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In CONTEMPORANEA
In CONTEMPORANEA
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E-book522 pagine8 ore

In CONTEMPORANEA

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Info su questo ebook

Nella prefazione di “Contemporanea”,
si legge la preoccupazione che nel
rapporto con l’arte “non bisogna più lottare
per la libertà di espressione bisogna, invece,
lottare per la libertà di percezione”,
nel senso che ormai sempre più la percezione
viene “anticipata e neutralizzata da
quell’azione mediatica” definita “industrializzazione
dei modi della visione”. In parole più semplici,
sembra quasi ad ogni evento artistico il pubblico o il critico
vada ad assistervi sapendo già quello che ne deve pensare.
Ma è davvero così, o meglio, deve per forza essere così o il
nostro “diritto” a vedere, analizzare e decidere che cosa pensare
di una mostra o di una qualunque altra forma d’arte è
comunque salvo? Fazìa si avventura nel complesso tema con
questo libro suddiviso in tre grandi capitoli tematici, il primo
“Paul Virilio o della percezione”, il secondo “A. Bonito Oliva,
F. Bonami o della descrizione”, il terzo “Arthur Danto o della
definizione”, che ci accompagna nel gioco di “far tutto da
soli” con l’opera d’arte, senza che qualcuno ci dica che cosa
pensarne, come se “al cinema ci rivelassero, subito entrando,
l’assassino e il finale di trama”.
Il libro nasce da questo, discute di questo e come tutti i
libri di Fazìa è complesso, non facile, pieno di pagine e di
parole, con la copertina blu, le scritte bianche e la macchia
rossa, marchio di fabbrica e garanzia di qualità.
LinguaItaliano
Data di uscita4 set 2014
ISBN9788884496911
In CONTEMPORANEA

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    Anteprima del libro

    In CONTEMPORANEA - Salvatore Fazia

    scrivono.

    Paul Virilio o della Percezione

    «Nell’epoca in cui ciascuno si interroga 

     sulla libertà di espressione

     sembra augurabile interrogarsi anche sulla libertà di percezione»

    (Paul Virilio)

    Cronaca

    «Improvvisamente brillò una forma: «exaiphnes anaphanénai ìdalma»,1 è Plotino, e certo non solo un filosofo, ma uno psicologo, un ellenistico, pertanto già un moderno: Platone aveva già parlato di eidos, forma o visione, Plotino vi aggiunge la velocità e l’imprevisto, come accade per il pubblico... chi guarda è improvvisamente preso da ciò che gli appare, una scena, una visione, un’immagine di modello. Plotino di moderno ha questo, che dà all’arte l’incondizionato dell’apparizione, l’imprevedibilità dell’impensato: non c’è nulla che la preveda, e, chi la vede, la vede nell’incanto della prima volta:

    «A New York, e senza dubbio anche altrove, si era soliti sentire la pittura coprendosi prima gli occhi, per poi scoprirli all’improvviso... in tal modo, l’opera veniva ad essere tutto e soltanto ciò che colpiva l’occhio al primo istante di esposizione, una sorta di puro fenomeno visivo, non contaminato dalla materia, quello che gli antichi avrebbero chiamato un eidolon (fantasma)».2

    A distanza di millenni, a distanza di continenti, due signori della filosofia Danto e Plotino dicono la stessa cosa: Plotino a proposito dell’arte racconta di una visione e parla di forma in luce stellare: è la sua versione della percezione. Arthur C. Danto, anche se fa intendere che per la pittura ci vuole orecchio, racconta la stessa cosa grazie al giochino che s’erano inventati a New York: ci voleva orecchio, se ne parlava, lo si diceva, ma poi era la vista, il suo lancio, il colpo d’occhio, ad afferrarla. Il giochino americano di coprirsi gli occhi, a nascondino come fanno i bambini, non è forse una trovata dei newyorkesi per procurarsi quell’isolamento che ai tempi di Plotino era la condizione naturale?

    Parlano dell’opera d’arte.

    Del modo di essere dell’opera d’arte, di più: del modo di percepirla, che, comunque accada, è il modo dell’apparire che ne qualifica l’evento, ne immagina l’essere: improvvisamente brillò una forma, l’uno; e scopriva l’occhio al primo istante di esposizione, l’altro. Il modo è istantaneo, ha a che fare con l’attimo, l’attimo in cui la vista viene colpita. Perché il naturale dell’opera d’arte - o il sovrannaturale - è proprio quello di colpire apparendo, la percezione attivata all’istante.

    Perché l’istante?

    A New York ci si copre gli occhi, farebbe difetto lo skyline affannoso e confuso della città.

    A Plotino - natura naturans - è la forma che brilla, la stellarità.

    Paolo D’Angelo3 ricorda che a un certo punto un gruppo di astronomi, riuniti a congresso, ha stabilito che Plutone non deve essere più considerato un pianeta e osserva che di fronte alla questione della definizione dei pianeti del sistema solare ci troviamo in quella che lui definisce questione stipulativa, dato che in fondo si tratta di mettersi d’accordo, quel che conta in astronomia essendo ben altro: sono le osservazioni, i calcoli, le ipotesi verificabili che contano. Soltanto nelle scienze altamente formalizzate, è il ragionamento, le definizioni avrebbero una ben altra portata, come nelle matematiche dove, per esempio, una linea è un’ellisse se, e solo se, i suoi punti sono equidistanti dai due fuochi, e ricorda: «Una nozione assolutamente centrale, come quella della specie, continua ad andare in cerca di una definizione accettata da tutti». Poi sigla: «Darwin, che pure usava il termine nel titolo della sua opera principale, riteneva che il concetto di specie non fosse definibile in modo rigoroso, appunto perché le specie sono in continua evoluzione». Poi si domanda: «E in estetica? È possibile dare una definizione rigorosa del termine arte?». Annota che ormai è da parecchi decenni che l’estetica continentale non si pone domande di queste tipo, troppo indefinito, troppo vago e mutevole sarebbe il concetto di opere d’arte, perché abbia senso cercarne una definizione: qualcosa che fa pensare alla stessa riflessione che lo studioso aveva appena fatto a proposito della difficoltà di definire la specie, concetto malfermo, esso stesso essendo in continua evoluzione.

