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Cistiberim - Umbilicus Urbis Romae
Cistiberim - Umbilicus Urbis Romae
Cistiberim - Umbilicus Urbis Romae
E-book707 pagine7 ore

Cistiberim - Umbilicus Urbis Romae

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Info su questo ebook

Giuseppe Lorin ci conduce sulla riva sinistra del Tevere, a Cistiberim, dove risiede il fulcro del potere ecclesiastico/istituzionale.

Se la riva destra del Tevere era il luogo delle ombre, della religione arcaica e delle superstizioni ctonie ed oltretombali, la sponda sinistra rappresentava il lato solare e sfavillante dell'Urbe, il macrocosmo in cui religione ufficiale, politica istituzionale e somme cariche imperiali dettavano legge e proclamavano verità inconfutabili.

Cistiberim, Vmbilicvs Vrbis Romae e il secondo volume, Cistiberim, il Potere e l’Ambizione sono da considerarsi un saggio di grande rilevanza storica ed artistica; un unicum prezioso, corredato da un apparato fotografico di prim’ordine, in cui, ancora una volta, l'autore conferma l’amore viscerale per la città più bella del mondo.

LinguaItaliano
Data di uscita7 feb 2020
ISBN9788869345951
Cistiberim - Umbilicus Urbis Romae
Autore

Giuseppe Lorin

Attore, poeta, regista, critico letterario, conduttore e giornalista, ha studiato all'Accademia Nazionale d'Arten Drammatica "Silvio D’Amico". Ha pubblicato, tra gli altri, Da Monteverde al mare (2013); Roma, i segreti degli antichi luoghi (2016), Transtiberim (Bibliotheka 2018), Cistiberim - Umbilicus Urbis Romae e Cistiberim - Il potere e l'ambizione (Bibliotheka, 2020). 

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    Anteprima del libro

    Cistiberim - Umbilicus Urbis Romae - Giuseppe Lorin

    Giuseppe Lorin

    Attore, poeta, regista, romanziere, critico letterario, autore, conduttore e giornalista, Giuseppe Lorin dopo aver studiato all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio D’Amico, si è specializzato all’International Film Institute of London con Richard Attenborough.

    Laureato in Psicologia all’Università di Roma La Sapienza, si è specializzato in Pubblicità e Marketing presso l’Università Luigi Bocconi di Milano.

    È docente di Interpretazione con il Metodo Mimesico e Dizione interpretativa.

    È giornalista pubblicista e collabora con varie testate giornalistiche online e cartacee.

    Ha vinto diversi premi e riconoscimenti.

    Ha pubblicato: Manuale di dizione (Nicola Pesce, 2009); Da Monteverde al mare (David and Matthaus, 2013); Tra le argille del tempo, (David and Matthaus, 2015); Roma, i segreti degli antichi luoghi (David and Matthaus, 2016); Roma, la verità violata (Alter Ego, 2017); Transtiberim – Trastevere, il mondo dell’oltretomba (Bibliotheka edizioni, 2018), Dossier Isabella Morra, poetessa del XVI secolo (Bibliotheka Edizioni, 2019), Cistiberim – Il potere e l’ambizione (Bibliotheka Edizioni, 2020).

    www.giuseppelorin.blogspot.it

    …dai platani

    lungo i muraglioni del Tevere

    al vento

    gli odori muschiati

    delle ere ormai passate

    sprigionavano

    il ricordo di Roma

    che la pioggia di marzo attutiva

    nell’apoteosi più bella del suo Impero…

    Giuseppe Lorin

    …Fecondo Sole,

    che su l’aureo cocchio

    apri e nascondi il giorno

    e variamente uguale sorgi,

    dèh, nulla mai veder tu possa

    maggior di Roma!

    Quintus Horatius Flaccus

    Carmen saeculare – 17 a.C – Ludi seculares

    trad. Mario Rapisardi

    Foto a cura di: Morgan Brighel, Jascin Calafato, Giovanni Feliziani, Elena Felluca, Matteo Ferlisi, Daniele Franceschini, Giuseppe Lorin, Giacomo Mearelli, Massimo Meli, Marcello Valeri, Michela Zanarella.

    Disegno a cura di: Emilio Laguardia.

    Si ringrazia per la gentile consultazione fotografica e bibliografica con il permesso a procedere: Archivio fotografico e bibliografico della Cultura Trasteverina e Monteverdina di Silvio Parrello, Archivio Istituto Luce, Biblioteca privata famiglia Bernini, Archivio G. De Angelis D’Ossat, Archivio Storico di Quinto Ficari, Biblioteca Roberto Forges Davanzati, Biblioteca e Raccolta Teatrale del Burcardo, Cvltvs Deorvm Ostia Antica, Archivio di Stato di Roma, Archivio Tesori del Lazio, Archivio Storico Nazionale, Archivio segreto Vaticano, Vicariato di Roma, Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma, Archivio Storico della Biblioteca Vallicelliana per le ulteriori informazioni e indicazioni a compendio e completamento.

    Ponte Fabricius da cistiberim all’Isola Tiberina

    Marco Aurelio ed il cavallo (gruppo equestre originale)nel salone dei Musei Capitolini.

    Fabiano Forti Bernini accanto all’opera in marmo di Gian Lorenzo Bernini, La capra Amaltea (1615), Galleria Borghese – Roma Foto, per gentile concessione di Fabiano Forti Bernini.

