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Barotti a Roma: Viaggio di Cesare Barotti con il signore Vincenzo Bellini (1760)
Barotti a Roma: Viaggio di Cesare Barotti con il signore Vincenzo Bellini (1760)
Barotti a Roma: Viaggio di Cesare Barotti con il signore Vincenzo Bellini (1760)
E-book220 pagine11 ore

Barotti a Roma: Viaggio di Cesare Barotti con il signore Vincenzo Bellini (1760)

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Info su questo ebook

Nel 1760 Cesare Barotti, ferrarese, bibliotecario e cultore di epigrafia, intraprende un viaggio a Roma. Durante il suo soggiorno nella città eterna tiene un diario, nel quale, seguendo la sua passione epigrafica, annota il testo di molte delle iscrizioni osservate nelle chiese e sui monumenti romani. Ma le citazioni epigrafiche contenute nello scritto sono solo una parte del testo di Barotti: il gusto aneddotico mondano e le accurate descrizioni dei monumenti, delle chiese e dei dipinti di Roma – e delle città e borghi dove pernotta durante il viaggio di andata e ritorno da Ferrara – rappresentano infatti un’importante testimonianza della vita e del costume romano del tempo e una fondamentale fonte di informazione sullo stato conservativo delle opere della città pontificia nel Settecento.
LinguaItaliano
Data di uscita22 apr 2014
ISBN9788878535138
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    Anteprima del libro

    Barotti a Roma - Raffaella Marinetti

    autografo.

    Il viaggio di Barotti a Roma

    Nel corso delle ricerche per la mia tesi di dottorato[1], ho rintracciato il manoscritto della «Descrizione del viaggio a Roma» di Cesare Barotti, già segnalato in alcuni recenti saggi[2]. Il testo in questione consente di ampliare il panorama di studi che hanno stimolato la stampa di alcune altre opere inedite di Cesare Barotti[3], bibliotecario dell’Ariostea di Ferrara dal 1771 al 1779.

    Dal quadro che emerge da questi studi l’autore ferrarese acquisisce un nuovo inedito risalto, concentrato in particolare sui suoi lavori epigrafici, che ne hanno rivalutato la figura culturale, finora nettamente sopraffatta da quella del padre Giovanni Andrea.

    Il manoscritto della Descrizione contiene il minuzioso resoconto del viaggio a Roma, intrapreso dall’autore in compagnia dell’antiquario ed esperto numismatico Vincenzo Bellini nel 1760. Il testo, in effetti, pur essendo arricchito da molte trascrizioni epigrafiche, che rivelano appunto l’interesse dell’autore per l’argomento, tuttavia si inserisce e deve essere collocato nel più ampio filone letterario dei racconti di viaggio: uno dei generi letterari più in voga nel Settecento. Nel «Diario», a suo modo, e con un punto di vista del tutto personale, Barotti dà infatti numerose informazioni, notizie ed aneddoti che offrono uno spaccato storico-artistico e socio-culturale delle varie città visitate (in primo luogo, e più ampiamente di Roma) che vanno assai al di là della pura curiosità epigrafica. Insomma, anche durante il viaggio Barotti non si lascia sfuggire l’occasione di raccogliere, secondo il suo spirito di accorto collezionista, le iscrizioni epigrafiche rinvenute (sia quelle funerarie che riguardano cittadini ferraresi sepolti a Roma, sia quelle antiche). La lista dei cardinali morti nella città pontificia, rinvenuta come carta sciolta all’interno del codice della Descrizione, testimonia infatti il premeditato interesse da parte di Barotti di pianificare il sopralluogo nelle varie chiese alla ricerca delle lapidi sepolcrali, di ciascuna delle quali riporta in modo sistematico il testo dell’iscrizione. Ma la Descrizione va appunto considerata nella sua interezza, di cui l’aspetto diaristico è una componente rilevante.

