Le vie della seta a Rimini: Artefici e luoghi produttivi (XVI-XX sec.)
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Info su questo ebook
Lo studio, che s'inserisce nell'ambito del progetto “Patrimonio Culturale a Rimini e in Romagna: Archivi per il Fashion e la Moda tra Ottocento e Novecento”, promosso dal Dipartimento di Scienze per la Qualità della Vita Campus di Rimini, Università di Bologna, prende in esame fonti archivistiche del tutto inedite per ricostruire le fasi di sviluppo di un'attività economica di primaria importanza per la città e il territorio riminese fra XVII e inizio del XX secolo, individuandone i luoghi, ovvero filatoi e filande, in alcuni casi ancora oggi esistenti, e gli artefici, famiglie come quella Manganoni, meglio nota per la collezione di quadri del Guercino, o Aducci, tramandatesi per generazioni l'arte della seta.
L'autore
Cristina Ravara Montebelli, archeologa di professione, organizzatrice di mostre e convegni. Da anni è impegnata in ricerche d’archivio riguardanti l’archeologia, il collezionismo e la storia del riminese nel XIX secolo. Ha partecipato in qualità di ricercatrice ai Progetti Europei ROMIT, ADRIAS, B.A.R.C.A, come relatrice a Convegni nazionali e internazionali, in veste di docente a seminari universitari ed a varie edizioni della International Summer School “Mediterraneo” dell’Università di Bologna (2007-2009). E' cultore della materia (Topografia antica) presso il Dipartimento Beni Culturali, Università di Bologna, Campus di Ravenna. Ha al suo attivo una cinquantina di articoli scientifici e varie monografie archeologiche: Crustumium, Archeologia adriatica fra Cattolica e San Giovanni in Marignano (2007); Archeologia navale. Cronaca di un rivenimento adriatico. Le stele di Novilara (2007); Halieutica. Pescatori nel mondo antico (2009); La valle degli idoli. Bronzi preromani da Casalecchio e dalla Valmarecchia. Fonti archeologiche d'archivio (2013) e la curatela del volume collettaneo Alea iacta est. Giulio Cesare in Archivio (2010).
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Le vie della seta a Rimini - Cristina Ravara Montebelli
Cristina Ravara Montebelli
Le vie della seta a Rimini
Le vie della seta a Rimini. Artefici e luoghi produttivi (XVI-XX sec.)
di Cristina Ravara Montebelli
Collana Le Turbine
© 2015 Bookstones
via dell'Ospedale 11
47921 Rimini
www.bookstones.it
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isbn: 978-88-98275-21-2
Indice
Presentazione
Gli esordi: il trattato di Corsucci e le tecniche di allevamento del baco a Rimini alla fine del XVI secolo
Capitoli de' boccioli o filugelli (1646)
Il filatoio Manganoni, poi Zollio (XVII secolo)
Filatoieri riminesi del XVIII secolo: il problema del dazio e della delocalizzazione
Dai filatoi alle filande
Filandieri riminesi (XIX secolo)
Innovatori riminesi ed astuzie dei contadini
Il Pavaglione riminese, regolamenti e pratiche
L'epilogo: i mercati serici e le ultime filande nel riminese dall'Inchiesta Jacini alla crisi del 1929
Per un approfondimento sulle famiglie Manganoni e Zollio (di Samanta Bruschi)
Pianta di Rimini con localizzazione dei principali filatoi e filande
Glossario
Bibliografia
Presentazione
L'eccellente ricerca storica, ben fondata e ricca di prezioso materiale documentario inedito, realizzata dall'autrice in questo volume, si inserisce nell'ambito del progetto di ricerca Patrimonio Culturale a Rimini e in Romagna: Archivi per il Fashion e la Moda tra Ottocento e Novecento
, promosso dal Dipartimento di Scienze per la Qualità della Vita Campus di Rimini Università di Bologna, Soprintendenza Archivistica per l'Emilia-Romagna, Archivio di Stato di Rimini e di Forlì-Cesena, in collaborazione con la Cattedra Unesco Unitwin Tourism, Culture and Development
.
In questa direzione, nel trarre continuità storiografica da alcuni percorsi fondamentali di Storia sociale della moda, l'autrice, avendo ben presente il contesto storico generale, ricostruisce in modo originale, tra persistenze e mutamenti, le vie della seta a Rimini, gli artefici e soprattutto i luoghi produttivi, nell'arco cronologico compreso tra il XVI e il XX secolo. In particolare, ha il merito di apportare un contributo inedito per quanto riguarda la storia dei filatoieri riminesi del XVIII secolo, il passaggio dai filatoi alle filande all'inizio del XIX secolo, con alcuni protagonisti di livello nazionale, appartenenti a famiglie dedicate a questa attività da generazioni, come quella degli Aducci, oppure dei Gardini. In conclusione, si aggiunge un notevole approfondimento storico sulle famiglie Manganoni e Zollio, a cura di Samanta Bruschi.