    Prefazione

    Avendo avuto la possibilità di leggere in anteprima questa fatica improba dell’autore, di colpo mi sono reso conto che i personaggi di questo saggio storico, che riguarda la riva sinistra del Tevere, mano mano che andavo avanti nella lettura, prendevano vita, insomma diventavano vivi e veri. Ed ecco che i re di Roma, gli imperatori, i papi, gli architetti e gli scultori erano per me come vivi. Ed eccomi faccia a faccia con Gian Lorenzo Bernini che tanto ha fatto per questa Roma del XVII secolo.

    Attraverso queste pagine, la leggera ma certa descrizione dei fatti che lo hanno coinvolto e l’accurata descrizione del carattere e delle sue opere, hanno fatto sì che lo riconoscessi, nel colorito del volto, nelle sue piccole e grandi manie, nei suoi vizi, negli alterchi, nelle dispute, nella sua genialità artistica, insomma, grazie a Giuseppe Lorin, autore di questo libro, l’ho visto vivo il mio avo, e con estremo piacere dedico la fortuna di questo saggio storico e la mia attenzione all’autore. Ciò che rende grande la storia di Roma non è che sia stata fatta da uomini diversi da noi, ma che sia stata fatta da uomini come noi.

    Ora, mi piace ricordare una frase di Indro Montanelli, che è stato anche un docente di giornalismo del nostro Lorin: "Roma fu Roma non perché gli eroi della sua storia non abbiano commesso delitti e balordaggini, ma perché nemmeno i loro delitti e le loro balordaggini, per quanto grossi e talvolta immensi, poterono intaccare il suo diritto al primato".

    Fabiano Forti Bernini

    Ante Veritas

    Tremila anni prima di Cristo, nell’età eneolitica, del rame e del bronzo, ovvero più o meno cinquemila anni fa, nella zona dove sarebbe sorta la città, che in seguito sarà chiamata Roma, su qualsiasi promontorio a destra o a sinistra dell’Ahl, l’acqua, il fiume che dà la vita e per questo adorato e ringraziato, sorgevano alcuni villaggi formati da capanne circolari con tetti di fango e paglia.

    Prima dei fatti che andrò a narrare, gli abitanti dei villaggi che si trovavano sulla riva sinistra del fiume, conosciuto come Ahl, che verrà nominato in seguito Tevere, quindi a cistiberim, si dedicavano alla pastorizia e alla transumanza, mentre chi risiedeva sulle alture della riva destra al di là del fiume, a transtiberim, praticava l’agricoltura. Si trattava principalmente di giovani cacciatori e guerrieri che, con le frecce dalle punte di ossidiana o selce ed asce in rame o bronzo, procuravano il cibo per l’intero villaggio. Il territorio della riva destra del fiume, transtiberim, costituiva un insieme di alture dalla struttura omogenea che si estendeva in direzione nord-sud. La loro origine è molto più antica di quella dei Sette Colli, poiché risale al processo di sedimentazione marina. Al contrario, la composizione dei rilievi collocati sulla riva sinistra, al di qua del fiume, a cistiberim, presentano un substrato di natura argillosa su cui si sono, nel tempo, sovrapposti detriti sabbiosi, ricoperti da materiale piroclastico dovuto al passaggio delle colate laviche della zona vulcanica con depositi di ossidiana. Oggi quel luogo dei vulcani è conosciuto come monti Sabatini, l’attuale zona del lago di Bracciano e Martignano, l’antico Alsietinum. "Pavlvs Quintvs Pontifex Maximvs Aqvam in agro Braccianensi salvberrimis e fontibvs collectam veteribus Aqvae Alsietinae dvctibvs restitvtis novisqve additis XXXV ab milliario dvxit così, come è scolpito nella dedica alta del fontanone per la mostra dell’acqua Paola, al Gianicolo, che qui rappresenta lo stadio terminale dell’Acquedotto di Traiano incanalato in località La Marmotta", dove esisteva il più antico insediamento del neolitico ovvero tra il 5750 e il 5260 a.C.. Il condotto nuovo e l’edificio di presa, o castello dell’acqua, costruito in località Laa Marmotta, nel triangularis lacus, venne voluto e finanziato da Paolo V Borghese, che sostenne gli studi sugli antichi acquedotti di Augusto dell’anno 1° a.C., e quelli per l’Alsietinus, e Traiano del 108 d.C., per il lago Sabatinus, edificati per rifornire di acqua potabile la XIV regione di transtiberim oltre che per le naumachie di Augusto imperatore. L’edificio di presa sul lago, ebbe la manutenzione di un altro papa, del mecenate munifico che favorì gli studi archeologici, Pio VI, al secolo Giovanni Angelo Braschi, nato a Cesena il 25 dicembre 1717, pontefice massimo, e che è stato il 250º vescovo di Roma e papa della Chiesa cattolica dal 15 febbraio 1775 fino al suo decesso, avvenuta dopo varie sofferenze psicologiche e fisiche, inflitte dal Direttorio, poiché dichiarato prigioniero di Stato; morì a Valence-Drome, il 29 agosto 1799. La salma, per volontà di Napoleone imperatore, venne trasferita a San Pietro nel 1802. La statua monumentale di Pio VI, inginocchiato in preghiera davanti l’urna contenente le ossa di san Pietro, è opera di Antonio Canova, e si trova nello spazio della confessione.

    Pio VI di Antonio Canova nella basilica di San Pietro.

