualche pezzo unico. Fosse in ceramica o in grès non importava, come non importavano le dimensioni dell’oggetto. Là dove la mano dell’artista si era battuta nello sforzo di creare, aveva lasciato il segno. Al centro della stanza c’era un lungo tavolo da lavoro sul quale erano chine tre persone in cappa bianca. L’uomo aveva finito da un pezzo di coprire con le terre colorate un gran piatto ed ora guardava le due donne lavorare. Si sentiva perfettamente rilassato.
– Ecco fatto – disse Raffaella posando il pennello. Allontanò il vaso panciuto sul tavolo. – È uno dei pezzi che esporrò, sempre che il forno non mi tradisca.
Cerere, con un pennellino sottile, mise la firma della sorella sul retro di una ciotola. – Verrà benissimo, sta pur certa, come tutto quello che fai. Ora però basta con la ceramica, mi sembra che il nostro Pace stia sbadigliando.
– È l’aria di Alassio – ammise Alessandro Pace. – Mi fa sempre un certo effetto.
Raffaella snodò il fazzoletto di cotone che le copriva la testa ed una massa di riccioli neri le si riversò sulle spalle. – Se è così dovresti venire più spesso a trovarci, l’ultima volta che sei stato qui ero ancora una vecchia ragazza non del tutto da buttare; guardami ora... – sorrise con civetteria spalancando gli occhi che erano grandi.
Naturalmente Pace protestò, ma si rese conto che Raffaella aveva parlato seriamente. C’era stato un interrogativo nella sua voce. Eppure, si disse, porta bene i suoi anni. Doveva averne, se non sbagliava, quaranta. La sua figura si manteneva snella, e il viso, nonostante le rughe attorno alla bocca e agli occhi, era sempre quello di un angiolone arruffato e pieno di energia. Sentirà la solitudine, pensò.
Una vita passata nella quiete di questa casa... Lei, si ricordava, era stata ambiziosa. Allora sognava il lavoro insieme ad altri artisti, le grandi mostre... Non era mai riuscita a sganciarsi da Alassio. Prima la malattia della madre, poi il fratello, l’unico uomo di casa da viziare finché una moglie non se l’era portato lontano, ed ora il lavoro che procede bene, l’abitudine... Non ha più l’energia per incominciare tutto daccapo e prova dei rimpianti.
Pace guardò Cerere che velocemente stava sgomberando il tavolo. Non assomigliava alla sorella. Era più anziana di cinque anni ed il suo volto segnato da molte rughe, era di una bellezza calma. Portava i capelli lisci raccolti in un nodo sulla nuca, vestiva con pantaloni e blusa informi, che davano ad ogni suo movimento un ritmo armonico e riposante. Era piacevole guardarla. Per lei, pensò Pace, forse era stato più facile, non aveva grandi ambizioni. Dalla sorella aveva imparato il mestiere ed era diventata un ottimo artigiano. Io non creo
soleva dire, non sono un artista
.
Cerere doveva aver rimuginato le parole di Raffaella perché ad un tratto sbottò: – In questa casa ci vorrebbe un uomo. È tanto grande, e poi scricchiola.
– Cosa fa? – chiese Pace.
– Scricchiola. Sì, tu non ci crederai, ma sono appena due giorni che sei arrivato e la casa si è calmata. Di solito geme e si lamenta come in un romanzo gotico. A volte è proprio lugubre.
Pace rise: – È una bella casa invece, e molto allegra. Anche Camillo la sente amica e posso lasciarlo libero di girare dove vuole.
Camillo se ne stava sdraiato sul davanzale della finestra, apparentemente intento a prendere il sole e a sonnecchiare. Aveva trovato posto tra un servizio da tè di ceramica rossa e due vasi neri di grès dalla forma allungata. Era talmente immobile da parere di smalto anche lui.
– È un gran bel gatto – osservò Raffaella. – E che pelo! Così lungo e chiaro, e poi quel muso quasi blu... stupendo! Anche da cucciolo aveva fascino. Guarda come se la dorme beato.
In realtà Camillo non dormiva, Pace se ne accorse alla prima occhiata, fingeva soltanto. Le orecchie erano basse, in una posizione tesa e innaturale, gli occhi una fessura a lama di coltello. Stava guardando ed ascoltando, era arrabbiatissimo. Sperava che lo portassi a Roma e di viaggiare in aereo. Ormai è fissato, pensò Pace.
