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Vago et degno luogo lodare. Giovanni Tarcagnota tra storia e antiquaria
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E-book451 pagine6 ore

Vago et degno luogo lodare. Giovanni Tarcagnota tra storia e antiquaria

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Info su questo ebook

Giovanni Tarcagnota nasce a Gaeta intorno al 1508; forse allievo di Agostino Nifo, nipote del poeta e uomo d’arme Michele Marullo Tarcagnota, discendente dei Paleologhi, giovanissimo fu al servizio di Giovanni dalle Bande Nere e alla morte di questi divenne segretario di Galeazzo Florimonte. Nel 1542, lasciato il servizio presso il vescovo di Sessa, si trasferisce a Venezia dove, iniziata la propria attività di poligrafo con lo pseudonimo di Lucio Fauno, licenzia alcuni tra i volgarizzamenti più importanti della nostra traduzione letteraria rinascimentale.
LinguaItaliano
Data di uscita2 apr 2020
ISBN9788833465395
Vago et degno luogo lodare. Giovanni Tarcagnota tra storia e antiquaria

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    Anteprima del libro

    Vago et degno luogo lodare. Giovanni Tarcagnota tra storia e antiquaria - Gennaro Tallini

    c.d.s.

    Capitolo I

    Lo «spaccio dell’Antichità trionfante». Metodologie e scelte operative nella scrittura storica

    1. Tarcagnota volgarizzatore. Metodi, procedimenti e strutture della lingua

    Uno dei problemi che pone la figura di Giovanni Tarcagnota risiede nella reale dimensione cui inserirlo nel campo storiografico e filologico-antiquario. Ponendosi, infatti, al margine del campo letterario propriamente detto e al confine di quella linea non tracciata (ma radicata e tangibile) che divide l’azione letteraria dalla storia (e in subordine dalla storia dell’arte), è oggettivamente difficile poterlo classificare entro le categorie proprie del letterato e dello storico.

    La sua azione, in effetti, oscillando sin troppo tra urbanistica, studio antiquario, storiografia e poesia (ma con sempre viva attenzione verso la teoria della scrittura e dell’uso linguistico) ha impedito nel tempo e soprattutto in età contemporanea di coglierne non solo gli aspetti innovativi, ma anche ricostruirne la vera biografia rispetto a temi centrali quali l’eterodossia e la vicinanza a quei gruppi di fuoriusciti da Firenze dopo il 1530 che lo legano a doppio filo ai Salviati, ai Giannotti e agli Strozzi.

    Un primo passo per comprenderne le qualità letterarie, il metodo d’indagine e di studio è sicuramente quello di analizzare le modalità operative con cui affronta le traduzioni dal latino e dallo spagnolo e come queste vadano ad inserirsi in un processo di produzione culturale ampia e multilinguistica.

    Con lo pseudonimo di Lucio Fauno, Giovanni Tarcagnota è il primo traduttore volgare delle opere di Flavio Biondo e di molteplici testi a carattere antiquario pubblicati dai Tramezino. Sodale dei due tipografi veneziani e orbitante intorno ai circoli letterari e antiquari di Ranuccio Farnese, Alessandro Farnese (Paolo III) e Antonio Agustin, amico di Pirro Ligorio e collaboratore nella stessa bottega trameziniana insieme a Onofrio Panvinio e Mambrino Roseo, sin dall’inizio della sua professione egli presta particolare attenzione alla lingua da utilizzare, questione che lo aveva interessato già all’epoca del volgarizzamento di Plutarco e che nei volgarizzamenti a Biondo della Roma Ristaurata, delle Historie e della Roma Trionfante¹ si fa più pressante e necessaria, non tanto perché l’autore è parte della stessa iniziale formazione del gaetano, quanto perché la stessa idea di lingua risale a quanto lo stesso Biondo propone nella querelle con Leonardo Bruni.²

    Per questo, nell’ambito della procedura impiegata dall’autore per i volgarizzamenti delle opere del forlivese, va subito posto l’accento sulla differenza tra tradurre pedissequamente il testo latino e l’aggiungere o sostituire periodi e/o parole che appartengono al progetto letterario del volgarizzatore. In questo senso, alcuni interventi sostitutivi come la Roma Restaurata (titolo del volgarizzamento che sostituisce l’originale Roma istaurata di Biondo), rivendicando per l’antiquaria romana una dignitas storica e politica pienamente riconoscibile nei ruderi e nelle loro nuova collocazione papale, riesce, quando inserito nel contesto esclusivo dell’antiquaria, a delineare un quadro della civilitas antica fusa alla magnificentia urbis.³

