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Stella Fruttidoro
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E-book246 pagine3 ore

Stella Fruttidoro

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Info su questo ebook

Nessun destino è segnato dall’appartenenza alla casta. Nessuna genealogia è vincolante. Nessuna discendenza inchioda gli uomini e le donne alla terra d’origine.
Anziché sprofondare nel discorso della vendetta, dominato dalla colpa e dalla pena, quando le cose non vanno, c’è chi si accorge che proprio allora cominciano a funzionare. E accade che nel cuore della Sicilia degli anni Sessanta, in un paese che sembra destinato alla miseria, più della metà degli abitanti, nomadi dal principio dei tempi, abbandoni la propria terra e cerchi la fortuna altrove. E altrove trovi e fondi la propria industria.
Tra questa gente c’è anche Stella Fruttidoro. Costretta a fare i conti con la follia stimolante di una madre che vorrebbe vivere al posto suo, quando si accorge che i conti non tornano, Stella insorge e il suo destino prende la via dell’impresa.
Lungo il filo del sogno e della dimenticanza, quando la giovane donna si trova a un crocicchio, la svolta diventa necessaria.
E lei vola.
LinguaItaliano
Data di uscita27 gen 2020
ISBN9788868674427
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    Anteprima del libro

    Stella Fruttidoro - Lina Calogera Alaimo

    I La Firluzza

    Giugno 1974

    Anche quella notte Stella Fruttidoro sognò.

    Era arrivata da Atlantic City e si era messa a dormire presto.

    Faceva così da quando aveva deciso di portare in America un marito siciliano. Perdeva ore per il fuso orario e poi recuperava. E dormendo faceva lunghi sogni.

    Le nuvole, sull’ala dell’aereo, erano giovani che facevano la fila per la signorina americana.

    Stella guardava dall’oblò e gliene piaceva uno, poi un altro, un altro e un altro ancora... mamma Catina oscurava il finestrino: Nuvole, nuvole, a te tutti questi giovani ti fanno annuvolare gli occhi... stai quieta che prima a me devono piacere! Uomini buoni per noi, figlia, non ce ne sono! Ottantadue, via! Ottantatr é , lontano da me!.

    Macigni di polvere e roccia rotolavano su Catina. Da sotto i detriti la donna urlava: ‘nzilla! ¹‘nzilla! ‘nzin... ‘ndrin...

    ‘ndrin... ‘ndrin... Il suono di un campanello di bicicletta entrò dalla finestra nel suo sogno.

    Era Aspano che, quando lei tornava dall’America, passava ogni mattina sotto il suo balcone. E cantava:

    "... La chiù bedda ca fici lu Signuri,

    dicu ca siti vui senza sbagliari;

    siti lu fiatu mia, Stiddra e caluri,

    ppi mmia st'amuri è un timpistusu mari.

    Fiatu di l'uecchi mia, Stiddra d'amuri,

    si mi diciti ca vi puozzu amari,

    ppi vvui divientu giovani d'anuri..."

    Stella d’amuri… Stella d’amuri…

    La voce di Aspano pareva venire da un elicottero.

    Testa alta e occhi bassi, Stella non vide la buca. Il piede si torse, il ginocchio si piegò, inciampò e cadde. Scappa scappa, sta arrivando!. La paura nella voce della mamma le giungeva alle spalle. Si girò: non c’era nessuno.

    Svegliatasi, Stella andò alla finestra. Il cielo della Sicilia sembrava tranquillo.

    Non era la prima volta che in sogno sentiva Scappa scappa, sta arrivando.... E poi l’elicottero, il fiume, la Francia e l’America si mescolavano, si addossavano, s’impastavano... e quando sognava il fiume della Firluzza si svegliava spaventata.

    Perché l’estate passata alla Firluzza, quattordici anni prima, le tornasse in un incubo Stella ancora non lo capiva.

    Cinque anni di Francia, sette di America, due a fare la spola tra Atlantic City e la Sicilia non avevano ancora cancellato quel brutto sogno.

    Giugno 1960

    La storia era cominciata ancor prima dell’alba, di un altro giugno. Il papà li aveva svegliati a notte fonda perché, sulla strada sgangherata che portava alla tenuta, col carretto che ballava tra sassi e buche, era meglio muoversi prima che spuntasse il sole. Mezza addormentata, Stella si era accucciata sulla valigia dei vestiti, accanto a Luigi, il fratello di quattro anni. La mamma, seduta davanti accanto al papà, li teneva svegli col racconto di quando lei, ragazza di quindici anni, era andata a vendemmiare nella tenuta che adesso avevano a mezzadria. Per i sobbalzi del carretto sulla trazzera dissestata, la voce di Catina vibrava come i vetri malfermi durante il temporale.