    Malfermi entrambi i concetti, Arte e Specie, in uno stato evolutivo continuo, assimilabili quanto a significato, visto che arte è eidos e eidos è come species - fa notare Derrida - e dicono, in contesti diversi, la stessa cosa.

    L’estetica continentale - come nel caso della specie - da tempo non si farebbe più domande del tipo che cos’è l’arte, perché le opere d’arte non sono più le stesse, troppe diverse essendo tra loro, troppo radicale l’evoluzione e la loro rivoluzione estetica, la modernizzazione di segno e di senso, la loro attualizzazione di giornata: «l’arte di oggi complice del contemporaneo sarebbe un’arte della contingenza, dell’effimero e dell’impermanente perché questo sarebbe il tempo in cui essa vive. A differenza delle avanguardie, l’arte di oggi non cercherebbe il passo in avanti, ma il salto sul posto: usa il tempo frammentario e quantizzato dell’oggi per essere totalmente presente, totalmente incollata e, a suo avviso, adeguata a ciò che accade».4 Si farebbe schermo - l’estetica continentale - dietro il polimorfismo delle opere d’arte, specialmente in seguito alla violenza e alla velocità del cambiamento della forma delle opere, pervenute ormai alla dispersione della forma e alla dissoluzione di ogni suo statuto configurativo.

    Dove guardare, se no, per trovare la forma, per esempio, di fronte all’opera d’arte di un artista che partecipa alla Biennale di Venezia e affitta il proprio spazio espositivo a una ditta di cosmetici?

    Cosa cercare che possa essere una forma in una mostra tenuta nel celebre museo del Guggenheim di New York, dove, per la mostra, la sala in cui erano esposte le opere di Kandinsky era stata completamente svuotata dei suoi capolavori d’arte per accogliere il pubblico, libero di aggirarsi senza che altre opere d’arte disturbassero la banale coreografia del caso?

    Che dire, cosa pensare, di un bar aperto all’inizio del 1998 e nominato Pharmacy, un bar-ristorante, che, una volta chiuso, gli arredi progettati dall’artista siano stati poi battuti all’asta?

    Come accostare opere del genere a opere di pittura, di scultura... di altri tempi, e porsi il problema dell’identità dell’opera d’arte d’oggi e peggio ancora della definizione di un’arte comune alla quale apparterrebbero?

    È possibile mediare, rimediare, una definizione di arte avendo a che fare con una storia dell’arte che si riapre continuamente a nuove e diverse forme d’arte, dovendo valutare e manovrare valori formali, informali, astratti, concettuali, antiartistici e non-artistici, cercando in una casistica cosi eterogenea, dove ognuna delle opere d’arte è fatta apposta per essere irriconoscibile e per questo più competitiva?

    Come trovare un senso comune in opere fatte apposta per essere diverse dalle altre, contro le altre, in competizione con le altre, e dunque dove ognuna è in negazione dell’artisticità delle precedenti?

    A mettere in crisi è il polimorfismo delle opere, un loro stato, sia aspettuale che gestuale, ogni volta diverso e inconciliabile: come decidere al di fuori della storia dell’arte? e perché la filosofia è caduta nell’errore popolare di farne oggetto di giudizio attraverso l’artigianato dello sguardo?

    Gli esempi più sopra citati riguardavano opere d’arte dei più celebri artisti viventi: Maurizio Cattelan nel primo caso, nel secondo Tino Sehgal, nel terzo Damien Hirts, e la casistica potrebbe continuare a lungo, senza trovare il punto dove poter fermare il meccanismo della percezione.

    Che fare?

    Ha ragione Deleuze?

    L’artista prende un pezzo di Caos e l’incornicia! è la percezione di Deleuze. Ma come cavarsela, che dire di un’arte che fa a meno perfino del corpo dell’opera, quale definizione potrebbe rendere conto di una narrativa che in qualche modo ha a che fare con un’opera inspiegabile, e più ancora, e più generalmente: quale definizione di arte potrebbe comprendere insieme l’arte concettuale, il naturalismo reale della figura, il relazionale in atto...?

    Questo, il problema.

    Per molto tempo la risposta, la vulgata, alla domanda: cos’è l’arte? è stata che l’arte è forma, una risposta mai più scomparsa. Ma poi la domanda si è spostata, è riapparsa più in là: l’arte è forma, ma la forma cos’è?

    La domanda è poco diffusa.

    La risposta alla prima domanda, che l’arte è forma, è ancora molto diffusa.

    È la domanda ma la forma cos’è, che è poco diffusa.

    Uno che risponde è Derrida, ma si mantiene sulla pista della filosofia antica,5 spiega che la parola forma viene dalla metafisica, e che, nell’uso che se ne fa, unisce le due parole greche di eidos e morphé, eidos è di Platone e significa immagine mentale, morphè è di Aristotele e significa immagine visiva, così la forma - e poi l’opera d’arte - sarebbe l’unità di un’immagine visiva e di un’immagine mentale. Per Arthur Danto sarebbe l’unità più elementare e più misteriosa, quella di anima e di corpo. Scrive: «Quelle che siamo soliti definire arti visive, sono una tale complessa emulsione di spirito e materia che non può non balzarci immediatamente agli occhi l’esistenza di una profonda analogia filosofica tra opere d’arte ed esseri umani»6. Poi abbandonando l’equazione filosofico-antropologica ‘opere d’arte = esseri umani’, ricorda come l’opera d’arte, prima che il modernismo la riducesse a puro fatto visivo, era in effetti qualcosa che includeva praticamente i corpi e lo spirito, e fa l’esempio della Madonna del Rosario di Caravaggio: «La Madonna del Rosario di Caravaggio, si trova oggi appesa, come qualsiasi oggetto di arte visiva, nel Kunsthistorisches Museum di Vienna, come se fosse stata creata per stare in un museo, quando invece tutta la sua struttura richiede la dimensione di una cappella, dove coloro che con essa entrano in contatto, non lo fanno essenzialmente come osservatori o semplici spettatori, quanto piuttosto in qualità di fedeli, che devono essere inginocchiati, ed entrare a far parte della gente che prega e si inginocchia nel dipinto».