    Nella Roma Ristaurata, dunque, si fa più urgente la ricerca di un’efficace saldatura tra la fase politica (storica) e quella retorica per meglio definire la variazione delle nozioni d’instauratio e restauratio e per questo Tarcagnota cambia volutamente il titolo proprio per sottolineare non solo il tentativo d’instaurare una nuova Roma (papale) nel farsi storico della Roma imperiale, ma soprattutto per garantire al proprio progetto letterario una qualificazione autoritativa proveniente dalla fonte più alta in materia. Tarcagnota, infatti, pur rimanendo nel solco della Roma vagheggiata da Biondo, è maggiormente interessato solo la restituzione di una Roma ristaurata, ricostruita cioè nella sua presunta purezza storica. Con un occhio al passato e uno all’eterogenea documentazione raccolta (testimonianza dei mutamenti sopravvenuti rispetto all’antico), Tarcagnota organizza un’operazione storica, nata all’interno del circolo Farnese e volta a difendere e assecondare scopi politici ben precisi di rafforzamento, legittimazione e auto-celebrazione del potere.

    In soli tre anni di lavoro sui testi del forlivese, Lucio Fauno mostra una complessità argomentativa e operatività traduttiva molto vive, emergenti dalla personale dimestichezza con la lingua latina e volgare e con la scrittura storica. L’aderenza alle fonti poi, permette d’iscrivere l’autore a quella particolare corrente di filologi e letterati che grazie anche alla stampa, ha riproposto, volgarizzandoli, la gran parte degli autori antichi e moderni che si sono occupati di antichità romane e della topografia della città antica in particolare, al punto che è possibile codificare un modello di ricerca antiquaria con finalità filologiche e letterarie che ben presto diventerà un vero e proprio esempio operativo per altre antiquitates urbane, è il caso di Firenze per Vincenzo Borghini, Ferrara per Pirro Ligorio e Napoli per lo stesso Fauno una volta dismessi i panni dell’antiquario e assunti quelli, ormai esclusivamente storico-universalistici di Tarcagnota e del suo Del Sito et lodi.

    I volgarizzamenti mantengono intatti i codici espressivi di Flavio Biondo e gli scopi; Lucio Fauno ne personalizza il discorso solo in quelle situazioni in cui evidente è l’errore del forlivese o in cui più pressante si fa la necessità di rispondere a tono agli errori di altri antiquari.⁵ Tarcagnota/Fauno, infatti, mai interrompe la traduzione con frasi plateali e scollegate dal contesto, anzi, cerca in ogni situazione la semplice aggiunta al testo originario attraverso pochi tratti, coerenti con la conduzione del discorso e in stile con il modello. È il caso, ad esempio, dell’apertura del libro primo del volgarizzamento, sezione che coincide con la versione a stampa del 1481 della Roma instaurata da cui abbiamo estrapolato i passi qui citati.

    Romam in Latio ad Tiberim amnem sitam et quintodecimo ab infero mari pessimum (sic) miliario maiores scripsere. Nomen eius a Romulo conditore M. Varro et T. Livius Patavinus Salustiusque affirmant et Romolum a ficulnea arbore: sub qua eum et fratrem Remum alluvio Tiberis destituerit.

    Roma (come hanno scritto gli antichi) è posta nel Lazio sulla riva del Tevere 15 miglia, lunge dal mare Tirreno: Varrone, Lucio (sic) e Salustio dicono ch’ella stata cosi detta da Romolo che la fondò; e Ovidio scrive, che Romolo fu cosi detto da un arbore di fico, sotto il quale fu con il fratello Remo ritrovato […].

    Siamo sicuri che sia proprio quello il testo-base su cui Lucio Fauno ha assemblato il volgarizzamento dato che i punti di coincidenza tra traduzione (comprese le aggiunte, i tagli e gli aggiustamenti), struttura testuale e note di commento sono troppo evidenti già a una prima comparazione, prova ne sia il passo seguente.