    Vista anteriore della presa d’acqua dal lago Sabatino restaurata da Pio VI in località La Marmotta.

    Vista posteriore della presa d’acqua dal lago Sabatino restaurata da Pio VI in località La Marmotta

    Gli architetti incaricati per la mostra monumentale dell’acqua al Gianicolo furono Giovanni Fontana (1540-1614), Flaminio Ponzio (1560-1613), Ippolito Buzio (1562-1634), scultore. Il fontanone venne edificato ed inaugurato nel 1612 per volere di papa Paolo V Borghese (1605-1621) al secolo, Camillo Borghese (1552-1621), cardinale dal 1596; salito al soglio di Pietro assunse il nome di Paolo V (1605-1621), i cui stemmi familiari, drago e aquila, ricorrono in più punti sul monumento; fontanone conosciuto anche come Mostra dell’Acqua Paola, che si mostra, per l’appunto, alla luce e al pubblico dopo aver percorso l’acquedotto Traiano-Paolo.

    Mostra dell’acqua Paola a transtiberim – Gianicolo – di Giovanni Fontana e di Flaminio Ponzio

    Le colate vulcaniche scendevano a valle, dirette verso il preistorico corso d’acqua, l’Ahl, l’Albula, il Rumon del paleo popolo etrusco. Per gli uomini di quelle epoche remote ogni cosa aveva origine da presenze inconoscibili, generatrici della vita e dispensatrici di morte, in un inarrestabile e inesorabile perpetuarsi. I molti declivi, fittamente ricoperti da querce e faggi, lecci, sugheri e lauri, si ergevano in una valle formata nel tempo dalle anse di un fiume che nasceva impetuoso e che poi si placava al piano, in sinuosità regolari e tranquille. Fin dagli inizi le antiche orde del luogo lo avevano chiamato con un nome che, stranamente, se pronunciato in modo gutturale, apre la gola nello sforzo e secca le labbra nel desiderio archetipico del dover bere: Ahl!

    Ahl significava acqua e Ahl bula, terra lungo l’acqua o vicina ad essa. Le radici etimologiche del nome vanno ricercate nelle lingue protoindoeuropee come l’etrusco, l’iberico, il basco, il minoico, il pelasgico, il siculo, il sanscrito, l’idioma tirrenico, l’albanese, la lingua samoieda, l’uralica. Con il termine Indoeuropei si indica un insieme di popolazioni che, parlando un comune idioma denominato protoindoeuropeo, e che avrebbe popolato un’area geografica comune tra la metà del V millennio a.C. e l’inizio del II millennio prima di Cristo. Tale etnia si sarebbe poi dispersa per l’Eurasia perdendo presto i collegamenti con le loro terre di origine e si resero protagonisti di civiltà uniche a causa di dinamiche complesse di espansioni migratorie, legate a linee di transumanza e di caccia che prevalsero sull’allevamento di animali quali capre, maiali e pecore privilegiando il commercio preistorico, sospinti da invasioni militari favorite dal nomadismo, dando così origine alla mistione di diversi popoli che conservano tuttora fortissime ed evidenti analogie linguistiche con quelle comunemente conosciute come lingue indoeuropee.

    Questi uomini pescavano nelle acque del fiume e cacciavano nei boschi. Usavano oggetti fabbricati con ossa di animali, con argille, sassi, selci e ossidiana, servendosi del fuoco da quando gli antichi progenitori lo avevano tratto dalle scintille delle pietre. Nessuno sapeva chi fosse arrivato per primo su quelle rive non lontane dal mare, a occidente, né si domandava se gli antenati fossero sorti dalla terra sulla quale vivevano da tempi immemorabili o se fossero venuti giù dal cielo stellato. Nessuno tra gli umani sapeva darsi una risposta. Chissà se, sospinti dalle carestie, fossero emigrati dalle regioni al di là di mari profondi e insondabili o dai remoti monti di cui sentivano fantasticare i più vecchi in un incerto idioma. Insondabile rimaneva il mistero della loro origine. Erano nomadi che, sulle colline di quel fiume, vivevano duramente, in maniera inumana, fra terrori e superstizioni, fra animali giganteschi, tra cervi e cinghiali, immersi in acquitrini malsani popolati da maiali d’acqua. Scarsi erano gli affetti, minime le diversità tra gli individui che non avevano capi politici né religiosi, e che neppure erano raccolti in famiglie. Si nutrivano di frutta spontanea, di legumi, bulbi cipollosi e verdure selvatiche, formaggi, latte, carne di selvaggina che cacciavano con le frecce o con le trappole. Trangugiavano bevande fermentate e con il latte impastavano la polvere dei semi frantumati e pestati per formare focacce che poi cuocevano nelle ceneri calde. Si dedicavano alla pastorizia, allevavano animali e coltivavano campi per produrre farro e grano, per nutrirsi e commerciare. Dopo avere, per secoli, intagliato le frecce di ossidiana, scoprirono i primi metalli: il rame, il bronzo. Poi impararono a estrarre e a lavorare il ferro, sicché gli uomini si armarono di pugnali, di accette, di frecce, di lance.