    Questo racconto «di viaggio», è conservato nel fondo storico della Biblioteca Ariostea di Ferrara, che ospita un nutrito patrimonio manoscritto, nato con le donazioni di alcuni bibliofili settecenteschi, e che nel corso dell’Otto e del Novecento si è andato arricchendo di altri importanti documenti e opere[4]. Di questa raccolta fa parte il fondo Antonelli dal quale proviene anche la Descrizione. La miscellanea nasce infatti come collezione personale di Giuseppe Antonelli, che fu proprio bibliotecario dell’Ariostea nel corso dell’Ottocento[5]. Costui, raccolse privatamente svariate opere manoscritte e documenti inerenti sia le memorie storiche della città di Ferrara, sia altri temi di natura eterogenea, che abbracciano un arco temporale compreso tra il XII e il XIX secolo. La raccolta entrò poi a far parte della Biblioteca Ariostea nel 1884 quando, a seguito della morte dell’Antonelli, fu venduto al Municipio di Ferrara dai suoi stessi eredi.

    La prima carta del manoscritto reca il titolo: «Descrizione del viaggio fatto a Roma nel 1767 in compagnia del celebre Vincenzo Bellini, autografo», che tuttavia è posticcia e – come si comprende anche dalla precisazione «autografo» riferita al testo – non è di mano dell’autore. La datazione che fornisce, inoltre, è errata (quella corretta, come accennato, va posta al 1760: lo si comprende dalla data con cui Barotti inizia le sue annotazioni), e a quanto pare è riconducibile alla stessa mano di Antonelli[6], il quale dovette restare ingannato dall’indicazione presente nell’ultima pagina dello stesso «Diario» dove è presente un sonetto dal titolo Al distrutore di tre provincie, cioè Ferrara, Bologna e Ravenna, nel quale è indicata anche la data del «1767».

    Barotti, in effetti, aveva dato un altro titolo al suo lavoro: «Viaggio di Cesare Barotti con il Signore Vincenzo Bellini». I suoi appunti, comunque, sembrano essere di carattere privato e molto probabilmente non erano direttamente destinati alla pubblicazione, ma rivolti piuttosto ad una ristretta cerchia di amici e conoscenti e probabilmente preparatori, nella parte che concerne le sue annotazioni epigrafiche, rispetto al progetto di un libro in cui raccogliere le molte iscrizioni ferraresi. Lo dimostra l’inserimento delle trascrizioni inerenti le lapidi di cittadini ferraresi sepolti a Roma in appendice al testo manoscritto delle sue Iscrizioni sepolcrali, in entrambe le sue due diverse fasi di stesura (rappresentate dai codici Cl. I 190 e Cl. I 528: custoditi anch’essi presso l’Ariostea)[7], il cui testo è stato pubblicato recentemente[8], senza includere, allo stato attuale del lavoro di edizione, questa breve sezione finale dedicata alle lapidi romane. Resta, insomma, un’ipotesi plausibile che la Descrizione non nasca come un testo da destinare direttamente alla stampa. Possiamo trovare conferme in questo senso dall’aspetto formale e dal contenuto dello scritto. Nel «Diario», Barotti annota infatti sistematicamente tutti gli avvenimenti che accadono nel viaggio, senza troppa cura letteraria; anzi gli appunti redatti dal viaggiatore ferrarese sono caratterizzati da una vivace spontaneità espressiva e da uno spirito informale che portano appunto ad escluderne una destinazione direttamente editoriale. Se però da un punto di vista linguistico Barotti avrebbe potuto intervenire in un secondo momento, rielaborando il testo in una forma più consona alla pubblicazione, sono piuttosto i contenuti a farmi escludere una possibile destinazione diretta dell’opera per la stampa. Difatti molte delle notizie inserite nella Descrizione riguardano personaggi poco noti, dei quali si danno informazioni assai dettagliate poco interessanti se non per una ristretta cerchia di amici e conoscenti ferraresi. Di sicuro, tuttavia, Barotti non scrive solo per se stesso, e fissando i suoi appunti si rivolge ad un ipotetico interlocutore richiamando direttamente la sua attenzione per esprimere lo spavento provato giungendo a notte fonda nell’abitato cadente e isolato di Serravalle:

    Si immagini chi legge come stavo: altro non chiedevo a chi mi capitava d’incontro se le case erano per cadere in quella notte; e il mormorio d’acque dall’alto cadute, il vedermi chiuso in mezzo a montagne, non vedendo il cielo se non col cannocchiale, abitazioni scelerate, abbitativi rustici, e malnati, erano tutte cose che mi facevano inorridire.