    Urbis Romae rerum dominae ruinarum potius quam aedificiorum, que nunc cernuntur, noticiam pro viribus innovare, Eugeni pontifex sanctissime, multa suadent mihi. Sed illud maxime impellit quae tanta fuit praeteritorum dium saeculorum hominibus studioque humanitatis ignoratio; ut quam paucam singulis in verbis ipsius aedificiorum partibus quae olim fuerint: non ab imperita solum moltitudine: sed ab his etiam docrtina cultiores sunt sciant tum multa ac pene omnia falsis et barbaris appelationibus inquinata vel potius infamata cernamus. Unde brevi futurum apparetur Romam ingeniorum parens, virtutum alumna, celebritatis specimen, laudis et gloriae columen, ac quae universus orbis ubique habet bonarum rerum seminarium in suis obscurata fructuris maiorem celebritatis et famae iacturam faciat; quae in rebus pridem factam ac potentiam videamus.

    Molte cose mi spingono, Santissimo Padre, à forzarmi di rinfrescare nella memoria de gli homini la notitia de li antichi edificij, anzi de le rovine, che hora si veggono ne la città di Roma, già capo e signora del mondo; ma quel che più mi ci spinge, è l’essere stata ne i secoli adietro tanta la ignorantia de le buone lettere, che non solo sono poche le cose, che se ne sanno de li edificij antichi, e da li ignoranti, e dai dotti; ma egli sono molte, e quasi tutte quelle, che con false e barbare voci sono state sporcate e guaste, in tanto che Roma, che fu già matre dei belli ingegni, e d’ogni bella virtù, et d’uno specchio d’ogni eccellentia, e quasi un seminario, e radice di tutte le belle cose, che per il mondo erano, egli, pare, dicono che sia per divenirne in breve tenebrosa, e di niuna notitia, e che sia per far maggior perdita del grido celebre e grande, ch’ella ebbe, che non habbia già per lo adietro fatto per la potentia, e ne l’altre sue maravigliose cose.

    È possibile notare come Lucio Fauno traduca riga per riga intervenendo in misura apparentemente poco invasiva: cambia, infatti, «ab infero mari» con «sulla riva del Tevere», introduce un lunge (ma altrove anche longe e lungi), elimina l’aggettivo Patavinus attribuito a Livio, sopprime d’autorità l’ultima frase alluvio Tiberis destituerit che pure proviene da Dionigi Alicarnasseo.

    Ancora una differenza d’interpretazione della scrittura rispetto alla stampa è la lezione aedificiorum di Roma Instaurata che Tarcagnota riprende senza modificazioni dimostrando non solo di non essere al corrente delle varianti manoscritte esistenti, ma anche, implicitamente, di aver fatto ricorso per la propria scrittura all’edizione 1481 e non altre. Altre situazioni, legano ancora la scrittura tarcagnotana all’incunabolo in questione: è il caso del «noticiam pro viribus innovare», che diventa in volgare «rinfrescare nella memoria de gli homini la notitia de li antichi edificij», frase che ci riporta alle esperienze poetiche dell’autore della Favola d’Adone e alle traduzioni dal latino quali il volgarizzamento a Galeno e quello a Ficino.¹⁰

    L’incipit del passo («Urbis Romae rerum dominae ruinarum»), diventa la «città di Roma, già capo e signora del mondo», aggiunta ripetuta in un passo analogo delle sue Antichità di Roma (Venezia, Tramezino, 1548, c. 16v) e rinnovante il «Romae dominae ruinarum» nel senso della passata Magnificentia urbis ora trasformata (per la presenza del nuovo/antico potere papale) nel caput et domina volgarizzati e che soprattutto si rafforza nel volgersi al papato autentico soggetto/oggetto di tutta la lettera prefatoria. L’operazione della scrittura, quindi, obbedisce solo ai canoni letterari, ma attraverso quelli, cerca di proporre una restauratio del rapporto antico/moderno che si costruisca anche nella fondazione e nell’impiego di una lingua retorica, alta e nello stesso tempo fortemente dotata di senso storico e politico (oltre che letterario).