    Le donne allevavano i figli, preparavano i pasti, filavano la lana, lavoravano pelli, modellavano suppellettili e vasellami e aiutavano nella costruzione delle capanne, mischiando a mani nude il fango, la paglia e l’argilla scura. Alcune fanciulle, avevano il compito di mantenere vivo il fuoco e lo alimentavano continuamente a turno con vegetali secchi, cera d’api e olio profumato che sprigionava essenze di bacche e semi; altre, imitavano i ritmi dei quattro elementi fondamentali che regolano la vita sulla terra, trasformandosi in danzatrici della natura. Gli abitanti delle capanne a forma cilindrica, ormai numerose e sparse sulle colline, cominciarono poco a poco, a vivere come una vera comunità. Si formavano i primi villaggi, aperti e non fortificati, nascevano i primi agglomerati di umani con l’intento di convivenza sociale.

    Sui colli della sinistra del Tevere, a circa 25 km, dal mare, esisteva verso il IX secolo a.C. un gruppo di villaggi di pastori e di agricoltori discesi dai Colli Albani e dalla Sabina.

    Questi si unirono in una arcaica lega sacra e sorse allora un nucleo molto primitivo, con una cinta protettiva a forma quadrata; e una serie di Re governarono su questo piccolo borgo.

    Il Tevere nei pressi di Villa Pitignano, dal nome del console romano, Pitinius – PG

    Il Tevere

    Fu così che quel fiume, nel gruppo sociale, veniva riconosciuto, con il termine che definiva l’acqua e lo identificava: A o Ahl od anche Alhl, secondo le intonazioni dei migranti, assimilato da quei primitivi nomadi nell’entità suprema Allāh, oppure semplicemente nella componente Al, fonema che comunica sete, gola riarsa, voglia di acqua, tanto è vero che molte città primordiali, antiche o borghi, che sorgono nelle vicinanze di un fiume, di un lago, di un’oasi o del mare o come luogo di osservazione dell’elemento acqueo, hanno la radice del nome specifico del posto che inizia con A come Adria oppure con Al, così come insegna l’etimologia, indicatrice di nomadismo, come Albano, Alba, Alassio, Albenga, Alatri, Almería in Andalucia, Alençon in Normandia, Alušta in Crimea, Aleppo nella valle dell’Oronte, il fiume ribelle, Alleppey nel Kerala e tante altre città arcaiche nazionali, internazionali ed intercontinentali edificate accanto all’acqua o in vista dell’azzurro liquido; per la limpidezza del suo fluire venne anche nominato Albula, acqua pura, cristallina, non ancora fulva, fangosa, bionda, come è contrariamente oggi l’acqua del biondo Tevere; i fonemi Al bula lo identificavano come ciò che dà vita eppure, il nome si suppone sia nato per onomatopea dall’ascolto dello scorrere e dell’infrangersi delle acque sulle rocce e i sassi, quell’acqua creava per quegli abitanti rumore e non a caso il nome scelto dagli indigeni del posto per definire il Tevere fu Rumon, secondo l’idioma mimesico onomatopeico etrusco.

    Il Tevere tra le colline umbre

    Marco Terenzio Varrone, scrittore e militare romano, nato a Rieti, capitale della regione Sabina, nel 116 avanti Cristo, deceduto a Roma nel 27 a.C., fa derivare il nome moderno di Tevere dal regolo dei Veienti, Thebris, il Thybris degli etruschi, altri ancora da Tiberino, re degli Albani, che sarebbe perito nelle acque del fiume; Tiberis lo definiva la gente latina, Tevere il popolo di Roma. Le leggende e le storie che riguardano il Tevere presentano comunque dei riferimenti alla magia. Nel fiume venivano gettate le vittime sacrificali, rappresentate dapprima da esseri umani, e poi da simulacri, antropomorfi ed animali, riprodotti in vario modo. Queste immolazioni alla divinità furono effettuate anche in tempi relativamente recenti e non solo all’epoca dell’Impero Romano, così come esigeva la devotio per ingraziarsi gli Dei. Da sempre l’uomo ha vagliato con attenzione gli spazi di cui disponeva, prima di impiantarvi le proprie strutture residenziali, religiose, politiche, col fine di avere a disposizione tutte le condizioni ottimali per poter garantire uno sviluppo fiorente del proprio nucleo urbano e del proprio pensiero. L’origine dei territori disposti ai margini del fiume, infatti, è stata caratterizzata da un ritardo, in corrispondenza dell’area di sinistra, nel processo di costruzione di villaggi di lunga durata, o di veri e propri centri protourbani che si erano, invece, introdotti con largo anticipo nella destra riva etrusca. Gli etruschi chiamarono quel corso d’acqua e la terra da questo bagnata, Rumon. La natura sapeva suggerire i vocaboli all’uomo antico che ascoltava il rumore dello scorrere dell’acqua. Attraverso l’udito, il tatto, l’olfatto, la vista, il gusto, la percezione termica, il dolore o il piacere, ha composto il suono che potesse indicare l’intima essenza dell’oggetto, che sarà riconosciuto come tale dall’intero gruppo sociale di appartenenza. L’uomo antico sapeva percepire, secondo la propria sensibilità emotiva, ciò che gli stava intorno e ogni etnia definiva in modo diverso la natura e le cose. L’introiezione figurata dell’elemento, tramite la mimesica, ha guidato l’umanità nella sua evoluzione. Pensate all’intuizione geniale dello stile degli antichi capitelli; con l’osservazione sistematica delle stratiforme pareti rupestri in Mesopotamia è sorto lo stile dorico mentre osservando le onde del mare è stato ideato lo stile ionico, quello corinzio apprezzando le foglie dell’àcanto, così come nel Medioevo si assiste all’interpretazione architettonica ispirata dalla natura per le merlature delle fortezze, delle roccaforti o dei castelli, così come le code delle rondini nell’alternanza di settori murari pieni e vuoti a protezione discreta da chi dall’alto scrutava, per le merlature ghibelline a coda di rondine, anche dette imperiali, e per le merlature guelfe o papali a forma di are votive primordiali.