    Dalla lettura integrale del «Diario» emerge la capacità di Barotti di descrivere analiticamente tutti gli aspetti del suo viaggio, senza mai lesinare critiche rispetto a tutto ciò che osserva, sia che si tratti di opere d’arte, sia che si tratti dei vari personaggi citati. Questa sua capacità fotografica accompagnata dalla particolare spontaneità linguistica, offre un prezioso contributo per conoscere più a fondo aneddoti storici e personaggi della Roma della metà del Settecento. Barotti infatti annota nel suo taccuino molte interessanti informazioni per lo storico, concernenti sia le opere d’arte e i monumenti che visita, sia gli avvenimenti che si svolgono a Roma durante il suo soggiorno, sia i numerosi personaggi con cui viene a contatto nel corso del viaggio.

    Il tema preponderante nel testo è comunque la descrizione delle opere d’arte e dei monumenti. Certamente il suo compagno di viaggio, Vincenzo Bellini gli fu d’aiuto nella visita delle antiche vestigia romane, essendo, come detto, un esperto numismatico ed antiquario. Bellini, inoltre, conosceva molto bene la città pontificia, essendocisi recato in più occasioni a partire dall’età di quattordici anni, quando in modo precoce si interessava già di numismatica[9]. La comune passione per i libri e le antichità (ricordiamo che i due erano anche colleghi di lavoro negli istituti universitari del Museo e della Libreria pubblica), appena giunti a Roma li spinse a compiere una delle prime tappe in via del Corso alla ricerca di monete e antichità da aggiungere alla propria collezione. Qualche giorno dopo il loro arrivo, inoltre, non a caso vi si recarono nuovamente per fare visita alla «bottega di un tal Genovese posta sul Corso, mercante d’antichità» e, come riferisce Barotti, con buon profitto per Bellini: «il mio compagno comprò molte medaglie consolari, monette medii Aevi e diverse imperiali e pontificie d’argento e metallo».

    Sempre a Roma i due ebbero modo di visitare alcune interessanti collezioni private come quella di Federico Sartoni, il quale fece sfoggio della sua raccolta di medaglie antiche. In più occasioni, inoltre, si recarono a fare visita all’antiquario Gaetano Pontici, possessore di una nutrita ed interessante raccolta di monete molto rare, medaglie e libri «ben legati e conservati», e con il quale si intrattennero in piacevoli conversazioni. Fra gli altri collezionisti incontrati, Barotti menziona poi il commendatore Vettori[10] ed il dottore Giraldi, lettore di chimica a La Sapienza, la cui interessante raccolta di medaglie viene comunque criticata da Barotti per le sue cattive condizioni conservative.

    Dopo qualche tempo Bellini proseguì il suo viaggio verso Napoli[11], mentre Barotti continuò le sue visite in compagnia di altri amici e conoscenti, fra i quali anche il padre Giovanni Andrea, giunto a Roma[12] a poca distanza di tempo dall’arrivo del figlio, per risolvere l’annosa questione legale dell’immissione delle acque del Reno nel Po insieme al noto ingegnere Romualdo Bertaglia[13].