    Tale processo, per nulla secondario nella scrittura e tanto meno mascherato, si rafforza nel prosieguo della sezione analizzata, soprattutto laddove urge (impellit) dare una descrizione della sua magnificenza così che, dotti e indotti, possano averne davvero un quadro conoscitivo vero e non limitato o addirittura falso e fuorviante («quae tanta fuit praeteritorum dium saeculorum hominibus studioque humanitatis ignoratio»), compito che coincide perfettamente con gli obiettivi che Tarcagnota/Fauno dichiara nella gran parte delle sue opere e soprattutto nei due brani sotto riportati.

    Alli lettori. È chiaro già a tutto il mondo gli antichi Romani aver fatto molte più cose nel’arme, che non ne i libri scritte; et molti sono più nobili, e grandi edificii fabricati in Roma, per eterna memoria del lor valore, et essempio à gli posteri, che non si veggono chiaramente oggi in piede: conciosia che le guerre, incendii, et ruine, che per tanti anni sono stati in essa Città, habbino guasto, arso, et sepolto buona parte di tali memorie. La qualcosa avendo io ben considerata, […] mi sono ingegnato di raccorre il presente libro, con quanta più brevità ho potuto, da molti fidelissimi autori, antichi et moderni, che di ciò hanno diffusamente scritto […].¹¹

    Grande obligo è certo quello Sereniß. Principe che dovrebbero gli huomini havere alle lettere & à colui che primieramente le ritrovò; poi che tante utili & meravigliose dottrine, che già estinte, & in potere della oblivione sepolte giacere si vedrebbono, si sono di tempo in tempo, con questo mezzo della fortuna conservate, & comunicate à posteri; anzi se ne è per ciò dato occasione di potere alle cose da varij ingegni, & in diversi tempi ritrovate, & scritte aggiungerne sempre à beneficio del mondo della altre nuove. Ma che dico io delle dottrine, & delle scientie, che ha la scrittura à chi non le sapeva, comunicate, per che le impari e le sappia, & à dotti che le sapevano, mostre, per che le accrescano […].¹²

    Il passi espongono la vocazione letteraria di Tarcagnota e ne fissano i motivi della scrittura e le motivazioni alla sua pratica. La necessità di ottemperare ai bisogni e agli obiettivi propri del potere papale e contemporaneamente illustrare in maniera appropriata la città e la penisola italiana conducono Tarcagnota a considerare il testo dell’antiquario forlivese come guida argomentativa da cui staccarsi ogni qual volta esso non corrisponda in pieno alle sue necessità espressive. È il caso dell’«omnia falsis et barbaris appelationibus inquinata vel potius infamata» che da Tarcagnota è reso sì in maniera quasi simile e letterale («e quasi tutte quelle, che con false e barbare voci sono state sporcate e guaste»), ma solo perché il passo gli permette di utilizzare lemmi come «barbare voci […] sporcate e guaste» che si collocano in un ampio spettro di scritti a carattere linguistico di diversi autori suoi contemporanei.

    Stessa condizione può esprimersi per la frase «virtutum alumna, celebritatis specimen, laudis et gloriae columen» riferita a «Romam ingeniorum parens» («Roma […] matre dei belli ingegni»), che viene resa con «belli ingegni, bella virtù, specchio d’ogni eccelentia» soltanto perché questi termini rimandano direttamente alli ingenij, alla virtus e alla eccellentia ac magnificentia delle Historiae urbis permettendo di rimandare ancora una volta direttamente al campo della laudatio urbis e alla sua imago antiqua. Prova ne sia la chiusura del passo tradotto: quel «ne l’altre sue maravigliose cose», assente nel testo originale e aggiunto in traduzione che è lo scopo ultimo della scrittura stessa; le Cose meravigliose è anche il titolo di diffusissime raccolte a stampa di Mirabilia urbis e il fatto che Tarcagnota lo utilizzi proprio per magnificarne non solo la potentia, ma tutta l’antichità romana (dall’arte alla storia e dalla aurea vetustas dell’imperium alla stessa valenza mitica degli imperatori romani), dimostra come il termine si sia rivestito di valori che Biondo aveva solo in parte colto.