    Si ricordi il passo ne I Sepolcri di Ugo Foscolo del ghibellin fuggiasco, riferito a Dante Alighieri, allontanato dal papa, dalla sua Firenze, nonostante lui fosse un guelfo bianco, che si opponeva criticando le tendenze egemoniche di papa Bonifacio VIII. I guelfi erano divisi tra bianchi e neri.

    Le vere differenze che si possono individuare tra le zone di cistiberim e transtiberim, in questa prima fase evolutiva, sono determinate sostanzialmente dalla maniera di sfruttare le risorse territoriali, diversa da una sponda all’altra.

    Mentre sulla sponda destra, a transtiberim, si praticavano già l’agricoltura e la lavorazione dei metalli, sulla sinistra, a cistiberim, l’economia si basava prevalentemente sulla pastorizia e sulla transumanza; il buon esito delle attività si esternava nel ringraziamento quotidiano agli Dei, protettori dell’equilibrio economico, essenziale per la vita sociale dei primordi.

    Dal VI sec. a.C. il fiume non costituì più una linea di divisione tra due realtà opposte, bensì un punto di congiunzione di aree territoriali in pieno sviluppo demografico e urbanistico. Anche la zona sabino-latina, infatti, da questo momento in poi riprese la sua crescita, forse in relazione ai cambiamenti istituzionali romani, come ad esempio le riforme serviane applicate all’ager, che hanno dato vita alla formazione di un’ampia fascia di insediamento di piccoli proprietari terrieri. L’età repubblicana portò un importante cambiamento introducendo quel fenomeno di romanizzazione, che uniformò le due rive in un unico ambiente rurale dalle caratteristiche simili e che perdurò anche in età imperiale.

    Durante l’età medio repubblicana il suburbio romano si popolò di nuove strutture residenziali, per la maggior parte nate dalla trasformazione delle precedenti fattorie in edifici di cementizio romano, più complessi ed aristocratici, che si avvalevano dello sviluppo di tecniche edilizie innovative, basate sull’uso del calcestruzzo mescolato insieme alla malta con pietra e sassi, alla rinfusa, e messo in opera dando luogo all’opus incertum, ma se il paramento era realizzato con cubetti di porfido, dalla forma approssimativamente tronco-conica, e questi venivano posizionati in forma rombica, ciò assumeva il nome di opus testaceum o opus latericium se era realizzato con mattoni. Se questi mattoni erano tagliati a metà lungo la diagonale e di forma triangolare ed erano inseriti in modo che lo spigolo uscisse dal muro, l’opera era detta opus mixtum o opus listatum; se il paramento si componeva di più tecniche diverse, si aveva l’opus vittatum.

    Con l’uso di manovali del sud del mondo, la messa in opera delle pietre venne nominata opus africanum o opus craticium, ma sempre di opus incertum si trattava, il quale non possedeva la precisione dell’opus reticulatum e la meticolosa geometricità dell’opus spicatum e alle perfezioni murarie dell’opus quadratum, tecnica usata prevalentemente dai Greci per l’architettura monumentale o il pregio ornamentale dell’opus sectile, precursore ed ispiratore delle opere della famiglia dei Cosmati.

    L’opus caementicium, venne usato inizialmente verso la fine del III secolo a.C., diffondendosi progressivamente in tutto l’impero romano.

    Mentre per le prime due tecniche si sarebbe provveduto ad una copertura con lastroni di marmo travertino o di Carrara, come è nella foto qui sotto, relativa alla "Situazione architettonica nel Foro Olitorio, per le restanti si sarebbe parlato di tecniche edilizie a vista" per la messa in opera dei mattoni e la policromia dei marmi o degli alternanti colori sorprendenti del tufo o del grigio rinascimento del peperino.

    Situazione architettonica nel Foro Olitorio: mercato degli ortaggi (da Olus, verdura) alle falde del Campidoglio

    I Romani furono molto attenti alla realizzazione delle murature, sperimentando diverse tecniche che utilizzarono in maniera molto artistica. Varie comunque sono state le tipologie murarie realizzate in epoca romana, per la molteplicità dei procedimenti costruttivi che li hanno interessati, consentono di valutare appieno l’evoluzione tecnica e la razionalizzazione esecutiva dell’edilizia romana. Infatti, attraverso la lettura dei procedimenti costruttivi, adottati per la realizzazione delle opere murarie, è possibile valutare come i Romani si siano orientati verso la massima efficienza produttiva anche in ragione della vastità di interventi che hanno caratterizzato la storia dell’antica Roma, sia nell’ambito della Capitale che nei territori delle province. Le tipologie murarie usate in epoca romana prendevano il nome dal materiale e dal sistema di posizionamento delle pietre oltre che dalla manovalanza. Tra le prime forme murarie, nonostante fosse una tecnica greca, vi fu l’opus quadratum, a struttura omogenea, cioè realizzate interamente in pietra. Le murature romane costruite prima del III secolo a.C. erano tutte in pietra. A cistiberim, sulla riva sinistra del Tevere, al di qua del fiume, si è venuti a conoscenza di un sito di età musteriana, ovvero di quell’età in cui si utilizzavano arnesi in selce, rinvenuti nel Casale della Perna nella riserva naturale di Decima-Malafede.