Daniela Calanca
Alma Mater Studiorum Università di Bologna
Dipartimento di Scienze per la Qualità della Vita
Scuola di Lettere e Beni Culturali
CdS Culture e tecniche della moda
Campus di Rimini
Gli esordi: il trattato di Corsucci e le tecniche di allevamento del baco a Rimini alla fine del XVI secolo
Il vermicello dalla seta scritto da Giovanni Andrea Corsucci da Sassocorvaro nel 1581 e pubblicato a Rimini per i tipi di Giovanni Simbeni è un vero e proprio trattato, con scopi didattici (fig. 1). Le informazioni biografiche sull'autore sono veramente scarne. Clementini scrive che fu Rettore di San Giorgio Antico e lo stesso Corsucci dichiara di essere vissuto a Rimini per oltre 37 anni, stipendiato dai riminesi per ben 15 anni[1].
Fig. 1 - Frontespizio del trattato Il vermicello dalla seta, di Giovanni Andrea Corsucci da Sassocorvaro, Rimini Simbeni 1581.
Il trattato è rivolto alle donne, per tale motivo è stato scritto non in latino, ma in italiano e dedicato aPiretta Doria, moglie del Signore di Sassocorvaro, Filippo II Doria (1535-1563), Conte di Sassocorvaro, inviato da Genova a governare la città marchigiana a soli 15 anni. È in quest'epoca che lo conosce Corsucci, il quale di lui scrive come il mio genio se confacesse col suo, mi voleva sempre appresso lui
, e inoltre ultimamente che lo vidi qui in Rimini, mi mostrò più lieta faccia, che mai facesse, con baciarmi, e offrirsi con modi incredibili: quando egli tornava dalla corte dell'Imperatore per la lite, ch'egli aveva col Marchese Carretta, quando ei governò il Finale per il tumulto fatto contra il Marchese: non conoscendo la Repub. di Genoua uomo più atto à placar quel popolo tumultuante. Intesi poi che si ammalò in Pesaro, e stato in Sassocorbaro alcun giorni indisposto, e partendosi per Genova là finì la sua vita, [...]
[2].
L'autore del trattato sostiene di aver iniziato la stesura quando Filippo Doria era ancora in vita, quindi prima del 1563, e che avrebbe voluto dedicarla a lui, ma essendo mancato, ben volentieri l'aveva invece rivolta alla moglie, in quanto conveniente a lei
ed alla città di Genova, nella quale era ben sviluppata quest'arte tanto che, a suo parere, tenghi il principato dell'opere di seta
[3].
Se a Rimini l'allevamento del baco da seta non risulta al momento attestato da altre fonti documentarie prima di questa data, come dimostrano le accurate ricerche condotte da O. Delucca sui documenti fino agli inizi del XVI secolo[4], però uno degli articoli nei Capitoli della fiera di San Giuliano, datati al 1579, dimostra non solo che la seta grezza o cruda era già commerciata nella fiera senza pagamento di alcun dazio, ma che a Rimini era anche estratta dal baco ovvero cavata
, perché infatti chi voleva cavare per passo
, cioè nel transito di passaggio nel periodo della fiera, doveva pagare tanto per collo o soma come è stato detto dell'altre mercanzie nelli detti capitoli
[5].
L'interesse di Corsucci per la massima diffusione di questi argomenti, in lingua italiana, per agevolarne la lettura alle donne, dedite a questa attività, indica quindi che era praticata a Rimini già da tempo. L'autore esordisce con questo sonetto in lode della città di Rimini, che riportiamo in quanto sostanzialmente sconosciuto e contenente una delle prime descrizioni della città in italiano e a stampa dell'età moderna:
Rimini, già del gran Romano Impero
Armario, siede in spiàggia aprica, e amena;
Da Borea, l'Adriò Mar, l'erbosa arena,
Da L'Austro, l'orna l'Apennin' altero.
Senza'l primier suo nome dal'Ibero.
Il Fiume, l'onda, à la fals'onda mena;
Da l'orto, Aprusia il piè le bagna; e appena
Per angusto ne và verde sentiero.
Quivi ne mezo un Regio Forte sorte
Che'l liquido cristal versand'intorno
Util, diletto, e meraviglia porge.
Quivi è un Ponte, ed un Arco, augusto, e adorno;
Quivi beltà, quivi valor risorge
Di donne, e cavaliere, degno soggiorno[6].