Negli ultimi mesi, Pace e Camillo per ragioni di lavoro, avevano fatto quasi settimanalmente il tragitto Genova-Roma in aereo. Una hostess, neppure la più carina a giudizio di Pace, si era prodigata in complimenti e carezze per Camillo. Forse quella donna aveva addosso un profumo speciale che lo faceva impazzire, o era il modo vagamente esotico di pronunciare il suo nome: un Caamillooo strascicato e con tante a e tante o a fargli effetto, sta di fatto che ogni volta che lei lo accarezzava, Camillo rincretiniva. Pace non gli aveva mai visto fare tante smorfie per nessuna gatta. Due giorni prima, capito che sarebbero partiti, Camillo, forse, si era preparato ad un nuovo incontro, invece si era ritrovato in treno deluso.
Ad Alessandro Pace viaggiare in treno piaceva sin da bambino, gli procurava un trambusto interno, una sospensione piacevole. L’ansia di perderlo, imboccare il binario giusto, il posto da accaparrarsi vicino al finestrino, gli altri passeggeri da osservare, tutti un poco emozionati con i loro bagagli, tutti con una meta. E poi i suoni, lo stridio delle ruote sui binari, i fischi sibilanti, gli annunci di arrivi e partenze, i richiami, le risa, abbracci e baci: una specie di rappresentazione teatrale offerta a chi volesse guardarla. Un mondo a parte. Ormai adulto gli capitava sempre meno di usufruire di questo mezzo di trasporto, ma se il tragitto da farsi era breve, Pace ne approfittava.
Camillo e Pace si erano dunque appena sistemati nel loro scompartimento quando una donna molto ciarliera aveva preso posto di fronte a loro.
– Che micio meraviglioso – aveva esordito, attirandosi un’occhiataccia da parte di Camillo: lui si considerava gatto-gatto.
– Ma è un micio, vero? Perché non lo sembra nemmeno. Sa, io me ne intendo, ne avevo tanti di quelli... come si dice? – Non ricevendo aiuto dal suo interlocutore, la signora si era decisa: – Bastardi, insomma. Ne avevo la casa piena: così affettuosi! Mi dormivano in braccio, in testa, sui piedi... poi ho dovuto darli via, mi sono risposata e a mio marito piacciono i cani. Ci siamo presi un dobermann. Certo i cani sono più intelligenti.
Pace non osava guardare Camillo.
– Ma questo micio perché è in gabbia, poverino? Un gatto in gabbia è una cosa orribile, i gatti devono starsene a casa. I miei non avrebbero mai accettato di essere chiusi in un’orribile gabbia.
A quest’ultima osservazione, come avesse capito di cosa si parlasse, Camillo aveva emesso un brontolio; considerava la sua gabbia come un comodo e personale mezzo di trasporto, l’amava come tanti uomini amano la loro automobile; ne era geloso, e non aveva mai permesso di entrarvi neppure alla più affascinante delle sue conquiste.
Se Pace, in quel momento, ne avesse aperto lo sportello certamente Camillo avrebbe dimostrato a quella signora cosa ne pensasse delle sue opinioni. Invece lo sportello era rimasto chiuso. È ancora indignato, constatò Pace e deluso per il viaggio, ma non può pretendere che io mi faccia Genova-Roma in aereo solo per fargli incontrare quella hostess...
– Sono curiosa di vedere come verrà – stava dicendo Cerere prendendo in mano il piatto dipinto da Pace. Si diresse verso la porta.
– Però non posso cuocerlo subito, c’è troppa roba che aspetta e questo va tenuto nella parte alta del forno altrimenti si rovina. Se viene bene devi regalarcelo – gridò dall’altra stanza. – Non solo perché hai talento e fai delle belle cose, ma anche perché ci farà pubblicità.
– Cerere ha un meraviglioso senso pratico – rise Raffaella.
– Ha ragione, lo appenderemo al muro e quando verranno i visitatori diremo bello, vero? Lo ha dipinto il grande Pace, l’investigatore
. Vieni, andiamo di sopra: mi aiuterai a cucinare e io ti parlerò della mostra.
Poco dopo erano in cucina, Raffaella intenta ai fornelli alla preparazione di un sughetto profumato