    Al di qua o al di là dipende dall’osservazione che si fa rispetto allo scorrere del Fiume Sacro, verso il mare nostrum. Il Foro di Roma è al di qua del Tevere, è a cistiberim, sulla riva sinistra. L’area del Campidoglio era considerata sacra anche perché, proprio sul colle, gli antichi eressero diversi templi dedicati alle massime sacralità onorate, ed il più eccelso era il Tempio di Giove o meglio, della Triade Capitolina: Giove Ottimo Massimo, Giunone e Minerva, oltre all’antico Tempio di Saturno ancora prima della sua nuova edificazione nel Foro, il Tempio di Fides ovvero, il tempio degli accordi, della fidelizzazione, nel quale si conservavano i trattati tra gli stati oltre ad essere considerato l’archivio del diritto pubblico e della fede nell’operato dei saggi, il Tempio della Concordia, il Tempio di Giunone Ammonitrice, situato sull’Arx, l’attuale posto dell’Aracoeli, il Tempio della Giustizia, il Tempio della Prosperità, il Tempio di Veiove nell’incavo Asylum ovverosia, l’attuale piazza del Campidoglio, e il Tempio di Marte ultore, il dio vendicatore, voluto da Augusto. Marte è il simbolo dell’uomo di guerra e il più antico e principale dio delle città italiane.

    Nel 78 a.C. venne completato il Tabularium, l’archivio dei documenti di chi era cittadino dell’Urbs; edificio che copriva il fianco del colle sul lato del sottostante Foro romano.

    I lavori al Campidoglio si protrassero fino al 69 a.C..

    Risiedere a cis Tiberim, al di qua del Tevere, era considerato un vivere tra i vivi. Alcuni villaggi, da principio mutevoli per le naturali trasmigrazioni dovute alle intemperie e alle esondazioni del fiume, si fusero con altri costituendo entità più complesse, progredite e ispirate a profonda religiosità. Così i nativi arrivarono alla fondazione di una città. All’inizio non era altro che un arroccamento abitativo di capanne circolari, fornito di mura e di porte sulle rive del fiume in prossimità della foce, come era già avvenuto in altri insediamenti della penisola italica.

    Capanna italica protostorica abitata da coloni dell’ager Latium Vetus

    A nord e a sud di quel corso d’acqua, le diverse genti autoctone, gli aborigeni figli della terra, rudi creature scaturite per sortilegio da querce e da lecci, dalla congiunzione fra la terra e il cielo o provenienti da lidi lontani, si mischiavano tra loro o si alternavano, falcidiate dalle carestie e dalle pestilenze.

    Il loro idioma era una commistione di lingue, dall’etrusco con predominanza del latino a sfumature ed intonazioni di idiomi arabi e greci. I loro canti erano eseguiti con suoni gutturali, barbariche erano le danze ritmate da strumenti a percussione in un clima sacrale. Rievoco, aiutato dalla fantasia, basata sulle letture degli storici antichi, dai suggerimenti dei due fondatori del gruppo storico Cvltvs Deorvm di Ostia Antica, e dall’ispirazione d’amore che mi lega a Roma, quel giorno della fondazione, quello in cui i pastori celebravano le antiche feste palilie in onore della dea Pale a cui chiedevano di proteggere le nuove greggi fecondate, che avrebbero dato pecunia (lat.: Pecus, pecoris), ricchezza e prosperità al nucleo sociale.

    Di questa realtà propria a partire dal X secolo fino all’VIII a.C., si avrebbe addirittura memoria nella lista pliniana dei populi Albenses, ovvero i trenta gruppi protostorici dell’ethnos latino che celebravano un sacrificio comune sul Monte Albano.

    Nella lista però, non vi sono nomi di città, ma solo di comunità con rituali indoeuropei come l’oscuro rito dell’Equus October, che si compiva ogni anno, nelle idi di ottobre, con la corsa delle bighe ed il sacrificio del cavallo più valoroso, il cavallo di destra del trio vincente, che veniva ucciso in modo repentino tramite un colpo fulminante di lancia scoccata dal Flamine martiale nel Campvs Martivs, la piazza d’armi degli antichi Romani, dove dopo le orazioni funebri, i senatori portavano il cavallo ucciso sulle loro spalle fino al centro del Campo Marzio dove, su un apposito altare, veniva cremato.

    Corsa con le bighe nel rito dell’Equus October

    Nelle due planimetrie che seguono e che riguardano la parte sinistra del fiume Tevere ovvero, cistiberim, sono raffigurati la zona di Campo Marzio, centrale e meridionale, e si riescono ad individuare i luoghi precisi degli eventi e dei templi agli imperatori e alle divinità protettrici:

    Nella planimetria qui riportata e in quella seguente, si identificano: l’area del Teatro di Pompeo dove la congiura senatoria uccise Giulio Caesare e i Templi di Largo Argentina, eretti nell’area sacra in cui vennero costruiti per il culto degli dei ancestrali: Giuturna, Fortuna, Feronia e i Lari Permarini

    I Templi, identificati da lettere dell’alfabeto dagli archeologi, risalgono al IV e al III secolo a.C., e si ritiene fossero dedicati alla ninfa Giuturna iltempio A, alla Fortuna il tempio B ed alla dea Feronia il tempio C, dea della fertilità, protettrice dei boschi e delle messi; anche il tempio D fu dedicato a divinità della religione arcaica di Roma: i Lares Permarini, protettori della navigazione.