Poi l'autore passa a descrivere le tre parti in cui è divisa l'opera: nella prima tratta dei vermicelli ovvero bachi da seta, a partire dalle loro sementi
, cioè dalle uova deposte dalle farfalle, dei tempi e modi di alimentare i vermicelli con le foglie di gelso, delle loro mute, dei nemici, delle malattie e dei rimedi, ma anche dei tipi di mori di gelso e del modo di conservarne la foglia. La seconda parte ha per oggetto la seta e tutti i tipi di tessuto che con essa si producono, per i personaggi importanti e per i ministri della Chiesa, ma anche l'uso che se ne fa nell'esercito, sulle navi e in medicina. Infine la terza parte è dedicata ai colori, con i quali viene tinta ed i loro nomi[7].
Nel proemio al lettore Corsucci si stupisce che nessun autore antico o moderno abbia mai trattato di quest'argomento, quindi si rivolge alli molto magnifici Sig. Gentiluomini de Rimini
, sostenendo di aver composto l'operetta per ricambiarli de' piaceri, utile e favori, ch'io per molti, e molti anni ho ricevuto da questa Magnifica, e nobile città: perché prima son vissuto in questa anni trentasette, e per anni quindici ho goduto il vostro commun stipendio
e sottolineando che hanno gran torto far si poca professione di questo onesto e utile esercitio della seta
a dimostrazione che a Rimini era già praticato da tempo, benché non diffusamente. Inoltre avendo questa città, e suo Territorio tutte quelle doti, che possono cadere in mente umana, e il sito di Rimini sia bello, comodo, e fertile, di mare, pianure, e colline vicine alla città, col più frequente passaggio di tutta Italia
, consiglia di non trasportare la seta da vendere per mare, rischiando che sia depredata dai pirati o che sia perduta nei fortunali ma facilmente, e presto la spedirete nella vostra antica, e nobil fiera di Rimini
.
Poi si rivolge alle Donne di Rimini
e siccome, a differenza di altre città, a Rimini solo loro sono impegnate in questa attività particolarmente a voi, ho fatto questa fatica per vostro amore, mostrandovi la regola, e modo come abbiate felice successo in questi nobilissimi animaletti, osservati da me almeno per spatio di quindici anni, volendo vedere il tutto con miei occhi proprij
[8].
Quindi si scusa di aver sostenuto di essere il primo degli autori antichi e moderni ad essersi occupato dell'argomento e cita certi versi in latino di Monsignor Vida, li quali sono pochi, e oscuri
. Si tratta infatti di un poemetto dal titolo De Bombyce contenuto in una raccolta su vari argomenti, scritto a Cremona nel 1550 da Marco Girolamo Vida, Vescovo d'Alba, per la cui traduzione si deve però attendere il 1733, quando a Napoli viene pubblicato da Tommaso Perrone, Li Bachi del Vida, Poema tradotto dal latino in italiano. Inoltre ricorda l'opera di Agostino Gallo da Brescia, che nel 1569 aveva scritto un trattato sull'agricoltura in forma di dialogo, diviso in giornate ovvero, Le vinti giornate dell'agricoltura et de' piaceri della villa, nel quale un capitolo o meglio una giornata era dedicata al vermicello da seta, all'epoca chiamato anche Cavaliere
, Nella quale si tratta del nodrire i Cavalieri, che fanno la seta[9]. Corsucci dimostra di non conoscere invece il trattatello del mantovano Livanzio Guidicciolo, dal titolo Avvertimenti bellissimi, e molto utili a chi si diletta di allevare, e nodrire quei animali, che fanno la seta, stampato a Brescia nel 1564[10].
L'autore quindi intesse una lode al vermicello, miracolo della natura, del quale non si butta via niente perché, anche dopo che è stato privato del suo bozzolo, può essere dato da mangiare a polli ed oche oppure utilizzato come fertilizzante alla base di olivi e viti. E non può poi mancare una lode della pianta del moro di gelso, in simbiosi con il vermicello, senza la quale non si potrebbe alimentare, il cui legno viene utilizzato per realizzare strumenti musicali come arpe, flauti e viole ed i cui frutti, le more, sono buoni da mangiare e salutiferi. Quest'albero viene definito poi prudentissimo sopra tutti
perché non fa spuntare le gemme prima che siano finite le basse temperature, quindi è l'ultimo a germogliare, ma il primo a portare i frutti e, per questa sua caratteristica, è stato posto come emblema nello stemma araldico dei Moroni dimostrando potersi con l'istessa prudenza difendere da suoi nemici
[11].
A questo punto tenta di spiegare l'origine della seta, dapprima narrando un'inedita versione del mito di Crono e della ninfa Filira, dalla cui unione nacque il centauro Chirone e in base alla quale Crono, dopo aver invocato l'intervento di Afrodite per sedurre la ninfa ed avere ottenuto dalla dea il potere di trasformarsi in cavallo, la ricompensò donandole in un purissimo pa(n)no lino le sementi del vermicello, o diremo cavaliere, con l'opera del quale per l'avvenire se coprisse, e ne mostrasse ad altri
[12]. Successivamente ricorda il passo di Plinio (Nat. Hist. XI, 76), dove l'enciclopedico autore latino spiega che la prima donna a filare la seta, ovvero la bombycina dal termine greco usato per la prima volta da Aristotele (Hist. An., V, 19 [17]; II [6]), sarebbe stata la figlia di Plateas, Pamphile, nell'isola greca di Coo.