    […] Nè vi viene alcuno così grossone e attonito, che andando vedendo gli antichi e maravigliosi edificij; come sono i superbi palazzi, le therme, gli aquedutti, e dimandando cosa si fussero tutte quelle: non si rallegri di haverle viste, et intese: egli è dunque (ritornando al proposito nostro) anchora Roma in tucta la sua grandezza, et una buona parte del mondo da se stessa e volontieri si sottomette reverentemente al nome Romano: ma perciò che siamo un poco apparati dal dire de gli edificij, e dei luoghi antichi di Roma, per venire à dire de la riverenza e auttorità che insino ad hora serva […].¹³

    La progressione editoriale e contenutistica evidenzia quindi una centralità concentrica della Roma restaurata rispetto alle altre opere e il fatto che Tarcagnota volgarizzi prima Roma Instaurata e poi le Historie, lasciando per ultima proprio la Roma Trionfante dimostra senza ombra di dubbio che aveva colto la loro consequenzialità a partire dalle Antiquitates, toccando le Historie (nelle sue due parti) e poi toccando le forme e le strutture dello stato e della società romane.

    La Roma Triumphans, quindi, arriva per ultima perché scelta voluta di un percorso argomentativo necessario (non monopolistico a livello di traduzione perché, in contemporanea, altri antiquari stavano affrontando con altri e più ottimistici risultati i medesimi argomenti: Du Choul, Matal, Panvinio, Agustin, Baronio) che si costruisce dalla topographia urbis concentricamente fino alle Istitutiones Reipublicae. Anche la scelta di far seguire alla Roma Ristaurata l’Italia illustrata rientra in questo contesto di studio e con precisi riferimenti letterari: dall’uso del participio Illustre che richiama ovviamente ben noti caratteri danteschi alla necessità storicamente intesa di Roma che non può essere caput senza l’ovvio riferimento anche alla penisola, un tempo espressione della provincia e anche luogo storicamente deputato alla pax romana e agli otia literarum.¹⁴

    In definitiva, è possibile disegnare uno schema ben preciso del sistema concentrico che regola la trasmissione degli argomenti e gli equilibri esistenti tra le opere che esclude la sola Italia Illustrata, tiene al margine estremo la Roma trionfante e i temi ad essa connessi e mostra i collegamenti diretti tra la stessa Roma Ristaurata e la Roma Trionfante e indiretti attraverso le Historie. Anzi, in questo caso, l’Yllustre dantesco, allora fattore ampiamente linguistico, è ora usato invece come nozione descrittiva di valori comuni: sono i luoghi, infatti, a mostrare la propria condizione mitica e storicizzante (e non la lingua); ciò che è importante è che per Lucio Fauno proprio la descrizione della città illumina e illustra la grandezza di Roma nella stessa maniera in cui la lingua illustre (storicamente centrata) dà lustro alla grandezza dei popoli che la parlano. Il riferimento dantesco, certamente mal compreso e interiorizzato, è però molto meno peregrino di quanto possa sembrare proprio perché la lingua illustre permette una descrizione altrettanto illustre, chiara e connaturata ad un pubblico dotto come indotto. Se la lingua volgare in tipografia diventa lingua tecnica degna di associarsi alla narrazione storica (al pari del latino), allora essa è illustre e capace, quindi, di rendere la storia della città ancora più valida. Del resto, la stessa considerazione del passaggio lingua-visio-descriptio-salvacio urbis è presa in considerazione, nei confronti del latino, dagli antiquari francesi e in particolare da Pierre Gilles, il quale (in buona compagnia con Jean Matal), usa il latino poiché nessuna lingua (illustre) può essere capace di narrare l’antichità di Roma e la storia e il diritto dei Romani come la lingua che quel popolo seppe esprimere.

    La centralità della Roma ristaurata, nel complesso delle opere volgarizzate, infatti, permette di disegnare una serie di concentricità argomentative che si allargano fino a comprendere la Roma trionfante e le Historie. Il sistema orbitale è perfettamente speculare a quello delle Antichità di Roma che Lucio Fauno scrive tra 1548 e 1554 per vari editori e sotto diversi pseudonimi.

    1. Le antichità di Roma […] raccolte da Lucio Fauno […], Venezia, Tramezino, 1548;

    2. De antiquitatibus vrbis Romae […] per Lucium Faunum, Venetiis, apud Michelem Tramezinum, 1549;

    3. Compendio di Roma antica raccolto e scritto da M. Lucio Fauno […], Venezia, Michele Tramezino, 1552.

    4. Delle Antichità della città di Roma. Raccolte e scritte da M. Lucio Fauno […] E con un compendio di Roma antica nel fine, […], in Venezia, per Michele Tramezino, 1552.

