La donna e il furore
Di Franco Enna
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La donna e il furore - Franco Enna
La donna e il furore
Immagine di copertina: Shutterstock
Copyright © 1959, 2023 Franco Enna and SAGA Egmont
All rights reserved
ISBN: 9788728523117
1st ebook edition
Format: EPUB 3.0
No part of this publication may be reproduced, stored in a retrievial system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.
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CAPITOLO I
Soffiava il vento dal deserto di Black Rock, quando Obed Lee arrivò alle prime case di Winnemucca. Peter Johns, che se ne stava sulla soglia del suo negozio a guardare le nuvole che fuggivano verso occidente, notò la lunga automobile coperta di polvere e l’uomo che sedeva al volante, e di Obed Lee pensò ch’era un tipo singolare.
A ogni folata, il vento faceva cigolare la vecchia insegna con la pomposa scritta « Supermercato ». Nella casa di fronte, i ragazzi McCall giocavano a rincorrersi strepitando, e in giardino la signora McCall era occupata a ritirare la biancheria stesa nella mattinata. Man mano che prendeva i panni, li scrollava per toglierne la polvere portata dal vento.
Si era alla fine dell’estate e i cani avevano ancora la lingua penzoloni. Erano anni che Obed Lee non faceva attenzione ai cani, e neppure alle lucertole sui muriccioli, ai falchi sulla campagna, tutte cose che in quel viaggio da Los Angeles aveva notato con interesse un po’ infantile, ma sempre crescente, come uno spettacolo di cui l’esistenza di tutti i giorni lo avesse voluto privare.
Attraversò buona parte della strada principale quasi a passo d’uomo, guardandosi a destra e a sinistra, poi fermò davanti al « Pyramid Hotel », entrò disinvolto nella piccola hall deserta, dove premette due volte il pulsante di un campanello a mano. Gli squilli parvero turbare un silenzio antico come il nome dell’albergo. Una porta cigolò in alto, un vecchio apparve sulle scale di legno, in maniche di camicia, con un grembiule azzurro legato alla cintola.
— Benvenuto a Winnemucca! — fu il saluto di costui. — Mi chiamo Bat Yatima e sono il proprietario.
— C’è da dormire? — chiese brusco Obed.
— Naturalmente. Abbiamo camere bellissime, di cui alcune esposte a mezzogiorno…
— Me ne basta una. Quella numero quindici, ad esempio. E’ libera?
Il vecchio, che era arrivato arzillo dietro il banco, sollevò la testa di scatto, studiò l’uomo che gli stava di fronte. Alto, massiccio, le forti braccia appoggiate al mobile, la pelle bruciata dal sole, Obed Lee faceva pensare a una quercia radicata al suolo. C’era appunto qualcosa di vegetale nella sua figura, forse nei celesti occhi freddi che guardavano il mondo con apparente distacco. Nel suo volto, l’unica nota umana era data da una lunga cicatrice che attraversava diagonalmente la guancia sinistra dall’orecchio al mento, e che era rimasta come un sottile solco aperto nella imperturbabile carne.
— E’ libera — disse debolmente Bat, e spinse verso il forestiero una scheda da riempire. Non osò chiedere spiegazioni.
Obed firmò col suo nome, poi seguì il vecchio con le valigie fino a una bella camera del piano superiore e, quando si fu affacciato alla finestra, respirò l’aria fresca del fiume. II vento agitava gli alberi lungo le sponde. Ora che le nuvole erano state scacciate, si poteva vedere il sole al tramonto, in un mare di fuoco.
— Avete bisogno di qualche cosa? — domandò Bat dalla soglia.
— No, grazie.
— Se volete consumare qui i pasti, il nostro ristorante è rinomato per le sue…
— D’accordo.
La porta si richiuse. Obed voltò la schiena al sole e restò a fissare il copriletto rosso a losanghe blu. Un aeroplano passò basso sulle case. Il rombo del motore fece vibrare i vetri. Obed riconobbe un Piper.
Prima di andarsi a mettere sotto la doccia, ebbe cura di mettere il chiavistello alla porta.
Obed lasciò l’automobile nel garage dell’albergo, quindi scese a piedi fino alla casa che gli era stata indicata, bussò alla porta che recava la scritta « Sceriffo ».
