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Un amore grande grande
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E-book228 pagine5 ore

Un amore grande grande

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Info su questo ebook

"Carissimo, il tuo libro è una storia bellissima, ci ho pensato per giorni.
Quando sono venuta a trovarti e mi hai detto che è una storia vera mi è venuta la pelle d'oca.
Mi dispiace soltanto che rimarrà per pochi intimi.
Credo sia giusto che una storia come questa vada pubblicata".

Questo uno dei tantissimi commenti ricevuti. Quasi tutti terminavano con l'invito a pubblicare, divulgare e far conoscere questa storia.
E allora così sia, questa è la storia…
LinguaItaliano
Data di uscita29 gen 2016
ISBN9788892548398
Un amore grande grande

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    Anteprima del libro

    Un amore grande grande - Vitaliano Franco Manetti

    I romanzi d’amore e d’avventura di

    Vitaliano Franco Manetti

    quarratino

    IL LIBRO

    "Carissimo, il tuo libro è una storia bellissima, ci ho pensato per giorni.

    Quando sono venuta a trovarti e mi hai detto che è una storia vera mi è venuta la pelle d'oca.

    Mi dispiace soltanto che rimarrà per pochi intimi.

    Credo sia giusto che una storia come questa vada pubblicata".

    Questo uno dei tantissimi commenti ricevuti. Quasi tutti terminavano con l'invito a pubblicare, divulgare e far conoscere questa storia.

    E allora così sia, questa è la storia…

    L'AUTORE

    Vitaliano Franco Manetti, nasce a Vicenza il 14 Settembre 1941.

    Vive a Quarrata in provincia di Pistoia dalla fine degli anni Settanta.

    Ha lavorato da sempre nel settore bancario portando avanti nel tempo varie passioni, più o meno durature.

    Quella vera e che va avanti da sempre è lo scrivere romanzi e grazie ad un amico si è convinto a pubblicarli.

    Era giusto così ed era ora il momento di farlo.

    Vitaliano Franco Manetti

    UN AMORE

    GRANDE GRANDE

    Copyright © 2016 Vitaliano Franco Manetti

    Tutti i diritti riservati

    Vitaliano Franco Manetti

    email: vitalianomanetti@gmail.com

    ISBN: 9788892548398

    Impaginazione e grafica: facilebook

    http://www.facilebook.it

    email: info@facilebook.it

    Quest'opera è protetta dalla Legge sul diritto d'autore.

    È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.

    UN AMORE

    GRANDE GRANDE

    Dedicato a tutti coloro

    che sono emigrati

    in Australia nel

    decennio 1950 – 1960.

    UN AMORE

    GRANDE GRANDE

    PARTE PRIMA

    Era il venticinque giugno millenovecentoquarantotto.

    Mario e Giulia Rinaldi erano in viaggio con i loro due figli, Roberto, di dieci anni, che chiamavano abitualmente Roby, e Alessandro, di sette, che chiamavano Alex.

    Le scuole erano finite e la famigliola voleva godersi un meritato periodo di vacanze. Ma le loro possibilità finanziarie erano abbastanza limitate. I ricordi e, soprattutto, gli effetti della guerra non si erano ancora smorzati del tutto. L’economia non era ancora pienamente in ripresa e il lavoro stentava a decollare.

    Mario guidava con molta prudenza la sua Topolino A, balestra corta, del ’36, comperata a prezzo di rottame un anno prima in uno dei cimiteri di macchine nei dintorni di Alessandria, vetturetta che aveva restaurato e rimesso in funzione con pazienza e, soprattutto, competenza.

    Infatti Mario era uno dei più ricercati meccanici e carrozzieri di tutta la provincia. Aveva una piccola autofficina in periferia, all’uscita dalla città, sulla Statale 10 che porta verso Tortona, la stessa strada che stavano percorrendo in quel momento. Quel piccolo macinino era rinato a nuova vita, sembrava uscito dalla Fiat il giorno prima, e Mario era molto soddisfatto del lavoro che aveva fatto.

    Giulia, sua moglie, era una bella ragazzona mora di trentadue anni. Come Mario, aveva fatto solo le scuole elementari, più o meno come era in uso agli inizi del ‘900, ma da sempre aveva seguito la scuola di sua madre e cioè l’arte del come mantenere una casa e una famiglia.

    Mario le voleva un bene dell’anima e i due andavano d’accordo in modo tale che destavano perfino l’invidia di qualche coppia di amici. Per l’officina non era ancora tempo di ferie, perciò Mario si sarebbe goduto il fine settimana e poi sarebbe tornato al lavoro il lunedì successivo. Ma ogni fine settimana sarebbe venuto a trovare la famiglia, aspettando con ansia la quindicina centrale del mese d’Agosto. Allora sarebbe andato in ferie anche lui e poi, alla fine delle vacanze, sarebbero tornati tutti insieme.