    5. Le Antichità di Roma di Andrea Palladio […], Venezia, Pagan, 1554.

    6. Le Antichità di Roma di Andrea Palladio […], Roma, Lucrino, 1554.

    7. Le antichità de la città di Roma […] per Lucio Mauro, [...] Et insieme ancho di tutte le statue antiche, […] per M. Vlisse Aldroandi, [...], in Venetia, appresso Giordano Ziletti, all’insegna della Stella, 1556.

    La successione delle edizioni evidenzia la similarità di trattazione e l’allargamento progressivo degli argomenti, proposti non solo estensivamente, ma anche nel Compendio del 1552. In questo modo, le Antichità di Roma del 1548, resa anche in latino per ovvi motivi di diffusione, si pone come modello per la stesura del Compendio e per la riscrittura delle riammordenate e successive Antichità di Roma del 1552. A loro volta, queste ultime, divengono modelli ulteriori per le scritture successive: le Antichità di Roma pseudo palladiane edite da Pagan e Lucrino e quelle scritte con lo pseudonimo di Lucio Mauro ed edite da Ziletti nel 1556.

    Rispetto ai volgarizzamenti di Biondo, le Antichità di Roma fauniche, proprio perché assemblate soprattutto sugli scritti del forlivese e su pochi altri testi di contorno (Marliani, Fulvio, Leto, Ligorio), tenendo l’opera storica di Biondo a livello di substrato argomentativo e informativo, può allargare progressivamente la quantità degli argomenti stessi e la loro qualità mirando in particolare a due soli aspetti (entrambi provenienti ancora da Biondo): la topographia e la descriptio urbis veteris nel suo resistere alla città dei Cardinali (per quel che effettivamente ne restava, visti i saccheggi, gli spogli sistematici e i crolli spontanei cui le ruine erano soggette quotidianamente) e la societas romana, quest’ultimo ripreso integralmente dalla Roma triumphans e adattato in una parte del discorso faunico minoritaria e poco importante rispetto agli interessi urbanistici e storici primari dell’autore. È il caso, dal volgarizzamento della Roma Trionfante (cc. 281r-286v), della sezione relativa al matrimonio e ai riti connessi, tradotta con un’aderenza al testo troppo solerte e senza ricorrere a interventi personali, segno che la sezione non gli interessa e deve renderla solo per dovere di firma.

    Et Festus multas ponit consuetudines quas ordinem subijecimus. Clavis consuetudo erat mulieribus donare, ad significandum partus facultatem exhiberi. Hasta caput nubendis comedatur, quae in corpore gladiatoris stetisset abiecti occisique, ut quaeadmodum illa coniucta fuerat com corpore gladiatoris, sic ipsa cum vio suo […]. Cingula nova nupta praecingebant, quod vir in lecto solebat, factum ex lana ovis, sicut illa in glomos sublata coniuncta inter se sit, sic vir suus secum cinctus vinctusque esset […]. Corollam nova nupta de floribus, verbenis, haerbisque selectis sub amiculo ferebat […]. Facem in nuptiis in honorem Cereris praeferebant […]. Patrimi e matrimi tres pueri in nuptiis adhibentur.¹⁵

    Festo pone molte usanze antiche che noi qui le referiremo ordinatamente, solevano dare a le donne una chiave, il che non significava altro se non che le si dava una facilita nel parturire: pettinavano e conciavano la testa de la sposa con una lancia, c’havesse ferito et ammazzato un gladiatore; a dinotare, che, come quella hasta era stata congiunta e stretta co’l corpo del gladiatore, cosi doveva essere la sposa co’l suo marito […]. Cingevano gli antichi la sposa novella con una cinturetta fatta da lana di pecore, che poi il marito gliela scioglieva su’l letto […]. E la sposa portava in testa sotto il bambicigno, una ghirlandetta di Verbene e di altre herbe elette […]. Portavano avanti nele nozze il torchio acceso in honore di Cerere […]. Si servivano ne le nozze di tre fanciulli patrimi e matrimi, cio è c’havessero padre, e madre […].¹⁶