Più oltre nel trattato, Corsucci cita anche il verso di Virgilio (Georgiche, II, 121), poi ripreso da Plinio, nel quale si dichiara che i Cinesi ovvero i Seri sono famosi per la sostanza lanosa che si ottiene dalle loro foreste. Dopo un'immersione nell'acqua essi pettinano via la peluria bianca dalle foglie
(Nat. Hist. XXIII, 79). E ricorda anche il brano di Pausania[13], nella sua Guida della Grecia (VI, 26, 6-8), dove spiega nel dettaglio l'allevamento dei bachi da parte dei Seri, benché con aspetti un po' fantasiosi, ma suggerendo anche l'etimologia dell'aggettivo serico
:
[...] i fili con i quali i Seri fanno le vesti non vengono da corteccia vegetale, ma sono prodotti in quest'altro modo. C'è nella loro terra un piccolo animale che i Greci chiamano ser
ma che presso i Seri ha un altro nome, diverso da ser
: è grande il doppio del più grande degli scarabei, e per il resto è simile ai ragni che fanno la tela sotto gli alberi: in particolare ha, come i ragni, otto zampe. I Seri allevano questi animali costruendo per loro dimore adatte alla stagione invernale ed estiva e ne ricavano il prodotto, un gomitolo di filo sottile avvolto attorno alle loro zampe. Li allevano per quattro anni dando loro da mangiare il miglio; al quinto anno - sanno infatti che non vivranno più a lungo - danno loro da mangiare canna verde: questo cibo è il più gradito di tutti per l'animale che, rimpinzatosi di canna, scoppia per la quantità ingerita: quand'è morto gli trovano dentro la quantità maggiore di filo[14].
Corsucci però ritiene non trattarsi del medesimo tipo di seta infatti nel paragrafo relativo all'arrivo della seta in Italia riferisce quanto ricavato da Marco Girolamo Vida, ovvero che uno chiamato Sero fu il primo, che portasse la seta nell'Italia dalla patria sua, ch'era Sera nella Scithia Asiatica
e poi cita come fonte Procopio[15], il passo della Storia Segreta, opera d'intonazione polemica, destinata ad essere pubblicata postuma, nella quale il più importante storico di età bizantina scrive:
Quando questi sovrani vincolarono tutte le merci al regime di monopolio, chi voleva comprare era quotidianamente preso per il collo. Restava intatto il mercato del vestiario: ebbene, escogitarono anche lì una trovata. Era consuetudine antica che i vestiti di seta fossero lavorati a Beirut e a Tiro, città fenicie. I commercianti, i fabbricanti e gli operai del settore abitavano lì da gran tempo, e di lì quella merce era portata in tutto il mondo. Sotto l'impero di Giustiniano, l'industria della seta a Bisanzio e in altre città aumentò i prezzi dei vestiti, con la scusa di dover pagare ai Persiani un costo più elevato di prima, mentre c'erano anche più balzelli nel territorio romano: l'imperatore fece finta d'arrabbiarsi per questo fatto e mise un calmiere, vietando la vendita a più di 8 aurei la libbra, e comminando, in caso di trasgressione, la confisca delle riserve esistenti.
La cosa pareva assurda e senza uscita. Non era possibile che i commercianti comperassero le partite a un prezzo maggiore per poi rivenderle a meno ai clienti. Pensarono bene d'abbandonare il commercio e intanto effettuavano vendite al minuto, a borsa nera, delle partite rimaste, naturalmente a persone note, ben disposte (o magari costrette) a profondere i loro soldi per pavoneggiarsi di quelle vesti. Ma qualcuno rifischiò la cosa e la sovrana [Teodora] la venne a sapere; allora, senza vagliare l'attendibilità delle voci, confiscò a quella gente tutte le rimanenze, imponendo inoltre l'ammenda d'un centenario d'oro. Adesso a capo di quell'industria c'è il sovrintendente dei tesori imperiali. Una volta messo a quel posto Pietro detto Barisme, gli consentirono, poco dopo, di commettere quest'indegnità. Egli esigeva che tutti gli altri osservassero scrupolosamente la legge, e intanto, obbligando gli artigiani del settore a lavorare solo per lui, vendeva la seta, e non di nascosto, ma sulla pubblica piazza, a non meno di 6 aurei l'oncia nelle altre tinte, mentre nella tinta imperiale, che si suol dire olovero
, a più di 24 aurei.