    – Perché ti trema la voce, ma’? – chiese Stella. E parlando si accorse che la voce tremava anche a lei. Volle riprovare e cominciò a cantare.

    La vocina di Luigi ripeteva il canto a ridosso della sorella e nel silenzio della campagna, quel gorgheggio tremolante li faceva ridere. Il viaggio che si era annunciato come una fatica di tre ore passò in un fiato.

    Al casale, i Fruttidoro trovarono la zia Angela, lo zio Tufano e Sarina, partiti il giorno prima. Gli altri fratelli di Stella, Turi e Melchiorre, trattenuti in seminario dal ritiro spirituale di fine anno, li avrebbero raggiunti da lì a una settimana.

    In quella campagna Stella vide cose che in dodici anni di vita non aveva ancora visto né toccato così da vicino.

    La Firluzza era una rarità in quella zona della Sicilia.

    C’erano buoi, capre, cavalli, maiali, conigli, galline, oche, papere e tacchini. Poi c’era anche il fiume: un’acquetta che scorreva tiepida tra i sassi. E poi gli alberi su cui arrampicarsi, e il ponte, e il pozzo, e la scala che portava in fondo al pozzo, e l’abbeveratoio, e la vasca che raccoglieva l’acqua piovana... La notte poi, in cielo, il tremolio lieve di mille lumini, e nel buio il riflesso della luna a illuminare i pagliai, l’erba secca, le lenzuola e le camicie bianche stese sui fili...

    Il padrone della Firluzza, don Casimiro Scipè, aveva avuto la responsabilità della tenuta fin da ragazzo ed era subentrato al padre all’improvviso.

    Accadde una domenica. Il padre, Bartolo, era andato a caccia da solo. Casimiro era salito in paese per portare la fidanzata alla messa. Quando uscì di chiesa trovò, come dopo un matrimonio, due ali di folla che lo aspettavano davanti al portone. Con gli occhi puntati addosso, imbarazzato, lui guardò Nina, poi davanti a sé. In fondo alle ali c’erano i carabinieri con la mitraglia in braccio. Gli occhi stupiti e increduli dei curiosi che lo scrutavano annunciavano una tragedia: Era a caccia, Un colpo a tradimento, Non si sa di chi. I cani hanno avvisato la moglie.

    Il suocero lo aveva preso rapido sottobraccio e lo aveva portato alla Firluzza, in tempo per saltare sull’ambulanza dietro la barella.

    Casimiro si era piegato sul padre ma Bartolo guardava oltre le sue spalle. Il colpo gli aveva scasato gli occhi:

    – Chi è stato? – gli aveva sussurrato il figlio all’orecchio.

    La mano intubata aveva stretto il polso di Casimiro. La voce che era uscita gorgogliava d’aria: – La Firluzza... è tua... sposati.

    – Cosa mi comandi, pa’? Chi deve pagare?

    Bartolo aveva agitato il dito. Era un divieto. Poi nient’altro.

    Bartolo Scipè all’ospedale non ci era arrivato. Casimiro a diciannove anni si era sposato ed era rimasto nella casa padronale con la moglie anche dopo la nascita di due gemelli. Quando era venuto il tempo di mandarli a scuola, i bambini erano rimasti in paese con i nonni materni.

    Ma dopo che Peppuccio e Mariangela erano passati alla scuola media, Nina aveva preso la sua decisione: mentre lui era nei campi aveva racimolato armi e bagagli ed era salita in paese. Casimiro a quel punto da solo alla Firluzza non era rimasto. Che cosa avrebbe detto la gente? Che uno Scipè poteva essere abbandonato dalla moglie? Non se ne parlava nemmeno.

    Così, anche se Marsioni Rubino gli aveva sconsigliato di affittare la terra ai suoi generi, lui non lo aveva ascoltato e aveva affidato la tenuta a Delfio Fruttidoro e a Tufano Lupo.

    Accompagnati da padre Bonanno, una mattina, Turi e Melchiorre arrivarono alla Firluzza. Luigi, Stella e Sarina, bagnati dalla testa ai piedi, stavano tirando l’acqua su dal pozzo e, a sei mani, andavano a versarla nella vasca grande. Appena scorse i fratelli in fondo alla strada, Luigi mollò il secchio in mano alle ragazze e corse gridando: – Mamma, papà, i preti arrivano! Con la veste nera fino ai piedi!

