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L'industria dei sensi
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E-book516 pagine6 ore

L'industria dei sensi

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Info su questo ebook

Una industria di nuovo tipo si è affermata nel ‘900 e ha cambiato l’intera storia umana. È un ciclo industriale che lavora in permanenza alla costruzione del senso della vita, costruendo il con-senso politico necessario. L’industria di senso rompe i millenari rapporti di costruzione etico-morale delle società, marginalizza le strutture sociali e politiche con una ideologia autonoma ed entra in diretta concorrenza con le strutture culturali e religiose dei territori che invade.   
Il testo parte dalla ricostruzione del ruolo delle tecnologie della comunicazione nella storia umana; ricostruisce il ruolo della scrittura nella storia fino alla affermazione dei mass media del ’900 e del web. È nel passaggio della crisi del ’29 negli USA che emerge il primo nocciolo dell’Industria di senso, la modalità di funzionamento della comunicazione di massa di tipo commerciale che in pochi decenni conquisterà il mondo e ne condizionerà definitivamente il suo sviluppo. Descrive il ruolo dell’Italia e della politica italiana nella sua affermazione in Europa.
La possibile uscita dalla tenaglia è indicata nel libro attraverso la costruzione di un nuovo modello di stato sociale: Il welfare delle relazioni.
Il testo - primo volume della nuova collana La Transizione - è arricchito da una prefazione del mediologo Alberto Abruzzese e da una post-fazione del politologo Giorgio Galli.
LinguaItaliano
Data di uscita5 feb 2021
ISBN9788899857615
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    Anteprima del libro

    L'industria dei sensi - Sergio Bellucci

    Note

    L'industria dei sensi

    LA TRANSIZIONE

    L’industria dei sensi

    © 2019 by HARPO Srls

    ISBN: 978-88-99857-59-2

    Collana diretta da Sergio Bellucci

    Comitato editoriale: Alberto Abruzzese, Amarildo Arzuffi, Marco Berlinguer,

    Simonetta Carrarini, Fabio Del Papa, Giorgio Galli, Ignazio Licata, Giulio Sapelli, Francesco Tupone, Angelo Zaccone Teodosi

    Senza regolare autorizzazione è vietata la riproduzione anche parziale o a uso interno­ didattico, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia.

    I edizione settembre 2019

    redazione@harpoeditore.it

    www.harpoeditore.it

    HARPO srls

    Via Giovanni Michelotti 29 - 00158 Roma

    Prefazione di Alberto Abruzzese

    Lettera all’amico Sergio Bellucci

    ovvero

    per un testo importante e generoso su ciò che più conta ora e qui nel nostro mondo.

    Caro Sergio, il tuo è un testo importante e generoso su ciò che più conta ora e qui nel nostro mondo, e per questo va accolto e trattato come merita. Fuori dei cerimoniali d’uso. Invece di scrivere del tuo libro in forma di prefazione ho scelto di farlo per lettera. Queste mie pagine a commento del tuo lavoro ti sono dedicate in forma epistolare non per semplice artificio. Non per mostrare un sovrappiù di gentilezza e disponibilità all’autore, ma perché in questo tuo libro ho trovato la traccia comune, biografica e culturale, da seguire per discuterne in libera sintonia tra me e te. E questa traccia ha i tratti in tutto particolari di una vecchia amicizia di formazione. Infatti, nel nostro passato abbiamo avuto in comune un’esperienza di vita importante ma dalla quale, in modo diverso eppure analogo, abbiamo cercato di sottrarre e progressivamente emancipare la nostra persona: la tua di sindacalista e la mia di sociologo. Al di là del mestiere e al di là della disciplina. Questa esperienza è stata l’ industria dello spettacolo . La matrice, quindi, della dimensione digitale che oggi sta assorbendo in sé ogni classica dimensione umana, ogni sua identità, ogni sua dialettica e conflittualità: estetica, etica e politica. L’industria dello spettacolo fu per noi il mondo – la volontà di auto-rappresentazione del mondo – al quale dovevamo guardare perché segnava una prima grande metamorfosi dei linguaggi espressivi dopo il lavoro creativo compiuto dalla trasformazione in metropoli della civiltà urbana, quella ideologicamente e simbolicamente incardinata nella città rinascimentale del pensiero umanista (di cui la società civile in quanto astrazione normativa, comandamento, è oggi a mio avviso il più pallido e insieme cieco e tracotante riverbero). Lo facemmo avendo in testa ancora le qualità della politica moderna – quella dei conflitti di classe, quella dei partiti e dello stato, quella del lavoro e dell’economia capitalista – ma consapevoli del fatto che nelle forme dello spettacolo si stessero manifestando qualità diverse o quantomeno più complesse: un salto epocale della civilizzazione moderna allora non interamente compreso e più spesso frainteso dagli stessi soggetti che lo avevano prodotto. La situazione in cui tu ed io ci siamo trovati, forse ancor più che scegliere, è stata quella di cercare di far capire il mondo ai suoi ritardatari. Sugli effettivi successi ottenuti da allora ad oggi, un giorno dovremmo ragionare insieme, ma già questa è una occasione buona.