    Arthur C. Danto, nel saggio in questione, identifica il modernismo con l’arte astratta e dunque con quella che lui definisce come la pura visività, per cui riduce l’osservazione dell’opera alla pura percezione visiva, mentre, d’altra parte, afferma che - al di là del modernismo e della pittura astratta - la maggior parte delle opere d’arte in tutto il mondo sono state create per chi si mette in relazione con esse attraverso il proprio corpo e il proprio spirito, corpo e spirito - insiste - che corrispondono a corpo e spirito. Ancora una volta qualcosa di plotiniana memoria, per cui un fattore mistico-religioso, quasi profetico, si troverebbe dentro l’opera d’arte, e, simmetricamente, con l’uomo.

    Derrida fa un altro esempio, complica la linearità del ragionamento e, contro il realismo dell’osservazione, porta il risultato del senso in un vicolo cieco. Fa l’esempio del mondo, e dice che quando ci facciamo la domanda cos’è la forma? viene in mente la domanda, cos’è il mondo? Non solo, perché poi osserva anche che l’opera d’arte dentro il mondo non è una cosa normale, in serie con le altre cose: nessuna serie, nessuna congiunzione - insiste - nessuna e congiunzione tra l’opera d’arte e le altre cose, perché la e dell’opera d’arte - quando l’opera d’arte appare - è una e con l’accento, è la e di è, copula. Cioè Derrida convoca l’essere, la è con l’accento, quasi biblico, la è della genesi: sia il mondo e il mondo è stato, arrivando all’aporia del miracolo, esposta all’essere della forma l’opera d’arte ripeterebbe la nota formula: et verbum caro factum est, per dire: e la forma si è fatta opera d’arte.

    Risolve così l’intrigante interrogativo, la distinzione tra arte e forma: in un mondo di relazioni e correlazioni, nella relatività che le cose hanno tra di loro e nell’universo che le contiene, quando qualcosa interrompe la serialità lineare delle relazioni - qualcosa che è e basta -, l’isolamento più assoluto sarebbe esposto al silenzio dell’origine, il caso oscuro di qualcosa di inspiegabile, privo di relazioni, fuori dalla serie delle congiunzioni, e dunque a rischio del suo stesso stato. Derrida dice che l’opera d’arte è copulativa, la e con l’accento, la è copula, ma la circostanza generativa non è detta, per cui nel silenzio si perde la tracciabilità dell’operazione.

    Derrida si tiene sul filo della tradizione filosofica quando alla domanda cos’è l’arte chiama in causa la forma, ed è ancora secondo tradizione che alla domanda cos’è la forma risponde che la forma è per metà fisica e per metà metafisica. L’errore di Derrida è quello di insistere sul terreno filosofico: la forma - l’opera d’arte - sarebbe una e con l’accento; l’altro errore essendo quello di dire che la domanda sull’opera è la stessa che ci facciamo quando guardiamo il mondo. Fa l’errore dell’esempio: è come quando guardiamo il mondo, dice. Viene in mente Flaiano, che, all’amico che discutendo gli faceva sempre esempi, lamentava: non fare esempi, se no mi confondi. A confondere è che l’opera d’arte non è come il mondo, l’esempio è sbagliato, non è vero che guardando l’opera d’arte ci facciamo la stessa domanda di quando guardiamo il mondo; l’opera d’arte, la forma, sono tutt’altra cosa, né congiunzione, né copula: gli esempi, è vero, possono confondere. L’illazione è dispersiva, infinita.

    Gli artisti sono diversi, pensano in maniera diversa, stanno di più sulla cosalità dell’opera, e senza dire alcunché di risolutivo, dicono qualcosa di pratico, ne percepiscono il reale, qualcosa di vero, là nell’opera dove qualcosa avviene, e, alla domanda cos’è l’opera d’arte, correggono la domanda e la spostano: ne richiamano il fare, per cui spostano l’osservazione dall’opera sull’operazione, e ne raccontano l’evento.

    Succede come a Magritte, fa una pipa e scrive: questa non è una pipa.

    E Malevic che, facendo un quadrato bianco su fondo nero, osserva: «l’arte nuova ha posto in primo piano il principio secondo cui l’arte può ammettere solo se stessa come contenuto. Così noi troviamo in essa non l’idea di qualcosa, ma solo l’idea dell’arte stessa».

    È un passo avanti.

    Il passo è giusto, necessario ma non sufficiente, giusto è lo spostamento dalla filosofia della forma alla economia della forma: e intanto al lavoro di qualcosa che avviene perché quella cosa viene fatta, è un prodotto del lavoro, aprendo il problema a una domanda di tecnologia, quella dell’operazione dell’arte, che è lo spostamento giusto, anche se incompleto. L’insufficienza del passo, del gesto, sta nel fatto che non si sa ancora quale sia l’operazione, e anche se, facendo intendere che si tratta di un fare, ne mettono in evidenza il sintomo sia Magritte che Malevic. Non si fanno le domande della filosofia: cos’è l’arte, cos’è la forma, ma fanno intendere la risposta che l’arte è qualcosa che si fa, un manufatto, per cui è sul fare che portano l’osservazione, Magritte fa una pipa, e scrive che non è una pipa, intendendo la stessa cosa di Malevic, che l’opera d’arte non è una cosa, ma è l’arte stessa, e dunque spostando l’arte sulla la sua operazione.

    L’arte che - per gli artisti, questi o altri, come attestano le infinite interviste praticate dalla critica moderna7 -, a differenza di quel che ne hanno detto e ne dicono i filosofi, antichi e moderni, è qualcosa di procedurale, speculativa e/o dialettica, procedura di una certa prassi e un certo fare. Una differenza notevole, perché filosofi e artisti partono da due punti di osservazione diversi, due punti di vista diversi: i filosofi che, partendo dall’osservazione dell’opera d’arte compiuta, la guardano e ne stigmatizzano la forma: Plotino che guarda l’opera d’arte e improvvisamente, dice, brillò una forma; gli artisti - Magrite, Malevic, ecc., che invece partono dal lavoro che fanno, dalla operazione che compiono per arrivare all’opera d’arte.