    Salendo sulla stradella polverosa verso la roba ² con Turi e Melchiorre c’era Totuccio Lucchisi, loro compaesano e amico in seminario. Tutti tenevano sollevata la tonaca per non pulire la strada. Al loro passaggio uno sciame di mosche che pranzava su una buccia di melone volteggiò ronzando nell’aria calda, mentre, dimenando la codina affusolata, lucertole grandi e piccole sbucavano dagli anfratti e sparivano tra le pietre.

    Alle grida di Luigi, Angela e Catina si affacciarono dalla cucina, poi, con il fieno in mano, arrivarono anche Delfio e Tufano. Come chi vede una cosa nuova e non riesce a darle senso, Delfio sorrideva inebetito: La sottana gli hanno messo! Che minchia di figli mi riporta il prete!.

    I ragazzi, attorniati dalle grida chiassose dei parenti, con una mano paravano i baci che arrossavano le loro guance e con l’altra trattenevano la tonaca in mezzo alle gambe. Padre Bonanno osservava compiaciuto il quadretto familiare e, notando l’impaccio dei ragazzi, pensava: Appena un anno di seminario e già sembra che i parenti gli siano estranei. Diventeranno bravi ministri di Dio, questi ragazzi....

    Il collare bianco e la fila di bottoncini rossi che chiudevano la tonaca erano una novità. E mentre Luigi contava i bottoni di Turi e Stella ispezionava il collare di Melchiorre, Tufano, ancora col fieno in mano, interruppe le cerimonie. Doveva andare nella stalla, dalla mucca che aveva figliato la notte avanti.

    – Allora è nato un vitellino! Possiamo vederlo?

    – Sono due, – rispose il papà, – un maschio e una femmina. Venite!

    Catina invitava il prete a rinfrescarsi. I ragazzi correvano verso la stalla.

    Malfermi sulle zampe, sopra la paglia fresca, due vitellini tentavano di prendere i capezzoli della mamma. La mucca, con il muso, spingeva ora l’uno ora l’altro verso le mammelle piene. I piccoli succhiavano il latte che colava abbondante dagli angoli della bocca e si perdeva sulla paglia. Tra una ciucciata e l’altra, un capezzolo sfuggiva alla presa del vitellino più secco. Sarina si avvicinò cauta e glielo tenne saldo tra le tenere labbra. Immobile, gli occhi ridenti, portava l’indice sulle labbra: – Ssssh! –, e guardava Totuccio che si grattava la testa. Stella si accorse e pizzicò il braccio della cugina: – Sfacciata!

    Totuccio avvampò in viso e uscì di corsa. Incespicando sull’erba secca, il giovane seminarista prese a girare dietro il caseggiato. Da quelle tentazioni lui doveva stare lontano per rimanere in seminario. Che cosa avrebbe detto la mamma se avesse tradito i preti che lo facevano studiare gratis!

    Intorno intorno, sulle colline vicine, gialle d’erba secca e nere di cenere, c’erano poche macchie verdi. L’onda dei migranti andava avanti da quasi un anno e i campi producevano solo erba da bruciare. In casa Lucchisi se ne parlava ogni giorno: cosa poteva offrire quella terra ai giovani? Per farsi un avvenire, la scuola era l’unica via. Per questo Totuccio era entrato in seminario, dove stavano già i due fratelli maggiori. Ma Stefano e Serafino però, usciti prima della licenza liceale, avevano dato un gran dispiacere alla mamma: – È tutta colpa delle puttanelle dell’Azione Cattolica! – diceva lei. Lui doveva starne lontano.

    In stalla arrivò anche Delfio. Tirò i figli per la tonaca e li trascinò fuori da quello spettacolo:

    – Quando ve la togliete la sottana?

    – Ora! – sorrise Melchiorre. – Andiamo a prendere le valigie e ci cambiamo.

    – Salite, io vado a parlare con il prete.

    In cucina, Delfio trovò padre Bonanno, Totuccio, la moglie e la cognata seduti intorno alla tavola apparecchiata: – ... prima di tutto lo scudo crociato, che è il partito del Signore, poi se volete, potete mettere la croce su questi nomi, che sono amici nostri...