    Lo spettacolo consiste in un apparato antropologico, istintivo prima ancora che si facesse rituale, economico e sociale, caratterizzato da elevatissime doti di fascinazione, rapimento e insieme dono , alle quali, anche scegliendo altra postura intellettuale da quella in tutto organica dello spettatore, è ben difficile sfuggire: tanto operando all’interno, dentro la sua macchina, dentro il suo modo di produzione, di organizzazione del lavoro e del mercato, quanto operando all’esterno, analizzando i contenuti sociali dell’immaginario individuale e collettivo che alimentano questo specifico apparato relazionale e insieme ne sono alimentati. E noi, allora, nei nostri rispettivi ambiti professionali, non abbiamo resistito – direi per fortuna – a renderci partecipi di quel salto verso una società sempre più immateriale e, proprio a ragione di questo, sempre più reale . Quel mondo reale che in qualche modo, già allora e sempre più ora, ci ha reso e continua a renderci sensibili alla politica senza che sia più sia lo spazio della polis a tracciarne i limiti e le leggi.

    Quella vocazione, vissuta da amatori dell’oggetto e insieme da militanti del pensiero politico che ci aveva formato, si è andata progressivamente spegnendo in me perché ho creduto di percepirne più chiaramente i rischi e le contraddizioni interne: contraddizioni sopravvenute anche nel clima a suo modo euforico del pensiero post-moderno, di certo illuminante sul tempo reticolare e interstiziale subentrato al tempo lineare della identità occidentale – della sua rigidità mentale, della sua passione sacrificale e insieme anaffettiva – ma incapace di superare davvero lo zoccolo duro della propria vocazione ideologica. Superare cioè la falsa coscienza che, a leggere bene Marx, sarebbe infatti restata in tutto organica a qualsiasi politica, compresa quella dei movimenti operai, sino a quando non fosse caduto il modo di produzione capitalista. La qual cosa significava presagire, avvertire, che anche il comunismo sarebbe stato frutto di falsa coscienza, fosse arrivato o meno al potere. Ho allora cominciato a capire che nello scrivere sui consumi della società dello spettacolo e tanto più sulla società delle reti – adesso che società dello spettacolo e dell’informazione sono entrate in una dimensione digitale che le assorbe in sé aumentandone vertiginosamente i conflitti tra persona e potere – avrei corso il rischio di scrivere inutilmente: al massimo per amore di me stesso (di quell’attrazione narcisista – punctum dello scambio simbolico tra immagine e morte di sé – che ancora si manifesta nelle persone disperatamente affette da amatorismo cinematografico, televisivo e ora post-televisivo).