    I filosofi vedono l’opera finita e quando appare: prima non c’è, poi viene esposta e la guardano, quando l’opera è fatta, finita e chiusa in se stessa, inaccessibile e ermetica, che non lascia intravedere nulla di quanto è occorso per farla, nulla della soggettività operativa e del movimento di sensi e di gesti, di intenzioni che l’hanno compiuta. Solo che – guardando - la domanda che si pongono non è cos’è l’opera d’arte, che avrebbe potuto portare a tutt’altre conclusioni, ma che cos’è l’arte, nel senso di quel che è come genere, cercandone il categoriale, il concettuale in termini di categoria. Sanno che si dice e si tratta di opera d’arte, ma l’osservazione va sulla categoria e sul genere dell’opera, in cerca della definibilità categoriale, del genere.

    Malevic dice che il contenuto dell’arte è l’arte stessa, sa che quel che deve farsi è l’artisticità, pensa allora nei termini dell’operazione che compiendosi si chiude in se stessa e chiudendosi rinchiude e blocca anche il movimento stesso, e tutto quello che il movimento dell’operazione trascina con sé nel corso dell’operazione, quel che è l’arte in sé e quel che la fa essere tale, questa indicazione generica, che intanto la distingue come un’operazione con quel che si lascia intravedere all’aperto della prassi e della volontà d’arte, e a partire da ciò che nella procedura si costituisce come qualcosa da realizzare, come ne parla anche Sol LeWitt a una domanda di Bonito Oliva: «il lavoro è fatto in termini tali da prevedere il risultato», e ancora: «qualunque cosa l’artista pensa di fare c’è sempre un senso finale».8 E, dunque, una fine e un fine.

    È che con quel che ne dice Magritte ancora non è visibile che cosa accade nel corso dell’operazione, in termini di presa e di impresa, e ai fini dell’arte, come me ricorda Bonito Oliva osservando a Sol LeWitt: «tu hai dichiarato che i materiali per costruire un’opera sono un ostacolo per la fantasia dell’artista»9, ci sarebbe dunque qualcosa che si oppone all’arte e all’artista, qualcosa che intanto si adopera e che si mette di traverso, qualcosa poi che l’arte attraversa e dissolve, e prima non è arte e anzi le oppone resistenza, ed è proprio con la procedura, - l’esecuzione dell’opera, la storia dell’operazione - che si fa anche come pratica e prassi del negativo, quel qualcosa che si interpone contro, per cui l’operazione è una certa iniziativa di lavoro, di impresa, che agisce in vista dell’opera, la cui operazione alla fine si chiude nell’opera ed è allora che ne risulta la forma, una costruzione, l’evento dell’opera, improvvisa come un enigma, imprevista come un enigma, intanto che, infine, è questo enigma che diventa la cosa che eccita l’opera e la anima, perché è proprio nell’enigma - prima non si sa - ciò in cui avviene l’operazione che si rivela, si esprime e ne conserva l’azione, la tensione dell’azione per l’arte. Malevic, dichiarando che lo scopo dell’arte è l’arte, dice la verità, ma non è un’ovvietà, perché nell’arte prima c’è qualcos’altro che non è arte e che l’arte prende, forma e trasforma, qualcosa che alla fine va oltre l’arte stessa: qualcosa che grazie all’arte diventa qualcos’altro, nascendo come ingrediente, ma grazie alla lavorazione artistica, diventando un’indefinita significatività. Le terminologie adottate in ogni tempo sono diverse, ma non divergenti, alla fine sono tutte esaltate, parlano di assoluto, di trascendentale, di trasfigurativo...

    Magritte fa più di Malevic, prende la stessa cosa che intende Malevic, l’arte, e la rende sperimentale, in primis come problema: disegna una pipa e dice che non è una pipa, ma vuol dire che lì nell’opera è disegnata una pipa, ma non si tratta della pipa, mostra la cosa ma dice che non si tratta di questa cosa, la cosa che noi chiamiamo l’ingrediente, e Magritte fa vedere come fosse il soggetto dell’opera o il tema, la sua stessa tesi conclusiva quasi, la proposta, e che però poi sconfessa immediatamente, irrimediabilmente: no, non è una pipa, la disegna ma non è quella la cosa dell’opera, neanche il tema e tantomeno la tesi: la cosa dell’opera è la pipa più la dichiarazione, allora cos’è? sarà ben altro, fa sospettare. La pipa non è, ma c’è, la chiama in causa e la nega, allora la pipa diventa un pre-testo simbolico e mediatico: una figura, una presenza, che, non essendo quello che sembra è qualcos’altro, addirittura la sua negazione, non è una pipa, qualcosa da negare, e negandola è allora che funziona, qualcosa di allegorico per dire altro, l’azione artistica essendo una lotta per la negazione di quello che appare, facendo pensare in assoluto che l’arte è questa lotta contro qualcosa che si oppone come fosse qualcosa di relativo, qualcosa del reale che entra nella scena dell’opera e però sotto l’iniziativa dell’arte, alla fine sparisce, si dissolve, e può dichiararlo: è l’unica opera d’arte nella quale l’artista è esplicito, fa la cosa e fa la dichiarazione contraria, quella cosa non è la cosa dell’opera, dichiara che il reale raffigurato, la rappresentazione che sta in bella estensione sul foglio, insomma quello che si vede, non è quello che si vede, perché la pipa non è una pipa, ma un disegno, un’opera d’arte.

    È quasi una sfida.