    – Sì, lo sappiamo, – disse Angela prendendo il santino che le porgeva padre Bonanno, – padre Raffaele ce l’ha dato. Questo nome però non c’era.

    – Don Francesco Cimino? E certo che non c’era, non vedete che sono due le liste? Padre Raffaele vi ha dato solo il volantino per le provinciali.

    Delfio si sedette di fronte al prete: – Non si deve offendere, padre, ma questi politici che lei dice essere amici nostri cosa fanno per noi? A me pare che se piove quando c’è bisogno e il sole non brucia le piante l’annata è buona, altrimenti sono cavoli nostri. I politici, quelli grossi che stanno a Roma, non ci hanno mai aiutato, e nemmeno quelli della regione e della provincia. L’onorevole Bernardo che è nostro paesano, dopo che lo abbiamo mandato a Roma, cosa ha fatto? Ha asfaltato quindici chilometri di stradone che dal paese arriva alla sua campagna e poi ha collegato lo stradone con la strada statale della provincia. Ha visto che giardino la sua terra? E la casa? Era una catapecchia. Ora una villa è! Con quali soldi?

    Catina, le sopracciglia alzate, le labbra strette, le pupille di fuoco, cercava gli occhi del marito per fulminarlo, ma Delfio apposta non la guardò.

    Per non rispondere a Delfio, padre Bonanno si aggrappò a Tufano che stava per sparire nella porta di fianco: – Vieni, Tufà. Vieni che ti do un’ immaginetta con lo scudo crociato. Qualche cosa riusciamo a fargli fare stavolta per il paese.

    Tufano che durante i comizi del partito comunista era sempre in prima fila a cantare Avanti popolo, alla riscossa... si avvicinò e allungò la mano. Il sorriso ironico che gli usciva dagli occhi diventò sarcasmo: – Sì, lo sappiamo cosa farà per il paese lo scudo crociato. Ai preti costruirà la canonica nuova e alle Paoline un’altra ala del convento per farci ballare i sorci. Lo sa anche lei. I pochi bambini che col finanziamento della regione stanno al convento, la sera, vanno a dormire a casa. E ci sono bambini domiciliati al convento solo sulla carta perché le Paoline hanno il cuore tenero: I bambini stanno meglio con la mamma!, così giustificano la truffa. Si presentano in casa delle famiglie bisognose, fanno firmare la domanda di alloggio in istituto, la consegnano all’amico che hanno fatto eleggere e incassano la retta mensile al netto. Bella coscienza!

    Angela lo zittì: – Tappati quella bocca! Scriteriato! Uomo senza fede! Ché il Signore poi ti castiga.

    – Lasci, signora Angela, lo lasci dire. È vero che la Democrazia Cristiana aiuta la chiesa. E di chi è la chiesa? È mia? È dei preti? È del popolo di Dio la chiesa. Senza l’aiuto dello Stato potremmo noi mantenere i ragazzi in seminario?

    Arrivarono, spogliati, Turi e Melchiorre, e Catina ne approfittò per sviare la conversazione: – Ecco, mancano Stella, Sarina e Luigi, andate a chiamarli. Intanto noi impiattiamo. Lei e Totuccio vi fermate a mangiare con noi, padre!

    Durante il pranzo, come per un ragionato accordo, Angela e Catina servirono alternandosi, e chi delle due restava a tavola teneva gli occhi puntati sugli uomini per fulminarli se avessero osato stuzzicare il prete. Padre Bonanno, prudente, collaborò con le donne per evitare qualsiasi tipo di incidente. Lasciare i ragazzi fuori dalle polemiche era la cosa migliore, quando la dubbia fede dei padri rischiava di contaminare il terreno fertile che il Signore stava coltivando. Turi e Melchiorre intanto, lontani dal freno del prete, guardavano le asole che trattenevano a stento i bottoni della camicetta di Sarina e si scambiavano gomitate.

    – È signorina ormai, – diceva mamma Angela che notava l’agitazione dei maschietti, – è nello sviluppo...

    Gli occhi ballerini di Sarina, però, cercavano quelli di Totuccio. Lui la ignorava e parlava a Stella che ispezionava la pasta con la forchetta: – Guarda che non ti mangia! Sei tu che devi mangiarla!

    – Lo so! Non mi piace.

    Catina s’irritò: – Sempre schifiltosa è stata. Non c’è niente che le piaccia a questa signorina!

    Totuccio abbassò la voce: – E il latino come va?