    Di fronte a un vecchio amico come te non conviene mentire, proprio in virtù della vocazione che ci ha legato e che tu hai sempre poi rilanciata in vari tuoi saggi di grande impegno, sino ad arrivare a trarne ora le conclusioni con questo ultimo tuo testo di sintesi e progetto. Non conviene mentire, è necessario riuscire a confessarsi: di fronte a un libro di scienze umane applicate come il tuo, mi sento inadeguato (del resto anche tu in conclusione del tuo discorso, passando dalla storia ai fatti, finisci per suggerire che le scienze umane, in cui la politica stessa è restata imprigionata, girino sempre ancora intorno a se stesse, girino a vuoto, mentre il pensiero scientifico è schizzato clamorosamente avanti). È qualche tempo, dunque, che mi riesce sempre più difficile pensare attraverso la dimensione di un libro, la qual cosa vale anche nel farne una recensione o una introduzione, perché è il pensare di per sé ad essere ancora obbligato nella forma libro (e tu cerchi infatti di superarla nella tua infaticabile attività sul campo). Questa incapacità, inadeguatezza, mi nasce dal senso di impotenza che provo di fronte a un mondo che non abbiamo più il tempo di pensare in quanto le sue sempre più rapide metamorfosi si stanno spingendo molto oltre la nostra mente storica, disciplinare e professionale, appunto quella che nel libro, di pari passo con la civilizzazione occidentale, ha trovato il proprio metodo e il proprio strumento di affermazione sociale in chiave universalista. Il libro è stato il mezzo, il ritrovato ideale, dispotico, necessario a declinare il noi della storia narrando a proprio nome ogni corpo, carne o cosa del mondo vivente. Questo noi è ora invece sempre più raccontato dalle dimensioni plurime che ha così da tanti secoli creduto di potere assoggettare. In più passaggi del tuo testo anche tu convieni su questo nuovo orizzonte ed anzi mi pare che – assai meglio di altri – le tue ampie ricostruzioni storiche del problema riescano a sottrarre il significato di nuovo all’ideologia progressista dei moderni e concepirlo piuttosto come forma di rivelazione.

    Con una certa sfrontatezza – ammettiamolo – pare proprio che il pensiero umano accetti il paradosso di potere continuare a prendere tempo pur vivendo nella certezza della sua prossima, vicinissima, scadenza. Anzi si potrebbe dire che tale scadenza s’è mostrata sin dall’inizio dell’agire umano: è proprio questo prendere tempo dell’essere umano sulla vita, su ogni forma di vita, compresa la propria, a costituire da sempre le forme di dominio che lungo l’epoca della società industriale e post-industriale si sono volute attribuire al capitalismo (falsa coscienza anche questa dismissione di responsabilità, anzi la più grave) invece che alla volontà di potenza dell’essere umano in quanto tale. Tu su questo piano ti muovi invece con l’ottimismo (molto meglio dirlo energia vitale?) che viene dalla tua certezza non nella politica così come è ma così come dovrebbe essere reinventata. È un bel salto concettuale il tuo, molto importante e che spero venga colto. Tuttavia, per me resta, come ti dirò in conclusione, un passaggio al quale mi riesce difficile potere credere, confidare, interamente.

    Ho letto con grande interesse un testo così teoricamente stratificato come il tuo (privo di accademismi: persino i tuoi rimandi bibliografici sono il diario di un militante). Con mie parole: il tuo è un saggio sul tempo presente di un capitalismo storico (stati, istituzioni, imprese, mercati) che fa sempre più da spettatore del proprio naufragio e insieme del suo delirio di potenza con altri mezzi e persino per altri fini. Quindi una situazione epocale tanto critica da richiedere un pensiero in grado di offrire una via d’uscita. Perché? In nome della natura umana, questa è la tua semplice risposta! A incoraggiarmi nella lettura è stato il fatto che vi ho trovato la stessa mia sensibilità, la stessa mia vocazione a mettere al centro del pensiero la sofferenza umana delle persone che siamo. Quindi lo ho sentito vicino – amico, appunto – per quanto possa sentire a tratti distanti le prospettive pratiche che soddisfano il suo istinto, desiderio, di militante della politica. Diversa da me la tua via d’uscita? Certamente non su un punto cruciale: non sei tra i tanti che – per vizio culturale, corporativismo sapienziale, superstizione popolare, opportunismo intellettuale – adottano la ricorrente, classica, contrapposizione frontale tra valori della tecnica (i suoi mezzi) e valori umani (i loro fini), in quanto schemi e modelli mentali di autoconservazione del sé come unico valido, vero, criterio di orientamento e valutazione dei conflitti sociali e del loro destino. Anzi, come ho detto, gran parte del tuo disegno teorico-operativo dipende dalle nuove occasioni di contrattazione sociale che proprio l’attuale permutazione informatica del mondo va offrendo grazie alla propria natura, come mai in passato, polifonica, polisensoriale, interattiva e iper-relazionale.