    Barotti si avvalse di una guida per le sue passeggiate archeologiche e artistiche, e per la descrizione di alcuni monumenti; fornisce infatti precisi rimandi di pagina al testo seicentesco di Alessandro Donati, Roma vetus ac recens utriusque aedificiis ad eruditam cognitionem expositis[14], che utilizza come vademecum, per puntualizzare ed arricchire i suoi appunti personali. Tuttavia le ricche informazioni fornite da Barotti, sono tutt’altro che indirette, spesso infatti ricorse all’aiuto di disegni delle opere fatti di sua mano, riportando le sue personali misurazioni dei monumenti e sopratutto soffermandosi a trascrivere con attenzione le iscrizioni presenti in essi, per cercare di rendere il più possibile esaustiva la sua descrizione. In generale, dunque, in Barotti non c’è un atteggiamento passivo nei confronti delle opere che visiona, anzi v’è un’inclinazione critica, pronta a vagliare attentamente l’attendibilità delle fonti consultate mediante una analisi diretta e puntuale; e la descrizione delle opere è sempre accompagnata dai suoi personali giudizi critici, arricchiti da dettagli curiosi raccolti nelle conversazioni intrattenute con i vari personaggi incontrati. Emblematico a tal proposito è il passo in cui Barotti critica le infelici cappelle di Santa Maria Maggiore realizzate in quei tempi dall’architetto Fuga per volontà di Benedetto XIV. Barotti critica così l’intervento:

    Queste sono riuscite infelicemente: ritrovasi strette assai, basse e di poco sfondo, gli altari sono tropo piccoli, che non servono che a’ soli pigmei; li marmi preziosi che v’erano sono stati dissipati, i moderni sono biancucci ed in poco tempo verranno scuri in modo che sembrerà un mortorio. È stato un peccato a rovinare sì famoso tempio. Raccontano su questo proposito qui in Roma una bizzarra riflessione di monsignore Sartoni, esso essendo alla conversazione di Benedetto XIV gli disse: Beatissimo padre, non sa egli che nuova corre per Roma?. E di che? Rispose il pontefice. Ripigliò egli: Che Vostra Beatitudine ordina sacerdote il nano del Cardinale Silvio Valenti. Il papa riprese: Per qual motivo si è promulgata questa ciancia?. Perché, disse il Sartoni, vostra Beatitudine ha ordinato che si faccia le cappelle e gli altari che sono in santa Maria Maggiore,quali non possono servire che a lui solo. Il papa restò e se la bevette[15].

    Inoltre, ed è questo un dato di estremo interesse, Barotti non trascura di fornire utili dettagli sullo stato conservativo delle opere. È ad esempio il caso della sua visita al Colosseo, del quale, pur constatandone la straordinaria bellezza e possanza («grande e maestoso anfiteatro detto Colosseo. Questa è una cosa meravigliosa e sorprendente: da questo si può congetturare la gran magnificenza con cui gli antichi romani facevano le loro fabbriche»), non può esimersi di annotare con rammarico le cattive condizioni in cui versava al tempo («questo si vede in gran parte rovinato»). Barotti offre così uno spaccato sulle vicende conservative dei monumenti di Roma nel Settecento, come fece d’altronde anche un altro viaggiatore dell’epoca, il presidente della Borgogna Charles De Brosses, che pochi anni prima di Barotti visitò proprio il Colosseo descrivendo anch’egli nelle sue lettere il cattivo stato in cui versava la struttura[16]. De Brosses in particolare nota con sdegno come i romani non siano in grado di apprezzare un’opera così importante, sulla quale sarebbe bastato intervenire con un restauro, così come era stato fatto per l’Anfiteatrodi Verona, per recuperarne tutta la sua bellezza. Gli interventi di restauro dell’anfiteatro Flavio, in effetti, iniziarono solo con il secolo XIX, anche se già Benedetto XIV mise fine alle varie spoliazioni che si erano ripetute precedentemente[17].

    Sebbene il suo interesse sembri orientarsi maggiormente verso le opere d’arte antica e i monumenti dell’antica Roma, Barotti descrive con attenzione anche i vari dipinti presenti nelle chiese che visita nel corso del suo itinerario, precisando anche in questo caso il loro stato conservativo, e dando così modo al lettore di oggi di fare il punto sulle condizioni strutturali di alcune opere alla metà del Settecento. Per ciò che riguarda i dipinti Barotti sembra comunque privilegiare i pittori ferraresi, trascurando in alcuni casi, fatta eccezione per quelle dei maestri più noti, le opere di altri importanti autori. Questo avviene, ad esempio, nella sua visita alla chiesa di San Pietro in Montorio, dove nota solo la pala con la Trasfigurazione di Raffello[18], ignorando del tutto i dipinti realizzati per la cappella Borgherini da Sebastiano del Piombo.

