Incubi
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Anteprima del libro
Incubi - Patrizia Benetti
sangue
Paralisi mortale
Quel fine settimana di novembre decidemmo di festeggiare il compleanno di Lisa. Ero felice di spezzare il tram tram quotidiano con una breve vacanza. Staccare dalla scuola, abbandonare i libri per un po’. Che sensazione liberatoria!
Mi attendeva un week-end in baita con gli amici all’insegna della spensieratezza. Avevamo fatto una scorta eccezionale di birra, coca cola, salatini, pizzette e per finire, un’enorme torta alla crema ricoperta di panna montata e decorata ad arte.
I ragazzi accesero il caminetto. Il padre di Lisa aveva lasciato fascine tagliate da poco impilate accanto. Ero ipnotizzata dalla vista delle lingue di fuoco blu arancio e dal calore che emanavano. Si prospettava una serata da sballo. C’erano anche i super alcolici. Me lo immaginavo. Edoardo e Fabrizio riuscivano sempre a rimediarli.
Cibo, buona compagnia e musica adrenalinica.
Andrea era il dj ufficiale della combriccola. Ci sapeva fare. Lavorava come elettricista insieme al padre.
Lisa era la mia migliore amica. Avevamo gli stessi gusti. Ci piacevano le uova strapazzate col prosciutto, il gelato al pistacchio, i film di paura. Avevamo visto Twilight dodici volte. Adoravamo le band e facevamo il tifo per i concorrenti di X-Factor.
Fuori c’era un vento gelido e gocce d’acqua cadevano come spilli da nuvole grigie. Il cielo plumbeo divenne presto nero come pece.
Noi però stavamo bene. Il cibo era ottimo. La compagnia pure. Era tutto perfetto.
Andrea mi aveva confidato che quella sera Edoardo si sarebbe dichiarato a Lisa. Era chiaro che si piacevano ma nessuno dei due si decideva a fare il primo passo.
L’atmosfera era calda e festosa. Una dolce musica di sottofondo ci invitava a ballare.
A un tratto però udimmo dei colpi alla porta. Forti. Sempre più forti.
Che succede?
, chiese Lisa stringendosi a me.
Fabrizio guardò fuori dalla finestra.
C’è un uomo con un passamontagna. Dobbiamo fermarlo!
. Il nostro amico era sbiancato in volto. La situazione era seria. L’intruso era deciso a invadere il nostro territorio. La villetta di Lisa stava per essere presa d’assedio da un uomo vestito di nero. Cosa voleva da noi? Mi affacciai alla finestra e vidi che era molto alto e nonostante fosse magro aveva la forza di un bue. Sembrava un pazzo. Prendeva a spallate la porta. Spazientito e dolorante, lanciò un urlo selvaggio. Dopo di che afferrò una mazza da baseball e continuò a sferrare colpi.
Diamoci da fare
, replicò Andrea.
Rimasi paralizzata. Silvia mi stringeva forte e pregava. Miriam e Maria Stella erano sull’orlo del pianto. I ragazzi invece diedero man forte a Edo.
Cercarono di lasciare fuori l’intruso accatastando sedie, formando una piccola muraglia
difensiva. Stavano trascinando una cassapanca, quando la porta fu scardinata con forza disumana dall’uomo vestito di nero. La mazza da baseball era rimasta fuori. Nelle mani ora il mostro stringeva un bisturi.
L’alta figura avanzava verso di noi. Provammo a fuggire ma lui era agile come un felino. Affondò la lama nei corpi dei miei amici e li squartò. Schizzi di sangue ovunque. L’assassino era in trance. Colpiva a destra e a manca, senza criterio.
A un certo punto abbandonò il bisturi. Sfoderò un’accetta dalla cintola e la usò contro i miei amici. Lisa e gli altri urlavano in preda agli spasmi, coi volti sfigurati da dolore. Il folle sentiva l’adrenalina scorrere nelle vene mentre mozzava mani e gambe. Io ero sgattaiolata al limite della stanza, in un angolino buio. Lui sembrava non essersene accorto.
Di lì a pochi metri, all’inizio del bosco c’era una fossa profonda in cui l’assassino gettò i macabri resti dei ragazzi. Tremavo ma mi feci coraggio. Sgattaiolai via dalla porta sul retro. Se fossi rimasta lì, forse mi avrebbe scovata.
Quando rientrò in casa e io mi ero lanciata nella fossa, spingendomi più sotto che potevo. Rimasi stordita, immobile. Ero terrorizzata. Avrei voluto urlare. Sangue dovunque. Puzza di morte.
Non c’erano solo i miei amici, ma tanti altri cadaveri in decomposizione. Teschi. Ossa. Alcune bianche, altre brunite, scurite dal tempo.
Mi divincolai a fatica mentre il fetore mi invadeva le narici. Avevo perso la cognizione del tempo. Erano passate ore. Non potevo resistere oltre.
Riuscii a risalire facendomi largo tra quei poveri resti. Finalmente respiravo aria pura.