    Ti sei proposto un piano di critica e riforma della politica che parte dalla constatazione di un tradimento delle risorse rivelate dalla fase nascente della industria del senso. Questo spiega la vastità del quadro storico che hai tracciato al fine di potere concludere sulla necessità di acquisire consapevolezza sul significato di una industria che si è finalmente aperta ai sensi così a lungo imbrigliati dentro il suo modello di sviluppo. Conviene riportare le tue stesse parole:

    Questo lavoro conclude una fase di riflessione su quelle che io definisco, da diversi anni, le tre novità principali del capitalismo contemporaneo, su quelle che ritengo le innovazioni più espressive e meno introiettate nelle analisi e nelle pratiche della sinistra italiana, europea e, probabilmente, mondiale. Si tratta di tre elementi che poggiano su una tendenza che ha preso l’avvio con il processo d’industrializzazione, certo, ma che è diventata dirompente con l’arrivo delle tecnologie digitali. Oggi potremmo dire che rappresentano i pilastri di un passaggio di paradigma nella storia umana che va messo rapidamente sotto analisi critica. Bisogna uscire dallo shock che spacca in due campi l’approccio alle novità che ci si presentano davanti agli occhi. Non possiamo più permetterci di essere apocalittici e rifiutare il quadro tecno-socio-economico che l’innovazione propone, né trasformarci in pedine integrate del nuovo che avanza. Occorre saper cogliere il senso di marcia, metterlo a critica e proporre nuovi quadri sociali ed economici attraverso la creazione di un ‘senso’ che sappia sfruttare le dinamiche collettive che avanzano nei comportamenti umani. Sempre di più, infatti, ci troviamo davanti a comportamenti delle persone che si affidano alla capacità di condivisione e cooperazione che le tecnologie informatiche ci mettono a disposizione. Questo ‘a prescindere’ dai gradi di controllo che Governi e Multinazionali esprimono attraverso le stesse reti, meccanismi di controllo che non erano mai andati così in profondità come ora. E la mole di informazioni a disposizione sta rendendo il mondo un eco-sistema di tipo nuovo.

    È centrale il tuo riferimento critico alle tradizioni apocalittiche – esse non sono state mai un superamento delle forme di potere alle quali si riferivano ma all’opposto una loro integrazione e un loro rafforzamento. La sfida non è quella sostanzialmente opportunista e continuista avanzata dallo slogan né apocalittici né integrati ma quella semmai espressa dalla formula apocalittici e insieme integrati in grado di non offrire nessuna via d’uscita utopica. Il problema da te esposto si riassume per me nell’ammettere che le professioni della ricerca e della formazione tanto quanto quelle della politica – vale a dire tutto ciò che il pensiero occidentale ha elaborato ai fini della vita umana – sono professioni ( tecnicalità ) ormai sospese ai bordi del post-umano (tu tocchi questa dimensione senza fascinazioni fantascientifiche, anche a ragione, credo, di temerne un esito anti-umano). Professioni sospese sullo spazio sempre meno antropocentrico, sempre più multi-sensoriale, che più sfugge al razionalismo strumentale così come alle ideologie liberatorie delle culture tradizionali, al loro inane principio speranza. Alla loro capacità di persuasione. La drammaturgia interiore di questo tuo libro è ispirata proprio da questo nostro essere sull’orlo di professioni moderne… ma si può anche dire ruvidamente moderne, proprio quanto più sofisticate divengono. Professioni che non possono più funzionare. Neppure per se stesse, per la sopravvivenza dei loro stessi dispositivi. Il senso della vita è inghiottito nel vuoto che si è aperto tra la caduta delle vocazioni moderne, quelle in origine ispirate o meglio fatte ispirare da una strategia del profitto socialmente contrattata con l’interesse generale, e la costruzione automatica di vocazioni individuali senza più possibilità di resistenza, autonomia e progetto. Da un lato: il salto (la mossa del cavallo) che il mondo va compiendo nella sua incessante artificializzazione, la quale – da sempre stato di necessità e volontà di potenza del vivente – sino a ieri era affidata in massima parte all’essere umano, alle sue molteplici forme di sovranità. Dall’altro lato: la radicale riduzione o meglio mortificazione della formazione culturale necessaria a costruire professionisti dotati di una sensibilità vocazionale adeguata al tempo/spazio delle reti. Adeguata all’intera permutazione tecnologica di cui esse sono veicoli e nodi, relazioni e luoghi, corpi e carne: algoritmi, intelligenza artificiale, robot e via dicendo.