    In questo Diario, Barotti, già mostra, insomma, quella peculiare attenzione all’aspetto materiale delle opere, che sarà un aspetto distintivo riscontrabile anche nel suo successivo libro sulle Pitture e scolture che si trovano nelle chiese, luoghi pubblici e sobborghi della città di Ferrara[19], l’unico testo che gli riuscì di dare alle stampe in vita. L’autore, infatti, quando presenta un’opera oltre alle caratteristiche generali è particolarmente attento anche ai materiali e alle tecniche con cui sono realizzate, e infine, come detto, dà spesso conto delle sue condizioni conservative. Parlando degli oratori di Santa Silvia, Sant’Andrea e Santa Barbara presenti a Roma, ad esempio, specifica:

    Distaccati dalla chiesa vi sono tre oratorii, nel primo a sinistra nella volta dell’unica cappelletta stavi dipinto una Gloria: e consiste in diversi angioli che suonano violini, liuti ed un gruppetto di tre angiolini nudi che cantano; e sopra un padre eterno con le braccia spiegate che pare che diano il segno della musica; come pure al di sotto diversi chiari e scuri. Il tutto dipinto da Guido Reni. Questo è il sito dove è posta la sepoltura della famiglia Baroni, fatta fabbricare dal cardinale. La pittura ha patito. Nel secondo oratorio, ed è in mezzo, vi sono due pitture, una per parte, dipinti a tempera sul muro: dimostrante l’una e l’altra il Martirio e la Morte di S. Andrea del Domenichino. È cosa sorprendente, ma incominciano a patire.

    Questa particolare attenzione alla tutela e alla denuncia delle cattive condizioni conservative delle opere d’arte, rivela dunque una sua personale inclinazione, che l’autore manifesta anche nelle sue raccolte di iscrizioni del contesto cittadino ferrarese, come si è precisato di recente[20]. Il testo della Descrizione è una prova evidente, di quanto Barotti dedichi la stessa attenzione alla conservazione e alla tutela delle opere in generale, anche al di fuori dell’ambito artistico locale ferrarese; in effetti, il suo interesse per l’aspetto conservativo del patrimonio artistico indica una concezione delle opere d’arte e dei monumenti intese come un bene comune, fruibile da tutti, e come tale da salvaguardare.

    Negli appunti di viaggio sono poi descritti anche i musei e i palazzi di illustri personaggi visitati dall’autore. Fra quelli della città pontificia dove si reca Barotti, ricordo ad esempio: il Museo Kircheriano, il Museo Sacro e Profano in Vaticano e il Museo Capitolino, oltre alle case di molti importanti personaggi: primo fra tutti il cardinale Gian Maria Riminaldi, ferrarese anch’egli e membro assai importante della corte pontificia; inoltre palazzo Capponi, l’abitazione del defunto Silvio Valenti Gonzaga ed altri ancora. Proprio in merito ai musei, che erano nati pressappoco negli anni in cui Barotti compie il suo viaggio, troviamo nelle pagine del suo racconto utili indicazioni per comprendere la reale organizzazione di queste istituzioni. Un particolare interessante, ad esempio, riguarda il neonato Museo Sacro, del quale narra di una controversia insorta fra i custodi e i direttori, a causa della quale gli fu impedito di vedere gli oggetti raccolti negli scrigni. Il fatto trova una precisa spiegazione in alcune vicende storiche legate all’istituzione del museo nel 1757. Il Motu Proprio emanato proprio nel 1757 stabiliva la nomina di Francesco Vettori all’ufficio di prefetto e custode del nuovo museo. Questa scelta scatenò le polemiche dei custodi della Biblioteca Vaticana, Giuseppe Antonio Assimani e Giovanni Bottari, e del cardinale Passionei, pro-bibliotecario della Vaticana, i quali si opposero all’incarico affidato al Vettori, trovando invece più opportuno che tale incarico

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