    Fauno traduce il termine consuetudo con «usanze antiche» proprio nella stessa maniera in cui lo si intendeva giuridicamente in molte autonomie cittadine ancora alla metà del Cinquecento e come lo interpreta egli stesso nel momento in cui è incaricato, già dal 1541, della correzione e nuova redazione degli Statuta, Privilegia et Consuetudines Civitatis Cajetae da parte dell’Universitas Civitatis Cajetae. Mentre Biondo lo intende come tradizione rituale, Tarcagnota lo definisce come consuetudine ripetuta nei secoli che diventa legge non scritta, da tutti rispettata non perché frutto di una tradizione plurimillenaria, ma perché oggetto giuridico cui concordemente tutti si rifanno.

    Altra differenza sostanziale, per la scelta dei termini e per i modelli linguistici da cui estrarli, è caratteristico l’uso di «bambicigno» (che traduce amiculo), vocabolo estratto dalla Mascalcia di Lorenzo Rusio (Venezia, Tramezino, 1548, c. 91v) che però contrasta apertamente con quanto Biondo scrive: infatti, usa amiculo intendendo una sorta di mantello citato da Cicerone (Div., 2, 143) e poi trasformato da Solino in amiculatus (coperto). Il termine adottato da Tarcagnota, quindi, ha uno specifico riferimento non al latino classico, ma alla lingua dei suoi contemporanei e in particolare, per il caso di Rusio, di autori e/o testi che circolano nella bottega Tramezino, di cui non solo Tarcagnota è perno fondamentale di gran parte dell’attività editoriale, ma dai cui torchi uscirà, proprio nel 1544, il primo volgarizzamento della Mascalcia.

    Simile situazione si verifica anche per facem («fiaccola nuziale» e per esteso simbolo stesso del matrimonio) tradotto con torchio e patrimi e matrimi lasciati così come sono perché corrispondenti agli analoghi concetti presenti nel corrispettivo volgare. Analogo caso per la sezione della porta Collatina/Pinciana che non solo conferma quanto sopra detto, ma rende evidente anche quali aspetti dell’originale siano prediletti dal traduttore.

    Secunda illi et proximo in colle posita multos ante annos Pinciana est dicta a palatio sibi propinquo: cuius demolita marmora rex Ostrogothorum primus Theodirucus sicut Cassiodori epistola ostendit Ravenna portari curavit. Eia priscis temporibus dicta est Collatina. Oppidum enim, a quo est dicta fuisse e regione illius ostendit Livius in primo ab urbe condita. Collatia et quicquid circa illam agri erat Sabinis adeptum. Servat quoque aetas nostra morem appelandi in collatia quicquid a regione eius portae habet ager romanus.¹⁷

    La seconda porta, posta nel colletto, ch’ivi presso si vede, è stata per un gran tempo detta Pinciana, da un bel palaggio, che v’ha a canto, i bei marmi del quale Teodorico Re I di Gothi (come scrive Cassiodoro), fé portargli in Ravenna, ma ella fu anticamente detta Collatina, da Collatia terra de Sabini, che là era incontro, intanto che insino ad hoggi si chiama in Collatia, tutto quel territorio di Roma, che s’incontra uscendo da questa porta.¹⁸

    Risalta subito quel «posta in quel colletto» che traduce molto poco elegantemente (ma con cognizione di causa vista la sua conoscenza della topografia della città) in proximo colle posita, mentre il verbo ostendit (nel senso di mostrare, provare) viene derubricato (senza perdere però la validità dell’ipse dixit) in un semplice «come scrive Cassiodoro» e il portari curavit («si curò che fossero trasportati») è adeguato alla costruzione della frase volgare con un poetico «fé portargli» che sminuisce il senso della frase e riduce l’atto d’imperio a un furto di vestigia, in linea con l’idea che i barbari e non i papi abbiano spogliato Roma dopo la sua caduta. Ipsa ruina docet è il motto che Tarcagnota applica a quest’episodio utilizzando il testo di Biondo soprattutto in chiave di politica culturale.