    In mezzo c’è la sfida di chi come te – ma penso ad altri, parimenti eccentrici, ad esempio Michele Mezza oppure Massimo Di Felice (per il tuo discorso sulla necessità di riconoscere le condizioni oggettive di un radicale superamento dell’antropocentrismo) – cerca di incardinare la sua proposta di emancipazione a partire dalla oggettiva constatazione che tutte le tradizioni politiche, compresa ogni loro attuale metamorfosi stilistica, ogni loro degrado o smarrimento, vanno crollando in reputazione e efficacia a misura del crollo dei loro stessi referenti storici e sociali. Cioè le istituzioni che sino ad oggi si sono caricate (e impossessate) del compito di rappresentare gli interessi della collettività delle persone. Insomma, di garantire o fare credere di garantire il senso della vita umana. A questa constatazione si aggiunge, e si fa determinante, quella che vede i reali luoghi di potere, le sedi in cui si prendono le decisioni che davvero contano, proprio là dove opera la rivoluzione tecnologica in atto, la rivoluzione che noi temiamo avvenga senza altra soggettività se non quella che la ha governata sin dall’inizio. I suoi fini vengono selezionati e elaborati fuori da ogni possibile controllo da parte di una società civile ridotta a ostaggio di culture e prassi politiche ormai scadute da tempo. E sempre più al servizio delle leggi inflessibili dell’economia sulle nazioni e sulla qualità della vita dei loro abitanti. La conclusione non può che essere questa: non resuscitare ma inventare una politica in grado di arrivare a pesare criticamente là dove c’è il potere reale. Là dove avvengono le vere negoziazioni tra qualità dei regimi di potere locali/globali sulle persone e qualità del pensiero tecno-scientifico. Il filo rosso della politica, nel tuo discorso resta, ma è altra cosa dalle tradizioni istituzionali della rappresentanza democratica. Ma è qui il punto più delicato delle questioni da te sollevate e su cui in ultimo concludi.

    Prima, ti soffermi su alcuni autori: da Gramsci e Adorno a Debord sino a Fortini e altri, tra loro legati dalla elaborazione – a tratti contraddittoria ma lungimirante – di una teoria politica adeguata al sistema di dominio del capitalismo. Avrebbe potuto essere ascoltata, ed è stata invece sprecata . Avrebbe invece potuto costituire davvero le basi e l’impulso per una nuova consapevolezza critica sulla natura della società industriale (conservo questa formula poiché condivido il taglio economico-politico con cui tu la applichi anche alla natura immateriale delle attuali macchine di produzione e consumo, macchinerie che sono di fatto la rivelazione ultima della fabbrica moderna). Su queste retrospettive, ci sarebbe da discutere. Comunque, l’asse del tuo discorso a me pare qui costituito dall’idea che l’ industria di senso governata dal capitalismo novecentesco abbia saldato in una sola dimensione di potere consenso politico e modello socio-economico. Dalla consapevolezza di tale saldatura bisogna ricominciare. Parli di recupero di antichi saperi: in qualche modo s’adombra in questo recupero proprio l’idea che la politica vada riportata allo stato di originaria verginità che ha infine perduto consumandosi, invecchiando , dentro i suoi antichi luoghi (partiti e parlamenti e lobbie)? E che può invece ritrovare in una nuova conflittualità direttamente nell’ industria dei sensi : dall’alto delle più potenti multinazionali dell’informatica, in cui le decisioni cruciali del capitalismo cognitivo vengono prese in consigli di amministrazione formati al di fuori di qualsiasi consapevolezza e condivisione sociale, sino al basso della vita umana che ha reso possibile – anzi ha forse persino consapevolmente o inconsapevolmente desiderato – la potenza espressiva dell’informatica. Le sue promesse di umanità aumentata ?

    Il tuo è certamente un grande disegno politico, soprattutto perché ha in mente un quadro sociale che non è quello abitualmente evocato da chi parla il linguaggio autoreferenziale della società civile tradizionale. Tu scrivi: "Molto di questo c’è già oggi. Basta aprire gli occhi. Milioni di persone si scambiano servizi, doni, suggerimenti, oggetti e rompono vecchie forme di produzione che sembravano inamovibili. Miliardi di persone iniziano a incontrarsi, parlare, condividere, conoscere nuove culture e nuove modalità di vivere ancora non omologate dall’ industria di senso . In questo crogiolo si producono nuove forme che l’ industria di senso non è ancora riuscita a sussumere. C’è un’eccedenza di vita che la società produrrà in permanenza e che può rappresentare la faglia di rottura che è possibile percorrere per aprire una fase nuova dell’umanità. E sai formulare la linea di condotta: Il Welfare delle Relazioni, la politica necessaria oggi, significa che possiamo diventare consapevoli e prendiamo in mano il destino dell’intero pianeta, rispettandone le forme vitali come garanzia della sua stessa evoluzione, di una vita più vicina ai cicli della Terra, di una vita più compatibile ed eticamente e socialmente. Noi sappiamo oggi che le forme delle relazioni si modificano con la modifica delle strutture comunicative. Oggi la sperimentazione di nuove forme di comunicazione, quindi, diviene uno dei territori che la politica deve poter scegliere come forma di sperimentazione per la sua riprogettazione".