    Giulia e i ragazzi sarebbero stati ospitati per un paio di mesi in campagna, dalla zia Claretta Rivetti, vedova Cannella, una lontana parente che possedeva una piccola azienda agricola nei pressi di Rivanazzano, la cittadina nel cui comune si trova anche la rinomata Salice Terme.

    Non era la prima volta che Giulia veniva ospitata da Claretta, ma era la prima volta che i Rinaldi ci portavano i ragazzi.

    Claretta era una solida donna dell’87. Mandava avanti la sua azienda agricola con l’aiuto dei due figli, Silvano e Ivan. Il primo era sposato e aveva una bambina. Il secondo invece era uno scapolo impenitente che, si diceva, aveva una donna in ogni paese del circondario, ma che si teneva ben alla larga dalle sottane di Rivanazzano e di Salice Terme.

    Totalmente diversi uno dall’altro, per corporatura, carattere e … idee politiche, al lavoro nei campi i due fratelli costituivano una coppia indivisibile e insuperabile e sapevano entrambi ricercare ed ottenere la migliore collaborazione dalla squadra dei prestatori d’opera, uomini e donne, che lavoravano nella fattoria come dipendenti.

    Sotto l’aspetto dell’attaccamento a quel lavoro però i due fratelli la pensavano in modo completamente diverso.

    Ivan non avrebbe cambiato la sua vita con le più grandi ricchezze o con le più belle donne di questo mondo. Fare il coltivatore diretto era la sua passione, il suo impegno, la sua tranquillità e la sua sicurezza anche per il futuro.

    Silvano, invece, continuava a dire che era nato contadino, ma che non sarebbe morto contadino. Voleva a tutti i costi trovare un altro lavoro e, quando si metteva a fare questi discorsi, metteva un po’ in apprensione tutta la famiglia.

    Giulia e Claretta erano forse parenti alla lontana. Nessuna delle due avrebbe saputo dire a quale antenato dover risalire per stabilire il grado di parentela. Giulia la definiva zia più per cercare di mantenere il loro grande affiatamento, senza che ce ne fosse una effettiva necessità. Infatti, parenti o no, erano sempre state molto legate e questa affinità era cresciuta ulteriormente perché l’anno prima Giulia era stata l’unica, tra tutto il parentado, ad intervenire ai funerali di Fausto Cannella, il marito di Claretta, un uomo scontroso e introverso che non aveva mai dato confidenza a nessuno, con il vizio del bevitore incallito, tanto che i maligni dicevano che da solo si portava via almeno la metà della produzione vinicola della fattoria. Alla fine la cirrosi se l’era portato via.

    Mario, poi, aveva tolto Claretta dall’imbarazzo proprio il giorno del funerale. Durante il trasporto della salma dalla chiesa al camposanto, l’auto dell’impresa funebre si era inspiegabilmente fermata, destando l’ilarità di chi seguiva il feretro: dicevano che Fausto influiva anche da morto sul regolare funzionamento delle cose. L’autista incaricato del trasporto non sapeva dove mettere le mani né che pesci pigliare. Ma Mario era uscito tranquillamente dalla fila dei presenti e, avvicinatosi all’auto, aveva aperto il cofano. Senza bisogno di alcun attrezzo, aveva riparato il guasto. Poi, servendosi della manovella, aveva fatto ripartire immediatamente il motore, con immenso sollievo di Claretta che gli aveva promesso, dentro di sé, eterna gratitudine.

    Alle dieci, dopo un’ora di viaggio, la Topolino fece il suo ingresso dal portone della casa colonica, mentre Mario suonava un paio di colpi di clacson.

    Claretta, col suo vestito grigio scuro e il grembiule giallo con pettorina, allacciato in vita, uscì dalla porta della cucina e aprì le braccia quasi volesse abbracciare anche la Topolino.

    Tutti scesero rumorosamente dalla macchina e le andarono incontro, anch’essi spalancando le braccia. Fu un incontro molto festoso.

    «Cari ragazzi, finalmente! Avete fatto buon viaggio?»

    «Sì! Grazie. Per la strada non abbiamo trovato quasi nessuno … tranne qualche autotreno. Ma, insomma, alla fine erano solo una quarantina di chilometri!»

    E i discorsi di benvenuto si prolungarono per diversi minuti. Intanto Mario scaricava i pochi bagagli che aveva portato per la moglie e i figli.

    Roby e Alex, si guardarono intorno.