    Anche l’ager fuori della porta Collatia subisce una diminutio storica passando dall’antico Ager romanus (che si estendeva fino all’Aniene e le cui caratteristiche sociali, simboliche e politiche erano ben note a Biondo e Fauno) al semplice «territorio romano che s’incontra fuori da questa porta». Sottolineiamo qui, di passaggio, l’ultima perifrasi che da sola possiede un valore identificativo degli interessi dell’autore gaetano rispetto al vero Palladio: ciò che è fuori della città, è materialmente esterno alla storia stessa di essa e soprattutto è un corpo altro rispetto alla sua stessa stessa antichità. Tale assunto, non è solo una scelta voluta, imposta dalla materia sessa da trattare (l’intra moenia come soggetto narrativo unico), quanto una precisa direttiva scritturale imposta dal modello stesso: Palladio, nel proprio trattato di architettura dedica una sezione molto ampia alle antichità e ai monumenti di città come testimonianza attiva della permanenza dell’antico e della sua immortalità storica e architettonica; Tarcagnota, invece, nelle vesti dello pseudo Palladio, si limita ad erigere un muro descrittivo tra ciò che è extra moenia e ciò che è la parte antica entro le mura storiche.

    Lucio Fauno riduce i passi di Flavio Biondo a sezioni semplificate e frasi brevi che fissano facilmente nella memoria del lettore gli stadi della narrazione, i luoghi, i riferimenti bibliografici alle fonti tenendo d’occhio stilisticamente la traditio delle periegesi urbane imposte dai Mirabilia urbis sin dalle prove più antiche: le descrizioni di Roma, infatti, a partire da esempi come il Liber politicus del Canonico di s. Pietro (XII secolo), la Cronica di Giovani da Tolentino o la ben più recente ricognizione latina operata da Mariano da Firenze, si sono sempre originate a partire dalla storia della Urbs antiqua e nel novero della descriptio dei soli suoi spazi (templi, loca, archi, colonne, monumenti in genere) al massimo sconfinando nella descrizione (più ad uso orientativo che non davvero storico-artistico monumentale) di chiese, complessi religiosi (Belvedere, s. Pietro e le Basiliche maggiori), luoghi di importanza ecclesiastica in qualche modo collegati al pellegrinaggio e alla visita alla città.

    Come giustamente osservato da Maurizio Campanelli, sia pure scrivendo a proposito della visione di Roma nel Trecento (ma il discorso può essere ancora valido ed esteso alla Roma dei Cardinali di Lucio Fauno):

    […] The Rome of Mirabilia, is a Rome in wich there in no trace of decline, or loss fo memory. So the Rome of the Mirabilia is a city withouth uncertainties, withouth flaws; a city in wich everything is explicable, understandable, everything can be reconstructed. It is an eternal Rome, in wich, even when there seems to be no trace left of the ancient wonders […], there are no explicit references to decline.¹⁹

    Non solo non c’è traccia di declino, accuratamente evitato e protetto da una patina di pseudo miticità che riscrive anche le espressioni più cruente della sua storia (al punto che un solo riferimento lessicale ricopre l’intera storia successiva alla sua caduta, quel «barbari» cui in un solo colpo si concentrano tutte le colpe e le cause della sua stessa fine), ma neppure vi è traccia, nella idealizzazione forzata della sua storia narrata, dei cives, del loro quotidiano, anche quando, nella descrizione dei loro mores si eccede nei particolari e nelle descrizioni.

    Manca esattamente la fisicità della città, la sua lingua e la sua disponibilità a rendersi viva di nuovo nella traduzione. Della prima questione, se ne erano accorti i primi prototipografi di Biondo, che probabilmente a causa della eccessiva lungaggine delle descrizioni stesse, decidono di abolire una sezione intera ripristinata con un riassunto non certo esauriente proprio da Lucio Fauno/giovanni Tarcagnota nel suo volgarizzamento. Della seconda situazione, quella linguistica, è ancora Lucio Fauno a farsene carico, riprendendo attraverso l’uso di alcuni termini (come è il caso di camiso), una Romanitas parlata che però è parte di una essenza popolare che quindi sfugge e stona all’interno di una lingua tipografica ormai normalizzata e comunque pensata come alta.

    Roma, quindi, diventa uno spazio sacro, mitograficamente ridefinito da un sistema letterario che utilizza la descrizione come forma su cui inserire le parole e le imagines urbis antiquae riportandole alla memoria di lettori che richiedono quella forma è non

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