    Proprio a questo punto iniziano i miei dubbi (e ne abbiamo parlato spesso). Tu dici che "dobbiamo far cambiare passo alla politica, avere il coraggio di proporre una politica che passi ‘dal sapere come al sapere perché si fa una scelta". Hai quindi il coraggio di ribaltare il pregiudizio che vuole il fare dopo il sapere. S iamo cresciuti tutti e due nelle delizie dell’immaginario collettivo, quindi abbiamo anche imparato ad apprezzare le doti del dilettante , a ritenerle assai più trasgressive di quelle del professionista. E ultimamente io mi sento davvero sempre più un dilettante. Fai di più: non credi che ci sia più bisogno di liberare il lavoro dalle sue catene quanto piuttosto di liberare i flussi di comunicazione umana dallo schema dell’industria di senso . Da parte mia penso che tuttavia dalla politica non puoi, non possiamo uscire in quanto è proprio la politica lo strumento del nostro assoggettamento alle leggi del potere. Per mobilitare forze in grado di battersi sui tuoi obiettivi hai due possibilità: o ricorrere alle vecchie corporazioni politiche, cosa che credo impossibile (e penso che lo creda anche tu, anche se non ne tieni troppo conto) o formare e organizzare nuove forze umane. L’ottimismo delle tue passioni, forse ancor più della tua ragione, ti spinge a credere possibile una nuova politica con il materiale umano esistente. Da parte mia credo ci sia un nodo cruciale da superare: le persone che servono a un disegno come il tuo sono ancora educate dai valori dell’umanesimo, gli stessi valori che hanno formato la politica, le sue istituzioni e i suoi apparati. Questa appartenenza le farebbe lavorare a vantaggio del nemico che tu ti prefiggi. Ma cosa di più esaltante per il capitalismo cognitivo – o quale altro nome si voglia dare alla volontà di potenza che ci sovrasta in quanto umani – se non un conflitto che allarghi l’area della sua influenza grazie ai classici strumenti della dialettica moderna?

    Alberto

    Premessa

    " Quel che si trova nell’effetto, era già nella causa ".

    Henry Bergson

    Questo è il terzo libro di una triade che ha visto la luce nel 2005 con la mia prima monografia E-work. Lavoro, rete e innovazione ed è continuata nel 2009 con Lo Spettro del Capitale. Per una critica dell’economia della conoscenza, scritta con Marcello Cini cui dedico questo mio lavoro. Avevo parlato con lui di questo libro. Avevo mandato anche un indice ipotetico per provare a ripetere la felice avventura dello scrivere insieme. Un’esperienza affascinante tanto quanto lo era Marcello. Mi rispose che le forze non gli consentivano di intraprendere un nuovo sforzo e che, soprattutto, avrebbe potuto dare uno scarso contributo su questo tema. Questo a suo dire, naturalmente. Ricordo, invece, che le uniche osservazioni fatte sull’indice denotavano, anche su questo campo, il suo famoso spirito critico e la sua totale gioventù culturale. In un’era di giovanilismo imperante (anche questo uno degli aspetti dell’ industria di senso ) manca, a noi tutti, la sua freschezza d’idee, la sua capacità intellettuale di mettere a critica l’esistente per comprenderlo e superarlo, doti che non sono mai misurabili con il metro degli anni ma, credo, in neuroni e loro connessioni.