    I Lares erano divinità che proteggevano le persone, la casa e le attività; ogni famiglia aveva i suoi Lares che rappresentavano le anime dei familiari defunti ed in ogni domus vi era un larario, una nicchia altarino, dove si ricordavano, si adoravano e si celebrava il culto dei propri Lari.

    Ma vi era anche un culto pubblico dei Lari, quando queste divinità erano invocate per proteggere alcuni luoghi o delle attività come i Lares Compitales che proteggevano gli incroci, i Lares Praestites che proteggevano i confini tra i territori abitati e le terre selvagge ed i Lares Permarini a cui era affidata la protezione delle navi lungo le rotte di navigazione. Il compito dei Lares Permarini era quello di proteggere gli equipaggi romani quando erano lontani da Roma e le loro effigi o piccole statue, solitamente di terracotta, erano poste in un lariario sulla prora delle navi.

    Il culto dei Lares Permarini appare come una interpretazione romana, voluta da Marco Emilio Lepido su voto e promessa agli dei Lari protettori, fatta undici anni prima da Lucio Emilio Regillo nella battaglia navale vinta, per grazia dei Lari, contro il generale del Re Antioco. Questo culto era già praticato dai Fenici che li chiamavano Pataicos e mettevano le loro raffigurazioni in forma di simulacri sulle prore delle navi, nella parte anteriore.

    La poppa della nave è la parte posteriore. Quando all’inizio del II secolo a.C. Roma entrò in contatto con la cultura e la civiltà ellenica attraverso le città della Magna Grecia, in primis Siracusa, l’influenza greca cominciò ad essere palese nella cultura romana e per sincretismo Nettuno, Càstore e Pollùce, Anfitrite ed i Tritoni vennero considerati Lares Permarini.

    Anche Tito Livio ricorda i Lares Permarini: Suspendit Lares marinis, molles pilas, reticula, strophia.

    Nella planimetria del Campo Marzio meridionale, che segue, si notano Templi, Teatri ed Anfiteatri oltre a Domus fondamentali e prestigiose per la vita politica e sociale della gente del potere.

    Nella planimetria qui sopra riportata, si identificano: l’area dello Stadio Domiziano, nel sottosuolo di Piazza Navona, oltre ai Templi, le Terme, i Teatri, i Portici e le Are votive indicate. La specifica dei Templi di Largo Argentina è demandata alla planimetria precedente

    Area Sacra di Sant’Omobono e Mater Matuta

    La fase paleo-arcaica addirittura, viene superata tra la fine del IX e la metà dell’VIII secolo a.C. quando, intorno al 750 a.C., si verifica un evento importantissimo, descritto da alcuni studiosi come un vero e proprio improvviso progresso culturale: creare sull’Esquilino una grande necropoli unitaria dove recarsi nel ricordo degli antenati, per abbandonare definitivamente le molteplici singole precedenti sepolture accanto alle abitazioni; a questa seguirà l’area sacra di Sant’Omobono, luogo in cui già nel VII secolo a.C. era sacra quest’area, poiché qui si trovava il tempio più antico di Roma, il santuario dedicato alla Mater Matuta, la madre della mattina, dell’alba, la madre matutina.

    Ciò che resta del Tempio della dea Mater Matuta nell’area sacra di Sant’Omobono

    Restando comunque il divario tra la protostoria e la piena età romana, almeno nei termini di una soddisfacente ricostruzione storica su base archeologica e non soltanto letteraria, così come ci riporta Strabone in "Geografia" del 7 a.C., nel V libro e nel 4° passaggio del II capitolo, c’è da dire che se con dubbia datazione, di costruzioni in forma cilindrica, quadrata o poligonale, queste sono riferibili a impianti di modeste dimensioni, agglomerati di probabili fattorie, masserie o ville rustiche, distribuite nell’ager del Latium Vetus, con l’esistenza di un luogo di culto dedicato non più all’immolazione di grossi animali come il cavallo ma verosimilmente all’adorazione ed al rispetto dell’arcaica Mater Matuta del VII sec. a.C., protettrice delle nascite annuali, connesso ad una fonte sorgiva o a piccoli affluenti del fiume principale, mentre nella zona in piano le necropoli indicano la persistenza nell’area di popoli non più nomadi.

    L’influenza etrusca nel VII sec. a.C. è al massimo della sua forza culturale e dello sviluppo economico dell’agglomerato abitativo.

    È in questo periodo che le capanne avranno le fondamenta in pietra e si useranno sul tetto le antefisse multicolori che rappresentano esseri della mitologia etrusca, che allontanano il male, a protezione del gruppo sociale che sta sotto quel tetto.

    La Mater Matuta era una divinità ancestrale, arcaica, associata alla dea Leucothea, figlia di Cadmo e di Armonia e moglie del re tebano Atamante. Omero così la racconta nell’Odissea, V, 333: «Lo scorse allora la figlia di Cadmo, Ino dalle belle caviglie, Leucothea, che era mortale un tempo, con voce umana e ora tra i gorghi del mare ha in sorte onori divini.»