    Magritte ha ragione, quel foglio sul quale giace il disegno di una pipa, non è una pipa, è un disegno: una cosa d’arte, un’opera. È la dimostrazione più elementare che sia mai stata tentata. Ma non è così semplice: che non sia una pipa è facile da accertare, che sia un disegno pure, ma dar da intendere che si tratta di un’opera d’arte è di più, molto di più che dar da intendere che non si tratta di una pipa. Di fatto c’è solo quella negazione plateale e paradossale che ne introduce il sospetto: fare una cosa e negarne l’esistenza, farla sparire disegnandola, nella fattispecie cos’è se non un gioco concettuale? Il fatto che io disegni una pipa e poi scriva che non è una pipa, dove sta l’opera d’arte se non appunto nell’insieme, nell’azione di una trasformazione, una trasfigurazione, una trasformazione in forma, una pipa in un disegno: un foglio, il disegno e la scritta, cosa sono se non una enigmatica intenzione, e tout court una improvvisa, inaspettata, operazione di trasfigurazione, un gioco di prestigio, per cui una figura per la stessa dichiarazione d’artista non è più quella che sembra, finisce in una trasparenza, l’affermazione di un gioco, se no, cos’è?

    Ce n’era bisogno?

    Magritte fa il gioco delle tre carte, provocando a scoprire dov’è la carta segreta dell’opera, che di solito non viene mai fuori, ne vien fuori un’altra, magari quella banale che mostra la pipa, se non intervenisse l’artista a dire di no, che non è quella la carta segreta, essendo un’altra la carta, che non si vede, è più in là, tenuta segreta e nascosta tra la pipa e la dichiarazione scritta, il disegno e la negazione, in quel significante negativo che si insinua in mezzo, come fosse il ritorno del rimosso, dov’è la cosa vera è la cosa che non c’è, la cosa artistica, ed è l’io che tiene il gioco.

    Sono accadimenti psichici quelli interni all’arte. Trattandosi dell’io, che vuole l’artisticità e ne sa fare l’operazione, il gioco di prestigio, del prestigio dell’arte.

    La procedura, si diceva. Tra l’io e l’operazione.

    Più recentemente tutto questo è stato complicato: l’artista non è solo, dietro di lui c’è un mondo dell’arte, oppure è il tutto che viene sostenuto in un altro senso, spostato altrove, in una procedura più aperta al sociale, più istituzionale, si dice che l’arte è qualcosa il cui valore è istituzionale, nel senso che è qualcosa che prende valore e significato perché fa parte di un mondo dell’arte, dentro la sua cornice istituzionale. Questa, la teoria istituzionale, nasce e si afferma in ambito anglosassone, in seno all’estetica analitica,10 ed è George Dickie che, contro ogni teoria essenzialista dell’arte - l’opera d’arte avrebbe in sé stessa valore e significato -, dichiara che l’opera d’arte non si distingue per quello che ha in sé, qualcosa di intrinseco, qualche tratto che ne segnali la specificità artistica, bensì se e in quanto appartiene al mondo dell’arte inteso come campo istituzionale proprio dell’arte: per Dickie si tratta ancora e solo di persone, addetti ai lavori, istituzioni deputate, un puro ambiente di appartenenza, perché la nozione di ‘mondo dell’arte’ - come era stata elaborata da Arthur C. Danto - è una nozione molto più complessa, in quanto comprende in sé storie, narrazioni e idee.

    Quel che importa è sapere che la teoria istituzionale dell’arte afferma tout court che sono le istituzioni che conferiscono all’oggetto lo «status» di opera d’arte. Sarà lo scandalo dell’orinatoio di Duchamp, esposto nel 1917 alla Società degli artisti indipendenti a New York, che provocherà e aprirà la questione della istituzionalità o meno, peraltro tuttora aperta. Duchamp la negherà e soprattutto rifiuterà quell’inciso classificatorio con il quale Dickie diceva che l’opera d’arte è un artefatto, per i suoi ready-made e solo per essi è la sola essenzialità artistica che li rende artistici, una sorta di essenzialità paradossalmente di tipo non-sostanziale, non-artistica, secondo una essenzialità nuova, appunto non-sostanziale, non-artistica, di una certa non-arte contraria a ogni idea di artefatto, e poi isolandoli per rivendicarli come puramente appartenenti a lui solo: ho scelto i miei ready-made in quanto privi di attrattiva artistica, dirà. Anche perché Dickie invece aveva tentato di dire che l’orinatoio era stato scelto da Duchamp in quanto oggetto splendente, ben ricurvo, bianco come può esserlo una scultura di Brancusi. In questo modo anche Dickie rischiando la teoria essenzialista, dato che in effetti l’inciso classificatorio - l’opera d’arte è un artefatto - apre all’ipotesi essenzialista. Ne evita il rischio solo formulando una tabella,11 nella quale in quattro punti chiarisce come il mondo dell’arte conferisca lo status di artisticità, così:

    1)   un artista è una persona che partecipa consapevolmente alla produzione di un’opera d’arte;

    2)   un’opera d’arte è un artefatto di un tipo creato per essere presentato a un pubblico di un mondo dell’arte;

    3)   un pubblico è un insieme di persone preparate in qualche misura a comprendere l’oggetto che è loro presentato;

    4)   il mondo dell’arte è un insieme di tutti i sistemi dei mondi dell’arte;

    5)   in quanto sistema, il mondo dell’arte è una cornice per la presentazione di un’opera d’arte da parte di un artista al pubblico di un mondo dell’arte.

    Il difetto - lamentato dallo stesso Paolo D’angelo, sul cui libro stiamo inseguendo le evoluzioni dell’estetica analitica - sta nel fatto che la teoria istituzionale non dice assolutamente nulla circa il significato e l’importanza dell’arte, mentre tradizionalmente è proprio questo che ci si aspetta da una teoria estetica,12 trascurerebbe il principio della valutazione dell’opera d’arte, contro ogni aspettativa tradizionale e ogni altra opinione corrente, in accordo con le terminologie procedurali che si fermano nell’operazione di riconoscimento dell’opera d’arte grazie ai procedimenti che la identificano: bastando questo, bastando l’identificazione artistica dell’opera e la teoria istituzionale - e il suo corredo di argomenti procedurali – sarebbero contrari agli interrogativi essenzialisti. L’indifferenza valutativa, allora, appoggerebbe il proprio ragionamento sul fatto che un’opera d’arte non potrebbe essere di scarso o di nessun valore, e ciò per non cadere in contraddizione: se l’opera infatti viene identificata come opera d’arte, non possiamo classificarla né di poca né di cattiva arte, perché dell’arte si possono dire solo due cose: o che è arte, o che non è arte, nient’altro.