La donna che gli aprì, grassa e un po’ volgare, lo squadrò con diffidenza alla luce del crepuscolo. Prima che Obed avesse aperto bocca, gridò verso l’interno: — Al, c’è un forestiero! — Scomparve subito dopo verso la cucina, agitando lo sviluppato deretano.
Dal corridoio oscuro la voce secca di un uomo disse: — Venite avanti! — Una luce si accese tra pareti gialle, illuminò un uomo sui cinquant’anni, tarchiato, dai capelli arruffati, intento ad asciugarsi le mani con uno straccio. Indossava una sporca canottiera sul torace villoso. Quando gli si fu avvicinato, Obed avvertì un forte odore di benzina.
— Sono Al Challis, lo sceriffo. Stavo pulendo la motocicletta. Noi due non ci conosciamo, vero? Non mi pare. Difficilmente dimentico una faccia…
— Mi chiamo Obed Lee.
— Obed? — lo aveva colpito l’insolito nome di battesimo.
— Obed — ripetè il forestiero — ed ero il socio di William Ranoke.
Lo straccio si fermò tra le mani dell’uomo, i cui occhi chiari si restrinsero per mettere meglio a fuoco l’interlocutore.
— Ah, quella storia! — fu il commento. — Venite da questa parte. Saremo più tranquilli. Una birra?
— No.
Entrarono in uno squallido stanzino adibito a ufficio. Lo sceriffo accese una lampada da tavolo, che rivolse verso Obed come se avesse l’intenzione di procedere a un interrogatorio di terzo grado.
— Sedetevi. Se permettete, io bevo una birra. Oggi è stata una giornata calda. Fa sempre caldo dalle nostre parti, quando soffia il vento del deserto.
Prese da un angolo una lattina, vi praticò due fori con un punteruolo, se l’accostò alle labbra per tracannare alcune sorsate.
— Che mi dite di Bill Ranoke?
Lo sceriffo parve non udire, e disse: — O preferite whisky? So che voi cittadini non bevete altro…
— Non disturbatevi per me. Non sono venuto per bere con voi.
Obed riabbassò la lampada e, dopo essersi seduto a cavalcioni su una sedia di legno, accese una sigaretta. L’altro lo guardava con interesse.
— Già, siete venuto per Ranoke! — scandì Challis, e si lasciò cadere sulla poltrona di cuoio situata dietro la stretta scrivania. — C’è da ridere davvero, accidenti!… Il mio prima caso di assassinio e non poterne dir nulla. Buco, eh? Da rodersi le dita per la rabbia…
— Raccontatemi la storia. Forse insieme potremo fare qualche cosa.
— Insieme?… Ah, già! Voi e Ranoke avevate un’agenzia di investigazioni…
— Esiste ancora.
— A Los Angeles, mi pare.
— Infatti.
Challis vuotò la lattina e la gettò in un angolo. Quella rotolò fin sotto la finestra, dove si fermò.
— Così la gente di qui dirà che se non era per voi…
— Vi conviene lasciarmi fare. Agirei anche senza di voi. Vi lascerò tutto il merito delle indagini, se un merito ci sarà. A me interessa l’assassino.
Le ultime parole furono pronunciate con un tono che diede ur brivido allo sceriffo, la cui larga faccia si immobilizzò un istante.
— Se preferite così… Io ho fatto tutto ciò che era umanamente possibile fare. In fondo, non sono passati che otto giorni dal delitto. Otto giorni giusti. Non posso fare miracoli, accidenti!…
— Non sarebbe meglio parlarne con me?
— Certo, certo!… Otto giorni, dicevo. Siamo all’undici. Ranoke è stato ucciso il tre. Era arrivato il primo settembre, come saprete. E’ stato Greg Pah-Utes a trovare il cadavere. Greg e un vecchio indiano che vive come un eremita, qua e là per i boschi. Brav’uomo. Venne da me tutto affannato, quella sera, per dirmi che poco lontano dalla miniera Starkel c’era un’automobile con un cadavere dentro. Colpo alla nuca. Grosso calibro di sicuro, anche se non e stato possibile trovare il proiettile. C’era stata fuoruscita dalla parte anteriore, segno che l’assassino aveva fatto fuoco a bruciapelo. Come i giapponesi, ricordate? Ranoke alloggiava al Pyramid, aveva la camera numero quindici, che ho perquisito da cima a fondo. Nessun