    «Accidenti che casa grande!» disse Roby con grande meraviglia «Chissà quante stanze ci sono!»

    La casa colonica era una costruzione a ferro di cavallo. Due delle tre ali del caseggiato si affacciavano con le loro estremità sulla strada che portava al campo d’aviazione. Un muro di mattoni alto tre metri e un vecchio cancello d’ingresso di ferro separavano l’aia interna dalla strada. L’aia, in terra battuta, era di forma quadrata di una ventina di metri per lato. Quella dimora, all’epoca della sua costruzione, doveva essere stata di notevole bellezza.

    Anche Alex rimase meravigliato di ciò che vedeva e, mentre Roby seguiva i genitori e Claretta per entrare in casa, lui girava su sé stesso più volte per guardare il vasto ambiente dove avrebbe dovuto passare i successivi due mesi. Alla fine il suo sguardo si fermò sulla porta dove erano entrati poco prima la sua famiglia e Claretta.

    Rimase senza fiato.

    Alla porta si era affacciata una creatura che pareva un piccolo angelo disceso dal cielo. Era una bambina. Aveva i capelli biondo oro che le ricadevano sulle spalle in riccioli lunghissimi che sembravano cavatappi. Portava un vestitino azzurro con trine bianche applicate al corpetto e all’orlo della sottanina che le arrivava fin sotto al ginocchio. Portava anche calzini corti bianchi ricamati e un paio di scarpine celesti di vernice. Aveva agli orecchi due minuscoli ciondoli ornati di una pietrina azzurra a forma di goccia.

    Alex vide la bambina muoversi e venire verso di lui. Il suo incedere lo incantava ancora di più. Si sentiva stordito e non capiva cosa gli stesse succedendo. I lineamenti della bambina erano un incanto. E gli occhi poi … non poteva sostenere quello sguardo seppur innocente. Avrebbe finito per esserne ipnotizzato. Sembrava quasi che qualcuno avesse dato la vita, in grandezza naturale, ad una di quelle belle bambole col viso di porcellana e gli occhi di un azzurro profondo che di solito si mettono in posizione seduta su un copriletto.

    Alex aveva visto tutto questo, era inchiodato sul posto e non trovava il coraggio per muoversi. Trovò solo il fiato per sussurrare:

    «Zio Cannella!»

    Si portò immediatamente una mano sulla bocca come se gli fosse scappata una bestemmia. Da quando aveva saputo di avere uno zio che si chiamava Cannella ogni occasione di sorpresa o meraviglia era accompagnata da uno Zio Cannella!

    Ma ora che lo zio era morto, sua madre gli aveva raccomandato di non farsela scappare mai più, altrimenti ne avrebbe prese un sacco e una sporta. Guai, poi, se l’avesse detto addirittura davanti alla zia Claretta.

    La bambina parlò, con una vocina che pareva il cinguettio di un uccellino.

    «Ciao! Io mi chiamo Tivvia. Il mio papà si chiama Tivvano e la mia mamma Calla

    «Io … io … ciao. Io sono Alex.» Il ragazzino non credette di aver capito bene il nome della bambina, ma le chiese, invece, quanti anni aveva.

    «Cique, così!» rispose Silvia, mostrando una manina con tutte le minuscole dita aperte. E poi continuò:

    «Io non ho mai conosiuto nessuno col nome Avec

    «Ho detto Alex, Alex! Hai capito adesso?»

    «Ti, ho capito! … Avec

    Se va bene a te! pensò Alex.

    In quel mentre Giulia si affacciò alla porta e chiamò:

    «Alex, dai, vieni in casa! Vieni anche tu, Silvia.»

    Alex pensò subito: Ah, ecco, si chiama Silvia, e quindi le fece urgenza, al richiamo della madre:

    «Dai, Silvia! Ci hanno chiamato. Entriamo in casa.»

    Entrarono in una cucinona dove sarebbe entrato un reggimento di cavalleggeri compresi i cavalli. Attorno al tavolo, che avrebbe dovuto essere un fratino da dodici persone, se ne sarebbero potute sedere comodamente venti. Ma le sedie attorno al fratino erano otto. Le altre quattro erano appoggiate in vari punti delle pareti e una di queste era occupata da Mario che, fino a quel momento si era contentato di stare a sedere e di leggere nella Gazzetta dello Sport le ultime notizie sul suo grande Torino che stava per vincere anche questo campionato.

    Carla, la madre di Silvia, stava preparando il caffè mentre Claretta stava spalmando burro e marmellata su alcune banane di pane tagliate a metà.

    Roby si sedette su una sedia qualunque, vicino a sua madre, mentre Alex attese che Silvia si fosse seduta e poi, con noncuranza, si sedette accanto a lei.