    Basta?

    Vedremo.

    Un tale criterio di comportamento è più diffuso di quanto non si pensi, si può quasi generalizzare pensando al pubblico di massa e comunque anche a certa élite che segue le manifestazioni d’arte, dalle fiere a ogni altro genere di mostre. La gente va e guarda, e ciò che vede è sempre e soltanto un’opera d’arte, non si fa altre domande. Non cerca guai, quelli del significato dell’opera, della misura di valore, perché nel primo caso s’è bevuta tutta la teoria procedurale e istituzionale - trattasi di opera d’arte perché fa parte di una mostra d’arte e basta -; il quanto e il come resterebbero un problema insolubile, e costituirebbe il discrezionale del singolo, nessun investimento ufficiale essendo possibile sul problema, nemmeno di parte critica. Per quanto riguarda il valore ci penserebbe il mercato: che cosa si vuole di più definito del prezzo? Bastando il listino, e quanto all’asta bastando il gioco della domanda e dell’offerta. Quale altra soluzione se no, aldilà del valore di mercato, la cui indicazione si gioverebbe della forma numerica del prezzo, certamente più sicura che quella approssimativa dell’interpretazione, esposta com’è a tutte le obiezioni del caso. È da quando il mercato ha egemonizzato la gestione dell’arte che in effetti non si fanno più troppe discussioni, se non in termini di idiosincrasie soggettive, essendo il secondo me il povero metro di discussione concesso, e di rincalzo il magro narcisismo dell’io penso.

    E la critica d’arte?

    Esiste ancora la critica d’arte? e che mestiere fa? chi la coltiva? dove si trova e dove opera? ce n’è ancora bisogno?

    I critici si sono ritirati tra i libri e le riviste, o stanno sul mercato sotto la forma più recente di curatori: come curatori ce n’è un gran bisogno, visto quello che è diventata l’arte, la sua incessante effervescenza mondiale che non ha più né fini né confini, e pare manovrata come un’energia capace di far girare tutto: l’economia, la vita delle città, la socialità individuale e quella di massa. Non essendo la tipologia estetica dell’arte attuale a darsi questa potenza, quanto piuttosto la gestione economica e finanziaria di mercato giunta all’ebbrezza dei propri desideri di onnipotenza: «Le ‘ragioni economiche’ dell’arte contemporanea sono indiscutibili, se non, addirittura, imprescindibili. La dimensione artistica ed estetica, di per sé non spiega lo sviluppo impetuoso e globale del mercato dell’arte contemporanea, sono beni economici, al contempo ‘beni di lusso’ e ‘beni di investimento’, in una combinazione che trova difficilmente riscontro in altri settori industriali o finanziari».13 Sono il danaro, il potere, ogni altra medialità di dominio, che cercano l’arte, come il danaro sporco cerca i paradisi fiscali. La stessa politica, giunta ormai al disprezzo pubblico, la sporca attività di certe carriere, cercano l’arte per riciclarsi e darsi un po’ di luce rispetto al declino in cui temono di finire, e contro l’ombra nella quale stanno per cadere. In generale nello specifico sono almeno quattro le motivazioni che spingono al consumo dell’arte contemporanea, collegate agli obiettivi e alle esigenze di famiglie, imprese, associazioni e istituzioni culturali: «la prima di queste esigenze è connessa alla necessità di arredare in modo piacevole la casa e alimenta la domanda di opere a carattere decorativo. Il bisogno di comunicare un’immagine di prestigio induce i collezionisti e le imprese a domandare opere d’arte di artisti famosi. Il bisogno culturale e di credibile rappresentazione di sé, alimenta una domanda di opere d’avanguardia. Infine, il bisogno speculativo e di diversificazione del proprio portafoglio in investimenti alternativi alimenta la domanda di opere d’arte e di servizi di art banking».14

    E però - vista la crisi mondiale in atto dell’economia, e con essa il decadimento complessivo della cultura, sempre più emarginata e sostituita dalla comunicazione di massa, in un momento in cui sembra che l’intelligenza analitica e creativa e il sapere intellettuale debbano fare un passo indietro per lasciare passare e andare avanti il mondo sociale e di massa con la sua intelligenza elementare a bassa tenuta concettuale - l’unico mondo peraltro che può sostenere il ritmo di una visione universale specifica, l’unico che sembra consentire alla cultura di non incepparsi pericolosamente e alla storia in atto di riaprire la vita al protagonismo del pensiero, in un momento del genere così caotico tra crisi e bolle di mercato, euforia e disorientamento, la critica d’arte non solo non ha potenza intellettuale, tranne rari momenti e rari esempi, ma sembra doppiamente soffrire di uno stato di incuria e abbandono: «Ci si aspetterebbe che fossero tra i principali protagonisti della scena, ma non è così: galleristi, esperti d’aste e collezionisti sostengono all’unanimità che i critici hanno pochissima influenza sul mondo dell’arte, sulle possibilità di successo di un artista e ancor meno sul mercato».15

    Ma, com’è possibile che i critici abbiano così poco credito e qual è il loro ruolo nell’arte? si domanda Jerry Saltz, veterano della critica d’arte di New-York, a conferma di come mai in questi anni i critici siano stati cosi ininfluenti, restii a prendere posizione sia che si parli male sia che si parli bene degli artisti e delle loro opere. A marginalizzarli è lo stesso mercato e l’influenza che esso determina proprio sulla esposizione e sulla segnalazione delle opere: conta poco la critica, e le opere prendono valutazione dalla fama dei galleristi che li presentano. È sempre più frequente il vezzo di parlare delle opere in termini di mistica della pubblicità, per esempio dicendo che la tale opera permette allo spettatore di immergersi nell’infinito, nella luce spirituale del blu, o dicendo che la talaltra rappresenta una finestra sull’eterno o nel regno dello spirito. Dicendo praticamente il nulla.

