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Il Gran Moghul
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E-book459 pagine5 ore

Il Gran Moghul

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Info su questo ebook

La storia del grande amore tra lo Shah Jahan, il “Re del mondo” a cui si deve la costruzione del Taj Mahal (il Mausoleo di Agra, nell’India settentrionale) e la sua adorata sposa, la bellissima Mumtaz Mahal. In un mirabile affresco, che spazia tra il ‘600 e la seconda metà del secolo scorso, si inserisce il mistero del più grande diamante mai rinvenuto tra le viscere della terra: il Gran Moghul. Della sua esistenza troviamo traccia nei diari dei viaggiatori che ebbero il privilegio di essere ospiti alla corte dell’Imperatore Moghul, ma la successiva scomparsa resta un mistero per tutti. E’ il primo di una serie di romanzi di Alex Decorner, nuova e promettente penna della narrativa d’avventura e di viaggio. Con grande abilità e fantasia l’autore ricostruisce il destino del diamante attraverso i secoli, intrecciandolo con le storie di coraggio, fedeltà e amicizia che coinvolgono i personaggi del libro.
LinguaItaliano
Data di uscita18 nov 2015
ISBN9788898795260
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    Anteprima del libro

    Il Gran Moghul - Alex Decorner

    matrimonio

    1.

    Monti dell’Afghanistan

    Anno, 1602.

    Il bambino cavalcava accanto al nonno con il braccio proteso e sotto sforzo.

    Doveva sostenere la giovane aquila bendata che dondolava leggermente per il movimento cadenzato del cavallino mongolo. L’animale, seppur non altissimo, dimostrava una forza e una resistenza incredibile mentre si inerpicava su un arida e brulla montagna a fianco del cavallo più alto, e apparentemente più robusto, montato dal vecchio. Animali di due razze differenti ma con la stessa lucentezza del pelo, curato con amore dai due cavalieri, diversi per età ma così somiglianti tra loro.

    Gli altopiani afghani erano perlopiù aridi e pietrosi e solo garretti molto robusti e zoccoli durissimi riuscivano a percorrerne i sentieri senza azzoppare le cavalcature, ma il vecchio e il bambino procedevano sicuri e spediti come se si trovassero su un pascolo in pianura.

    «Nonno, il braccio mi fa un po’ male, posso spostare Mirciak dall’altra parte?»

    «Ragazzo, potresti anche farlo ma rifletti: sul braccio sinistro non hai protezioni, la tua giovane aquila ti pianterebbe gli artigli nella carne a ogni oscillazione. Devi resistere, siamo quasi arrivati, sei stato forte fino ad ora e io sono orgoglioso di te».

    Il bambino si rincuorò a quelle parole e s’inorgoglì del commento del nonno: era una vera rarità ricevere un complimento da quell’uomo, di solito così serio e severo da essere rispettato e temuto da tutti.

    Era antica tradizione dei Mongoli afghani allevare le aquile per la caccia. A ogni ragazzo di famiglia nobile veniva affidato un aquilotto appena svezzato, rubato, con una incredibile prova di coraggio, dai nidi collocati sui picchi impervi delle montagne, per poi essere cresciuto e addestrato così come in Europa si faceva con i falchi. Ma le aquile afghane erano ben più grandi dei falchi europei e le loro prede non erano fagiani o lepri, ma volpi, giovani lupi e altri animali di media taglia.

    Mirciak, la giovane predatrice che con un cappuccetto sugli occhi si dondolava su quel robusto braccino, non aveva raggiunto ancora lo sviluppo della maturità e quella sarebbe stata per lei la prova della sua abilità e della sua indole. Sarebbe stata liberata in cima a quella montagna che digradava, sull’altro versante, in una serie di pianori erbosi, che scendevano in una delle poche vallate fertili di quella zona.

    Fertilità significava pascolo, cespugli, boschetti e quindi selvaggina, prede e predatori: la palestra ideale per un rapace vissuto sempre tra gli uomini, che doveva trovare dentro di sè l’istinto del cacciatore selvaggio, senza che nessuno gli insegnasse il come e il perché.

    I Nobili mongoli, che al seguito di Gengis Khan si erano insediati, secoli prima, in quella zona così appartata dal resto del mondo, usavano la scusa dell’addestramento delle aquile per crescere i loro figli abituandoli alla vita dura e severa di quelle montagne inospitali. Lassù venivano conservate le abitudini e le tradizioni dei loro avi, che avevano colonizzato le steppe più desolate per poi spingersi alla conquista di tutto l’Oriente e di parte dell’Occidente, con una forza di volontà e una tenacia maturate dal loro modo di vivere spartano e frugale, del tutto privo di comodità e agi. Tempravano i loro figli e i loro nipoti con un sistema di vita severo e semplice allo stesso tempo e quei bambini cresciuti in mezzo a una natura ostile diventavano, poi, uomini, guerrieri o condottieri coraggiosi.

    Il vecchio si girò ancora a guardare quel nipote che così tanto gli piaceva. Cavalcava sul suo cavallino con un’aria fiera e soddisfatta anche se, ogni tanto, una improvvisa piega delle labbra denunciava una fitta di dolore al braccio, dove si teneva ben ancorato l’aquilotto già grosso e pesante da sostenere. Anche il bambino però era piuttosto robusto e presto sarebbe stato un bell’adolescente: capelli neri ondulati e occhi scuri, accesi come carboni ardenti, promettevano di farne un uomo attraente, cosa che non avrebbe guastato se le cose si fossero messe come sperava il vecchio.

    «Khurram, ancora una curva del sentiero e poi saremo sul pianoro più alto della montagna. Vedrai allora davanti a te un mondo fantastico fatto di verde, di alberi e di animali, così scopriremo se hai addestrato bene il tuo rapace, nel modo che ti ho insegnato».