    «Una bella merendina a mezza mattina non guasterà il pranzo.» disse Claretta.

    I ragazzi attaccarono subito quei panini, mordendoli come lucci che avessero tra le fauci un persico sole.

    Giulia guardava i visi dei suoi due ragazzi per gioire della loro soddisfazione ma, all’improvviso, vide Alex interrompere la masticazione con un moto di sorpresa e osservando il panino che aveva tra le mani.

    «Alex, cosa c’è?» gli chiese quasi allarmata.

    «Che cosa c’è in questi panini, mamma?»

    Anche le altre due donne si girarono. Fu Claretta a rispondere.

    «In quei panini c’è burro, marmellata di pesche e albicocche, e un pochino di miele. Perché, Alex, non ti piace?»

    «Certo che mi piace! Anche a casa nostra, a Alessandria, la mamma ce li fa con burro, marmellata e un goccino di miele. Eppure non sono così buoni!»

    «Devi sapere, zia Claretta» disse Giulia «che Alex è il buongustaio della famiglia. E quando assaggia due cose uguali o simili lui ti dice subito qual è la migliore.»

    «Allora bisognerà per forza darti solo le cose migliori! Altrimenti poi reclamerai.» Disse Claretta, sorridendo.

    «Non c’è da preoccuparsi, zia» disse ancora Giulia «Alex, però, è un amante delle cose semplici. Con un piatto di riso lo accontenti.»

    «Davvero? E’ un’ottima qualità per un bambino!» ammise Claretta.

    Le donne si misero a bere il caffè preparato da Carla. Roby aveva letteralmente divorato il suo panino, si alzò in piedi e chiese:

    «Possiamo andare fino alla chiesa? Andiamo all’oratorio per vedere se ci sono giochi e se ci sono dei ragazzi con cui fare amicizia.»

    «Ma certamente.» rispose Giulia «Sapete come ci si deve comportare con le altre persone?»

    «Sì, mamma.»

    «Io, però, non vengo» rispose Alex «preferisco restare qui. Mi sembra che ci siano tante cose da vedere.»

    Silvia era ben lontana dall’aver finito il suo panino. Aveva le due gotine gonfie di pane e marmellata. Si volse verso Alex e gli sorrise.

    Claretta presentò ai ragazzi un bicchiere di latte ciascuno.

    «Ecco qua! Questo vi aiuterà a mandar giù il panino. E’ stato bollito e poi lasciato raffreddare.»

    Alex si portò il bicchiere alle labbra e bevve un paio di sorsi.

    Giulia vide le sopracciglia di Alex inarcarsi fino all’inverosimile e lo sentì esclamare:

    «Zi … ehm … Capperi!!! Questo è latte?»

    Sua madre lo guardò di brutto, ma stette zitta.

    «Certo che è latte!» rispose Claretta.

    «Allora cos’è quella roba bianca che ci dà la lattaia quando siamo a casa?»

    «Dovrebbe essere latte anche quello.» rispose Giulia, ammettendo che tra i due prodotti non c’era paragone «Pensate un po’. Ce lo fanno pagare venticinque lire al litro.»

    Claretta si alzò dal suo posto e si sedette accanto ad Alex e, guardando in viso il ragazzino, esclamò:

    «Sai cosa ti dico, Alex? Sei proprio un gran simpaticone! Io e te andremo pienamente d’accordo.» e schioccò un grosso bacio in fronte ad Alex il quale, poi, cercando di non dare nell’occhio, si ripulì la fronte col tovagliolo.

    Quando la colazione fu finita le donne sparecchiarono e i ragazzi si alzarono da tavola. Roby uscì e si diresse verso la chiesa, come aveva detto.

    ***

    Silvia e Alex ritornarono nell’aia. Il cielo era pieno di rondini e del loro garrire. In alto, però, c’era un altro uccellino che svolazzava tranquillo e aveva un cinguettio melodioso.

    «Guarda Silvia! Cos’è quello lassù? Un passero?»

    «Non è un pattero, Avec. E’ un’avvodova

    «Un’allodola? E tu come fai a saperlo?»

    «Papà Tivvano li ha tutti nella ‘tanza da caccia. Papà Tivvano è cacciatove.»

    «Li ha tutti? Tutti come? Non capisco, Silvia.»

    «Vieni con me!»

    Di fronte all’ingresso della cucina, sul lato opposto dell’aia, c’era un portico, largo circa tre metri, sorretto da colonne di mattoni. In fondo al portico si accedeva ad una scala, completamente in legno, che portava ai piani superiori.

    «Vieni!» disse Silvia ad Alex e lo prese per la

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