    Finita in mano dei curatori - i sans papier che devono gestire un tipo di arte aperta in tutte le direzioni della possibilità di invenzione e comunicazione artistica -, l’arte interessa meno per i significati che per il gioco decorativo che mette in atto: i curatori stessi mancando in genere della cultura necessaria, loro che anche ideologicamente e linguisticamente sembrano orientati alla mentalità di massa, così come sono i collezionisti più vicini alla loro mentalità che a quella dei critici. D’altra parte, in una fenomenologia di massa, nella organizzazione sempre più turistica del rapporto arte-società, la percezione estetica si perde e al suo posto il segnale di valore prontamente percepito si incontra nel prezzo, specialmente da quando il mercato è diventato la fonte più comprensibile e, nelle sue proporzioni recenti, la più accessibile.

    Chi se n’è accorto per tempo è Walter Benjamin - Paul Virilio è un po’ in ritardo - quando, studiando l’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, ha sviluppato tutta una sua teoria centrata sulla perdita dell’aura, effetto un tempo della svalutazione intrinseca dell’opera d’arte e della sua autenticità, che lui indica come la quintessenza istantanea e di cui si perde proprio l’hic et nunc dell’opera, il momento stesso della sua percezione: la sua teoria non è stata valutata in tutta la sua portata storica, e la si è limitata alla questione dell’aura e della sua perdita. Non si è riusciti a vedere tutta l’estensione su cui gioca la teoria, che da Benjamin è sostenuta su due coefficienti teorici di grande portata, due veri motori di quello che possiamo chiamare il successo storico dell’arte contemporanea: dei quali uno è costituito dalla pressione delle masse, il loro ingresso impetuoso nella storia e la necessità di avvicinare loro la storia, intanto aprendo loro la realtà e avvicinando le masse alla realtà; l’altro essendo l’egemonia storica dello sviluppo tecnologico, non quello limitato e limitativo alla sola riproducibilità tecnica dell’opera d’arte, fotografia, cinema e dintorni, ma quello più complessivo che riguarda tutta l’attuale evoluzione sociale in senso tecnico, attraverso tutte le tecniche dell’informazione, dell’organizzazione degli eventi pubblici e della massificazione dei significati e dei valori.

    Benjamin aveva centrato il suo ragionamento su tutto quanto stava succedendo all’opera d’arte nell’era della riproducibilità tecnica, e per essa alla fine dell’aura. Ma l’intero percorso del ragionamento, e specialmente il taglio storico-analitico dato a tutta l’evoluzione del ragionamento, andava recuperato come il dato più significativo, perché cambiava qualcosa di più epocale, e cioè lo sviluppo di massa della cultura e del sapere, e nello specifico la gestione politecnica del mercato d’arte. Qualcosa ben più importante e avvolgente che non la perdita d’aura dell’opera d’arte, qualcosa che vedeva e prevedeva tutto quanto di nuovo, di sconvolgente e di esorbitante stava per accadere e specialmente sarebbe accaduto nella storia dell’arte e nella cultura dell’arte, in termini di innovazione radicale e totale dell’opera, e in termini di apparati gestionali e mediatici e loro incidenza nel sistema di percezione tra approccio di massa e arte: «Nel giro di lunghi periodi storici - scrive nel ’36 - insieme coi modi complessivi di esistenza delle collettività umane, si modificano anche i modi e i generi della loro percezione». E poi ancora, in forma di legge generale: «Il modo secondo cui si organizza la percezione umana - il medium in cui essa ha luogo -, non è condizionato soltanto in senso naturale, ma anche storico».16

    Ne va, come si capisce, della stessa percezione estetica, ossia della forma dell’apprendimento artistico, della qualità del modo di apprendere i segni nuovi delle opere d’arte, e questo sia da parte degli artisti che da parte dei cultori dell’arte. Benjamin pone sotto testo la questione estetica per eccellenza e per antonomasia e cioè la questione di quella dottrina della percezione che i greci - nota - chiamavano estetica: la questione di quel che appare dell’arte e di quel che se ne apprende: questione strategica che decide del bene e del male di tutta intera la visione della vita e del mondo dell’arte, non per nulla gestita dal mercato.

    Mai uguale, la percezione è ogni volta diversa, perché oltre ai cambiamenti della evoluzione generale, molto più lenti e più uniformi, intervengono i molteplici condizionamenti della evoluzione ambientale e personale, e tra questi quelli progettati e diffusi, come succede, in termini mediatici nei molteplici casi e momenti delle mostre d’arte e specialmente degli eventi spettacolarizzati nelle occasioni delle grandi manifestazioni contemporanee. Quando poi queste prendono le dimensioni di massa e puntano allo stesso coinvolgimento etico/estetico delle masse, allora l’atteggiamento psicologico e percettivo e la stessa tonalità emotiva da una parte subiscono l’incidenza di tutto il battage del marketing relazionale messo in atto, dall’altra per le stesse ragioni perdono gli equilibri e il realismo critico necessari allo scopo di una visione realistica e consapevole: «L’adeguamento della realtà alle masse e delle masse alla realtà è un processo di portata illimitata sia per il pensiero sia per la visione della realtà».17

    Benjamin fa partire l’escursus del ragionamento - circa le condizioni storiche della perdita del significato estetico dell’opera d’arte, malgrado il titolo restrittivo - da un’osservazione circa il lavoro di Marx, in qualche modo:

    Marx aveva prodotto le sue analisi sul modo di produzione capitalistico e aveva trovato così la prognosi circa la fine del capitalismo.