    Questo lavoro conclude una fase di riflessione su quelle che io definisco, da diversi anni, le tre novità principali del capitalismo contemporaneo, su quelle che ritengo le innovazioni più espressive e meno introiettate nelle analisi e nelle pratiche della sinistra italiana, europea e, probabilmente, mondiale. Si tratta di tre elementi che poggiano su una tendenza che ha preso l’avvio con il processo d’industrializzazione, certo, ma che è diventata dirompente con l’arrivo delle tecnologie digitali. Oggi potremmo dire che rappresentano i pilastri di un passaggio di paradigma nella storia umana che va messo rapidamente sotto analisi critica. Bisogna uscire dallo shock che spacca in due campi l’approccio alle novità che ci si presentano davanti agli occhi. Non possiamo più permetterci di essere apocalittici e rifiutare il quadro tecno-socio-economico che l’innovazione propone, né trasformarci in pedine integrate del nuovo che avanza. Occorre saper cogliere il senso di marcia, metterlo a critica e proporre nuovi quadri sociali ed economici attraverso la creazione di un senso che sappia sfruttare le dinamiche collettive che avanzano nei comportamenti umani. Sempre di più, infatti, ci troviamo davanti a comportamenti delle persone che si affidano alla capacità di condivisione e cooperazione che le tecnologie informatiche ci mettono a disposizione. Questo a prescindere dai gradi di controllo che Governi e Multinazionali esprimono attraverso le stesse reti, meccanismi di controllo che non erano mai andati così in profondità come ora. E la mole d’informazioni a disposizione sta rendendo il mondo un eco-sistema di tipo nuovo. Si annuncia l’apertura di una fase di Transizione da una formazione economico-sociale ad un’altra, una nuova struttura abilitata dalla capacità di estrazione di valore dalle connessioni relazionali rese possibili dalle tecnologie digitali e dalla evoluzione delle strutture della rete.

    La novità più rilevante del capitalismo contemporaneo, infatti, non risiede nella capacità di re-imporre condizioni di sfruttamento sociale ed economico già sperimentate. Questo errore prospettico nell’osservazione dei processi, casomai, misura l’inadeguatezza delle forze della sinistra a contrastare le nuove tendenze del capitale che, nell’imporre tali novità, producono come una sorta di effetto di scarto il riemergere di condizioni individuali e sociali di sfruttamento sconfitte dalle lotte delle sinistre nel ‘900. Ma tali vittorie furono possibili perché le organizzazioni del movimento operaio erano dotate delle analisi politiche adeguate alla novità dello sfruttamento della fabbrica e alle sue condizioni. Le novità più rilevanti, oggi, risiedono nel ruolo nuovo e sempre più dirompente svolto dall’informazione, intesa non come news , ma come elemento base di una struttura complessa che potremmo definire conoscenza distribuita. Il suo utilizzo, la sua produzione, la sua gestione e la sua manipolazione, ha una dimensione e un ruolo sempre più grandi nella produzione, commercializzazione e nella fruizione sociale delle merci tradizionali e, con il tempo, ha prodotto l’affermazione di merci di nuova generazione o cosiddette immateriali, costituite proprio dalla condensazione della stessa informazione in merce, replicabile facilmente e quasi gratuitamente, producibili a bassissimo costo, facilmente distribuibili su scala planetaria, con scarti quasi nulli. Questa novità, a mio avviso, ha favorito prima la trasformazione del ciclo produttivo - con il passaggio dall’era tayloristico-fordista all’era del taylorismo digitale - e, in seguito, il consolidamento di un ciclo economico di nuova generazione, quello immateriale. La prima novità - quella dell’avvento del taylorismo digitale - è stata al centro del mio libro E-work [¹] , e la seconda de Lo spettro del Capitale . [²] La terza innovazione, che ha radici più profonde nel ‘900, è rappresentata dalle trasformazioni avvenute nelle strutture della comunicazione e delle relazioni umane, determinando uno scenario economico e sociale completamente innovativo.

    Questa terza novità è l’oggetto di questo libro e costituisce la malta necessaria a far stare insieme il quadro sociale. In altre parole, costituisce la struttura in grado di contenere l’insieme attraverso un consenso diffuso e pervasivo. Tale scenario, infatti, cambia le forme e gli esiti del conflitto sociale, modifica i soggetti in campo e gli strumenti di tale conflitto. Spesso, gli unici che sembrano non accorgersene appaiono proprio i soggetti politici che avrebbero dovuto traghettare le masse verso la loro liberazione. Gli stessi soggetti che sono travolti da tali trasformazioni e incapaci di risposte all’altezza delle novità dell’oggi.

    In pratica, muti.