    La divinità ancestrale ricorda usanze preistoriche matriarcali praticate tra i primi coloni dell’area a sinistra del fiume Tevere, a cistiberim, appunto! Matuta fu la radice di molte città arcaiche, si ricordi una per tutte: Matera, la città dei sassi. Questa specifica divinità racchiudeva in sé la sacralità matutina, quale origine della luce, e la sacralità di Bona Dea ovvero, nutrice benefica e protettrice delle 12 nascite, nel concetto di ripartizione nei 12 mesi, e della vita. Alla Mater Matuta venne dedicata una Porta nell’Urbs Quadrata, di Romolo. In Grecia, la religione cretese racconta della Dea Madre che, non trovando ospitalità per il suo popolo in nessuna terra, decise di creare l’isola di Creta e qui fece stabilire tutti coloro che la veneravano.

    Scultura in tufo grigio di epoca etrusca. Si notino le dodici figliolanze

    "Così

    a un’ora fissa

    Matuta soffonde con la rosea luce dell’aurora

    le rive dell’etere

    e spande la luce…

    È fama

    che dalle alte vette dell’Ida

    si assista a questi fuochi sparsi

    quando sorge la luce,

    poi,

    al loro riunirsi come in un unico globo

    formando il disco del sole e della luna

    s’en vanno."

    (Titus Lucretius Carus, Pompei/Ercolano, 94 a.C. – Roma, 50 a.C. – De rerum natura)

    Osservazioni e riflessioni archeologiche

    Il tufo e le selci scolpite in sembianze femminili e in animali risalgono ad un’epoca antichissima; potrebbero risalire a circa 500.000 anni fa. Di 100.000 anni fa è l’usanza di porre pietre, qualche volta triangolari, sulle sepolture e si intagliano coppelle nella pietra, spesso riproducenti il cielo stellato. Quarantamila anni prima della nostra epoca l’uomo primitivo avverte l’esigenza di lasciare un suo segno, e nasce l’arte rupestre: graffiti, pitture, impronte, ed intagli nella roccia.

    Statuette dove il volto della donna era, generalmente, abbozzato per lasciare spazio all’evidenza del seno e del ventre. Ventre rigonfio a testimonianza della funzione materna della donna.

    La Dea del Paleolitico e del Neolitico è partenogenetica ovvero in lei avviene la riproduzione verginale, crea la vita da se stessa.

    È la primigènia Dea Vergine, sopravvissuta in numerose forme culturali sino ad oggi ed abusata da alcune religioni.

    Dalle testimonianze giunte sino a noi appare chiaro che la capacità della donna di generare la vita e nutrire i bambini, per mezzo del corpo, fosse ritenuta sacra e venerata come metafora della creazione divina. Le statuette raffiguranti le prime veneri hanno dimensioni disparate, e contenute: dai quattro ai venti centimetri.

    I materiali più usati sono la steatite, la calcite, il tufo rupestre. "È nella pietra tutta la sostanza della materia", come ricordava Mircea Eliade, storico delle religioni, antropologo, scrittore rumeno deceduto nel 1986. La pietra rimane sempre se stessa e perdura nel tempo. Esisteva prima di noi, ci accompagna lungo il cammino e ci sarà dopo di noi. Nella coscienza religiosa degli antichi abitanti questo concetto era contemplato.

    La pietra rimane se stessa nel tempo. L’uomo primitivo prima di utilizzarla la colpiva, poiché lo sguardo anticipava il corpo.

    La pietra non è umana: l’uomo nell’incontro con la roccia si avvicina ad una realtà diversa, un mondo distaccato dal proprio. La pietra, il monolite, rappresenta il divino.

    L’uomo non adorava la pietra perché tale, ma come riconoscimento della manifestazione divina.

    Gli archeologi, nelle varie epoche, hanno riportato alla luce varie rappresentazioni di dee, così come la dea Mater Matuta.

    La più antica, per il momento, risulta essere la dea o venere di Tan-Tan, dal luogo in Marocco dove è stata scoperta durante uno scavo. La statuetta è alta circa sei centimetri e datata in un intervallo di tempo che va dai 500.000 ai 300.000 anni a.C. ed in origine era ricoperta d’ocra rossa. L’archeologo che la trovò ritiene che abbia naturalmente posseduto una forma simile a quella umana, accentuata da una lavorazione con un cuneo di pietra.

    Si ritiene sia contemporanea della dea di Berekhat Ram, rinvenuta sulle alture del Golan, Israele, nel 1981.

    La rappresentazione della donna, in tufo rosso, è lunga trentacinque centimetri e presenta tre incisioni sulla superficie, che marcano il collo e le braccia. La datazione è di circa 230.000 anni fa. Questa realizzazione apparterrebbe all’homo erectus e non alla nostra specie. Insieme alla venere di Tan-Tan rappresenta il più antico esempio d’arte preistorica. Con l’apparizione della dea di Hohle Fels, dal luogo in Germania dove è stata rinvenuta, i dubbi svaniscono completamente. Si tratta di una statuina paleolitica datata, al radiocarbonio, in un periodo di tempo tra i 31.000 e i 40.000 anni prima di noi. È associata alle prime presenze dell’homo sapiens, cultura di Cro-Magnon, in Europa, così come la scoperta del cranio dell’uomo di Neanderthal rinvenuto nella grotta Guattari di Monte Circeo ed esposto nella duecentesca torre dei Templari di San Felice al Circeo che ospita un’esposizione permanente di reperti

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