    Interessato all’arte e alle sue evoluzioni, parte dalle analisi circa le condizioni storiche della proletarizzazione intellettuale della società, la sua evoluzione culturale di massa, e trova qui i segnali di una prognosi del decadimento dell’arte: «Quando Marx si accinse all’analisi del modo di produzione capitalistico, questo era ai suoi inizi. Marx orientò le sue ricerche in modo tale che esse vennero ad assumere un valore di prognosi. Risalì ai rapporti fondamentali della produzione capitalistica e li espose in modo che da essi risultava che cosa ci si potesse aspettare in futuro dal capitalismo. Risultò che ci si poteva aspettare non soltanto uno sfruttamento sempre più intenso dei proletari, ma anche, in definitiva, il prodursi di condizioni che avrebbero reso possibile la soppressine del capitalismo stesso».18

    Interessante è notare che un metodo simile - nel primo caso usato per esaminare un sistema economico, nel secondo per esaminare un sistema culturale e artistico - porta a produrre la stessa logica di diagnosi e prognosi, rendendo possibile il prodursi di un sapere profetico. Per Benjamin, dunque, è l’analisi marxista delle condizioni di produzione dell’arte che comporta il risultato di una certa estetica dell’arte, secondo il regime della sua percezione. La quale - come sintomo e come funzione - si troverebbe nelle condizioni della sua sparizione prossima, come se si fosse nell’era della percezione che sta volgendo al termine.

    Anche Hegel ne parla, anzi è l’Estetica di Hegel che ne costituisce la sua letteratura storica per antonomasia, anche perché ne compromette l’arte stessa. È ormai un classico in argomenti del genere citare il passo delle sue Lezioni di estetica dove si afferma l’idea che l’arte ormai è e rimane per noi un passato, volgarmente inteso come morte dell’arte. Ma il metodo di Hegel era quello speculativo dialettico, e il modo di morire dell’arte era visto nella evoluzione dell’arte stessa sempre meno verso l’arte e l’estetica e sempre più verso la filosofia della coscienza: «L’arte ci invita alla meditazione, ma non allo scopo di ricreare l’arte, bensì per conoscere scientificamente che cosa sia l’arte». Ora il discrimine dell’arte è il simbolico, ora è tra forma e contenuto che l’arte combatte la sua vera esistenza: il contenuto non è ancora lo scopo, è un nodo simbolico solubile solo nell’arte, e scioglierlo, la sua dissoluzione, è lo scopo dell’arte, del suo trattamento operativo e mediatico. L’arte è forma e l’opera d’arte è un prodotto, viene più o meno tratta dai sensi, essa come tale è il risultato di un lavoro, il lavoro è complesso ed è prima quello tecnico della soggettivizzazione formale, poi quello della dissoluzione del contenuto e della sua trasformazione/trasfigurazione mediatica: anche Hegel attira l’attenzione sull’aspetto tecnico, per gli affari della soggettività. Qui l’arte ha ancora in se stessa un limite e passa quindi a forme più alte della coscienza... l’arte non vale più per noi come il modo più alto in cui la verità si dà esistenza... nel progredire dello sviluppo culturale di ogni popolo giunge in generale l’epoca in cui l’arte rimanda oltre se stessa... quest’epoca è la nostra... la devozione non appartiene più all’arte... è il libero pensiero che va riconosciuto come questa forma purissima del sapere... solo l’idea è il vero.

    La scena è violenta, bisogna leggere Ficthe e Hegel per vedere quanta lotta se ne consumi, quanta guerra si combatta nel campo dello spirito. È Hegel che dice io sono una lotta, e l’idealismo come fenomenologia dello spirito svela di colpo di che scena si tratti: il travaglio di un io in lotta che, con un avversario come il non-io, i suoi oggetti, i suoi contenuti, prima li raccoglie e se ne commuove, ma poi li esprime, li trasforma, e li volatilizza in fughe d’estasi, in figure visionarie e concettuali, evocandoli fin dalla nascita: questa è la guerra. Non appena la filosofia abbandona il suo vecchio campo metafisico e trova che il terreno dove ci si gioca tutto è quello della psicologia, avvistata intanto come fenomenologia dello spirito, allora il soggetto pensa, lavora tra sé e l’ambiente del pensiero, dove trova i mezzi in vista della dissoluzione del contenuto e della sua forma simbolica e grazie al lavoro e alle operazioni trasfigurative dell’artisticità.

    La questione è politica per Benjamin, il processo di massificazione capitalistico produrrebbe le condizioni di una soggettività sempre più conflittuale con le esigenze nuove e ne dà tutte le circostanze, delle quali la più determinante sarebbe il movimento diffuso attraverso il quale le masse introducono tra le necessità della socializzazione un condizionamento della cultura orientato verso un sapere semplice e il facile, forzando l’organizzazione istituzionale dell’arte a darsi forme e funzioni praticabili al loro livello.

    Non si obietti che oggi l’uso e il consumo dell’arte siano riservati alle élite finanziarie, capaci di grandi redditi e altresì di facili accessi ai mercati dell’arte, perché effettivamente le loro condizioni culturali non sono granché dissimili da quelle generiche di tutti: Benjamin in modo perentorio ne aveva già parlato, trovando che in generale era ormai in atto un processo di proletarizzazione degli uomini d’oggi, d’altra parte il medium in cui ha luogo il segnale dell’autenticità e della quintessenza dell’arte, il segnale dell’aura, è esso stesso impregnato della nuova storicità aperta alle masse e alla loro condizione di mentalità tecnica. Beniamin ne fa il contrassegno formale della nuova percezione in via di esaurimento estetico, le cui modificazioni espressive vanno a produrre appunto la decadenza dell’aura. L’aura, spiega Benjamin, al naturale, è quella che si respira in montagna in un pomeriggio d’estate oppure in un momento di riposo all’ombra di un ramo: l’esempio non è gran che, riportato per simmetria o similarità, vuol segnalare quel doppio movimento di segno e di senso dell’opera d’arte tra ispirazione e respirazione. Sensazione d’aria o d’anima che nell’opera d’arte contemporanea si perde nel processo di adeguamento artistico dell’opera alle masse e delle masse all’opera d’arte. Benjamin trova che l’arte nei momenti più critici della sua evoluzione ha sempre cercato di generare esigenze che al momento non era in grado di soddisfare, ogni forma d’arte a un certo punto mira a certi effetti che soltanto sofisticati

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