Finalmente libera. Corsi via veloce come il vento. Temevo che il mostro fosse dietro di me ma non mi voltai nemmeno una volta. Avevo le ali ai piedi.
Il bosco però aveva zanne e artigli.
Spine e rami mi graffiavano il corpo, mi straziavano mentre correvo tra gli alberi urlando. I sassi acuminati mi trafiggevano la pianta dei piedi, ma continuai a correre.
Fermarsi significava morire. Ero sfinita, sanguinante eppure dovevo andare avanti a ogni costo. Volevo fuggire dal buio della fitta boscaglia, in cerca di luce. La salvezza.
Un bagliore all’improvviso. Dei fari. La strada era vicina? Avevo perso il senso dell’orientamento. Accelerai il passo, gridai più forte, mi precipitai verso la luce. Scorsi un’alta figura illuminata dai fari di un’auto. Il terrore mi stordì. Il sangue pulsava forte nel cervello. Avevo la vista offuscata e tremavo come una foglia.
Lui? Correva verso di me. Rimasi immobile. Paralizzata. No. Non era lui. Qualcun altro. La salvezza. Tirai un sospiro di sollievo. I polmoni bruciavano da morire. Poi pensai agli amici. Tutti morti. Io, Michela, ero l’unica sopravvissuta.
***
Piansi tutte le lacrime che avevo. Urlai in preda alle allucinazioni. Farneticavo.
Cosa è successo?
, chiese il giovane uomo.
Laggiù, nel bosco….
.
Non capisco. Cosa è successo?
.
Sono tutti morti!
, dissi in preda a un forte tremito.
Un branco di lupi?
.
No. Un uomo
.
L’hai visto in faccia?
.
Indossava un passamontagna
.
Non preoccuparti. Ti porto in ospedale. D’accordo?
.
Feci cenno di sì con la testa. Mi allungò uno straccio col quale mi ripulii alla meglio.
Non devi avere paura di me
, disse parlando lentamente e scandendo bene le parole.
Salì in macchina e aprì lo sportello del passeggero. Rimase in attesa. Io feci un timido sorriso e sedetti accanto a lui.
Il mio salvatore fermò l’auto davanti all’ospedale più vicino. Al pronto soccorso mi medicarono le ferite, poi mi lavarono via sangue, fango e sudiciume. L’acqua calda fu un vero toccasana.
Tranquilla. Ora è tutto finito
, disse un’infermiera accarezzandomi il volto.
Ora sono in una piccola stanza. Mi ficco sotto le coperte. Rimango lì immobile finché mi addormento. Sono svegliata da uno strano trambusto. C’è la mia famiglia.
Mamma mi abbraccia, mi bacia, mi rimbocca le coperte. Non riesce a stare ferma.
Anche papà e mio fratello Alberto sono visibilmente agitati.
Mi sento strana. Accenno un sorriso.
Fuori c’è la polizia. Vogliono parlarti. Te la senti?
, chiede papà.
Panico. Tremo. Grosse lacrime ricominciano a rigarmi il viso.
Un agente entra in camera. Mi guarda e se ne va.
I medici gli hanno detto che sono sotto shock.
La mattina seguente vengo ricoverata in una clinica psichiatrica vicino a casa.
Un luogo popolato da strana gente.
Un tipo secco, con le orecchie a sventola si gratta le braccia fino a scorticare la pelle.
Smettila Smilzo!
, dice l’infermiera, sei pieno di croste
.
Lui scuote la testa in segno di disappunto.
Una vecchia spettinata, con un grembiule a fiori, stringe tra le braccia una bambola e le canta una ninna nanna.
Due uomini calvi, dalle grosse pance, giocano a carte e parlano a voce alta.
Un tipo dai capelli biondi come pannocchie si arrabbia. Si alza dal divanetto e va a sedersi davanti alla tivù. C’è il suo telefilm preferito.
Li osservo sgomenta.
Non preoccuparti
, dice l’infermiera, avrai una stanza tutta tua. Starai bene
.
Vengo sedata. Dormo giorno e notte. Mi svegliano per darmi da mangiare.
Dopo qualche giorno vengo affidata alle cure di un giovane psichiatra fin troppo zelante.
Come ti chiami?
Michela
, rispondo di malavoglia.
Quanti anni hai?
, chiede sorridendo.
Sedici
, rispondo.
Sedici anni e sono già in tilt.
Ho assistito a uno spettacolo allucinante e mi sento in colpa per essere ancora viva.
Non vorrei ma mi sciolgo in lacrime. Non sono più padrona delle mie emozioni.
Non è facile. Ci vorrà tempo e pazienza
.
Annuisco e mi lavo via le lacrime dalla faccia. Vorrei sparire dalla faccia della terra.
Dopo un paio di settimane di terapia del sonno, il dottore mi chiede se sono pronta a parlare di ciò che provo.
Non lo so
.
Mi propone l’ipnosi.