    – Nell’ultimo compito in classe ho preso dieci. In pagella nove. Le regole che a Pasqua mi hai fatto scrivere sul quaderno non le dimentico. La professoressa dice che sono diventata brava. Non gliel’ho detto che mi ha aiutato un prete!

    Sorrise Totuccio, e per non farsi sentire da padre Bonanno le sussurrò all’orecchio: – Beh, non sono ancora un prete. I miei fratelli sono usciti! –. A Stella, che non era svergognata come la cugina, Totuccio poteva anche parlare così.

    Durante il pranzo padre Bonanno parlò solo di cibo e apprezzò ogni pietanza. Alla fine, per il pranzo e per la cooperazione ringraziò Angela e Catina che avevano lavorato anche il giorno avanti per preparare la pasta al forno, l’agnello, le bistecche, i contorni, i dolci con la crema che piacevano ai ragazzi: – Era tutto squisito. Brave mogli e brave cuciniere siete! Ma adesso dobbiamo proprio andare. Devo accompagnare Totuccio in paese. Mi raccomando, i ragazzi frequenteranno le superiori... fateli studiare...

    Accompagnato il padre alla macchina, mentre risalivano verso casa, Tufano sbottò con Delfio: – Ma veramente a ottobre li ridai ai preti i tuoi figli?

    – Lo sai che io non c’entro in questa storia, è mia moglie che si è messa in testa di farli studiare.

    – Hai sentito cosa mi ha chiesto? Ci vai a messa la domenica? Io! Io a messa, la domenica! Come faccio ad andare a messa se don Raffaele mi guarda storto da quando gli ho detto che è pazzo.

    – E tu perché gli hai detto che è pazzo?

    – Mi ha raccomandato di fare quella cosa solo se ho intenzione di fare figli. A te non ha detto niente?

    – Sì, l'ha detto anche a me. Ma lo dice a tutti. Le femmine in chiesa ci vanno perché ai prete raccontano che noi siamo bestie e le prendiamo con la forza.

    – E così gli uomini all’inferno, le femmine in paradiso! Ah! Ah! Mia moglie, sull’altare dovrebbe stare! E tua moglie che ha messo la sottana ai maschi?

    A Delfio ridevano gli occhi: – Per Catina è poco l’altare. E anche il paradiso!

    Solo Delfio vedeva quello che diceva.

    II Il padrone arriva a sorpresa

    Ancora giugno 1960

    – Puripù! Puripù!

    I primi raggi di sole dissolvevano l’ombra intorno al pozzo e inargentavano le punte dei sorbi che allungavano il collo dietro il caseggiato. Al richiamo, gridato nel silenzio del mattino, tacchini, galline, oche, papere e pulcini, sbucati come dal nulla, zampettavano veloci verso la tavola per loro apparecchiata.

    Con il gozzo vuoto e le pupille furbe, gli animali si tuffarono sul becchime spintonando i vicini che cercavano di scalzarli.

    Le ciotole ricolme d’acqua rispecchiavano il cielo e la testa dei pennuti. E c’era chi bucando la superficie col becco tentava di pizzicare l’immagine riflessa: l’acqua schizzava imbrogliando gli occhi e tutti balzavano indietro starnazzando. Le grida stridule dei ragazzi, accorsi al richiamo di Angela e Catina, accrescevano lo schiamazzo.

    Quella mattina mancavano all’appello l’oca screziata e il vecchio tacchino con la zampa storta.

    – Vado a cercarli io – si offrì Turi. Luigi, sempre incollato al fratello maggiore, lo seguì.

    Guardarono nelle stalle, nei magazzini, sotto le mangiatoie... niente! Allora imboccarono la stradella che portava alla casa del padrone. Attraversarono il campo, nero per le stoppie bruciate. Costeggiarono la vigna, dove uno spaventapasseri piegava le braccia sotto il peso degli uccellini stanchi. Giunsero all’uliveto giovane, sulla collina, e girarono, attenti alle spine, intorno al dosso fitto di fichidindia. Un rumore di zoccoli sulla terra dura spinse Turi ad afferrare il fratello per il lembo della canottiera e a trascinarlo dietro le pale di spine. Il cavallo nero dalla lunga criniera trottava verso di loro. Portava in groppa un uomo armato di fucile. Sul viso dell’uomo, nascosto a metà da un cappello di paglia, l’occhio sinistro contratto sosteneva il sigaro, fermo all’angolo della bocca. I mustacchi arruffati all’insù sembravano i baffi del Re d’Italia appeso

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