    Chiusa questa trilogia , probabilmente, sarà necessario comprendere come la categoria della rivoluzione, come aveva già ben compreso Gramsci, trasli dall’ipotesi della rottura a quella della mutazione e come, dentro le società mutanti, la dimensione del politico (con la p minuscola) risulta derubricata a mera gestione amministrativa del sistema. E come la stessa forma della partecipazione democratica negli stati-nazione, è derubricata alla lotta per tale gestione. Certo non tutto è omogeneo nel mondo. Quello che deve essere considerato importante in queste tipologie di analisi, infatti, sono le tendenze, l’abbrivio del sistema. Sicuramente all’interno dello schema dei paesi a democrazia matura, la dimensione politica è cambiata profondamente e non solo per la potenza della dimensione economica. Ma questo, appunto, rappresenta l’impegno per l’elaborazione futura.

    Tornando al presente, il lavoro, la produzione, le merci, la comunicazione e le relazioni umane sono stati trasformati e continuano incessantemente i loro cambiamenti. Dopo aver analizzato i primi (lavoro e ciclo economico immateriale) nei due libri già citati, ecco la chiusura della triade con questo libro su quella che io definisco l’ Industria di senso e i suoi sviluppi tendenziali in un vero e proprio sistema industriale della produzione di informazioni e messaggi da far giungere ai nostri 5 sensi: L’ industria dei Sensi .

    Avrei avuto più possibilità di commercializzazione e di vendita, forse, se avessi messo al centro della riflessione le novità introdotte da Internet o da qualche nuovo social network. La riflessione che voglio proporre, però, è più di fondo, meno legata alle fortune dell’ultima innovazione di mercato che il quadro tecnologico ci mette a disposizione.

    Non è una scelta semplice, credo.

    Le riflessioni di lungo periodo sono sempre meno utilizzate dalla politica e, spesso, anche dalla scienza contemporanea, la tecno-scienza. Soprattutto oggi in presenza di società che, come accennavo, hanno caratteristiche cangianti, mutanti, capaci di soffermarsi solo pochi istanti su un oggetto o un’idea, spinte a rigettarsi, immediatamente, alla ricerca spasmodica di qualcosa di nuovo.

    Ma si sbagliano.

    Non solo in assoluto, ma anche nello specifico. Lo smarrimento di senso prodotto dalla crisi è certamente un lavoro ai fianchi quotidiano. Spesso anche in maniera efficiente. La domanda di senso che sta emergendo nel pianeta è più radicale, più di fondo. E questa domanda esige una risposta non contingente. Nel secolo in cui la tecno-scienza metterà nelle mani dell’umanità la possibilità di modificare il destino evolutivo della specie umana, intervenendo sul codice genetico consegnatoci dall’evoluzione in milioni di anni, l’umanità deve poter avere delle risposte di senso che non possono limitarsi al semplice: «Sappiamo farlo, facciamolo». Non so se questo sarà il secolo del post-umano. Il termine post-umano indica una prospettiva che pone radicalmente in discussione il concetto di umano e implica una sua ridefinizione che coinvolge diverse discipline e orientamenti teorici e ha implicazioni nella sfera sociale, culturale, politica, economica e materiale. Il concetto di post-umano non è confinabile a una semplice tematica, anzi l’assenza di demarcazioni nette è una sua caratteristica; l’approccio unificante può essere rintracciato nella sfumatura progressiva delle differenze essenziali tra umani e macchine e, in generale, tra meccanismo cibernetico e organismo biologico. Quest’ultima concezione è stata resa possibile, dagli anni Quaranta, da discipline quali la teoria dell’informazione, la cibernetica e l’intelligenza artificiale (IA). Resto convinto, però, che la politica sia l’unico strumento per prendere in mano il proprio destino. Fuori di essa rimane l’efficienza aziendale, il mercato e… l’ industria dei sensi .

    La scommessa, comunque, era anche con me stesso: offrire, anche se solo per pochi e per poche occasioni, un elemento di riflessione forse scomodo, controcorrente. Un sasso nello stagno del dibattito.

    Introduzione

    " Se avremo avuto torto lo dirà la Storia, non la moda ".

    Franco Fortini (1989)

    Le teorie e le pratiche politiche del ‘900, fino all’avvento della Scuola di Francoforte , tenevano in scarsa considerazione il ruolo della produzione di senso. Il massimo della considerazione era rivolto all’utilizzo della potenza di questa o quella tecnologia che le acquisizioni del tempo mettevano a disposizione.

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