    «Sono certo che la mia Mirciak sia l’aquila più forte di tutto l’Afghanistan, nonno, vedrai che non sbaglierà e che, alla sua prima caccia, ci porterà una bella preda».

    Nonno Akbar sorrise tra sè per quel piccolo sfogo di arroganza infantile che però denotava carattere, visto che il bel bambino era sempre estremamente educato in sua presenza.

    L’educazione formale e severa impartita al piccolo Khurram era stata imposta sia dal padre che dal nonno fin dai primissimi anni di vita ad Agra, dov’era nato, e poi su quelle terribili montagne afghane. Lassù doveva temprare il fisico dopo aver saziato la mente con gli insegnamenti forniti da maestri molto preparati e colti, che erano stati obbligati a trasferirsi lì — a condividere la vita spartana di quegli allievi e dei loro accompagnatori — per preparare la formazione della futura generazione di responsabili imperiali. Ovviamente quegli insegnanti erano tenuti in grande considerazione e anche ben retribuiti. In ogni caso non avrebbero certo voluto disattendere una richiesta del loro Imperatore.

    Nonno e nipote erano ormai arrivati in cima alla salita e il primo non perdeva d’occhio le espressioni del secondo. Com’erano sbucati sul pianoro e s’erano affacciati sulla valle sottostante, il piccolo aveva sgranato gli occhi per lo stupore, ma la maturità acquisita grazie all’attenta osservazione del comportamento dei grandi, gli aveva imposto un atteggiamento di moderata sorpresa, quasi volesse rifuggire dalle reazioni tipiche dei bambini. Anche l’aquila, seppur ancora bendata, aveva avuto un fremito avvertendo il cambiamento del mondo avanti a sè. In effetti, ciò che si presentava era uno straordinario spettacolo della natura, notevole soprattutto perché inaspettato dopo tante rocce aride e sentieri pietrosi, bruciati e spaccati dal feroce sole estivo e dal gelo invernale.

    Sotto la rupe sulla quale erano sbucati, la montagna brillava di un verde acceso, che sfumava verso valle colorandosi di macchie di fiori e cespugli di bacche rosse e gialle, come armoniche pennellate di un bel dipinto. In quell’aria tersa, ogni minimo movimento saltava all’occhio e persino il vecchio notò, molto più in basso, il cauto passaggio di una giovane volpe in caccia di qualche animale più piccolo, di cui seguiva la pista.

    Khurram, che aveva occhi acutissimi, si girò a guardare il nonno: «L’hai vista anche tu vero? Pensi che possa essere una giusta preda per la mia aquila?»

    Nonno Akbar fece una faccia pensierosa prima di rispondere: «Non saprei figliolo, ora sei tu il cacciatore, devi prendere tu la decisione: io ti ho insegnato tutto, ora fai quello che devi fare, quello che ti suggerisce la ragione».

    Allora il bambino tolse il cappuccetto di pelle dagli occhi del rapace, che per un attimo restò abbagliato e si protese con le seconde palpebre per poi aguzzare la vista, per avere conoscenza e padronanza dell’ambiente che lo circondava, a lui del tutto estraneo. Quindi il piccolo sciolse il laccio che teneva il grande uccello ancorato al braccio e con un ultimo faticoso sforzo lo alzò verso il cielo, mentre con voce decisa gli intimava: «Vai Mirciak! Vai a prendere la volpe laggiù!»

    L’aquila assecondò il movimento verso l’alto aprendo le grandi ali, per poi sbatterle velocemente spiccando il volo. In una splendida immagine di grazia e libertà il magnifico uccello cominciò a salire, per poi inanellare dei cerchi concentrici sopra la vallata, controllando i vari movimenti e individuando, di sicuro, anche la volpe. Poi, come rispondendo agli ordini ricevuti, l’aquila si lanciò decisa verso il rosso mammifero, che perseguiva il proprio obiettivo ignaro del pericolo che stava arrivando dall’alto.

    Il bambino diede di gomito al nonno: «Guarda, è splendida, ha capito tutto! Vedrai che adesso la cattura e la porta qui».

    Anche il vecchio era meravigliato per quell’azione così decisa, piuttosto inconsueta per un aquilotto giovane e del tutto inesperto.

    La giovane aquila, lanciata come una freccia, invece di piombare sulla volpe andò a fermarglisi davanti, in mezzo al prato, a una decina di metri, bloccandone l’avanzata e mettendola in fuga verso un boschetto vicino. Il rapace era indeciso sul da farsi, combattuto tra l’istinto primordiale e la sua vita quotidiana che non prevedeva simili situazioni.

    Il bambino, lassù in alto, deluso e avvilito, fischiò per richiamare l’aquila vicino a sè, e come magra soddisfazione vide il volatile tornare verso di loro. Khurran era rosso per la vergogna, perché si era fatto l’errata convinzione che tutto sarebbe andato per il meglio al primo tentativo.

    Il nonno lo rassicurò: «Non devi vergognarti. Vedrai che la seconda volta andrà meglio. E’ successo anche a me e a tuo padre, devi insistere e non abbatterti mai: ciò che non riesce la prima volta, riuscirà alla seconda, oppure alla terza. Devi credere nelle tue possibilità e in quelle di Mirciak, abbiamo bisogno di imparare, specie dai nostri errori. Non disperarti e riprova!»

    La volpe, scampato il pericolo, era uscita dal boschetto e adesso più timidamente s’era rimessa in caccia. Khurram la vide subito, e anche l’aquila. Il bambino avvicinò la bocca agli orecchi del suo rapace e gli sussurrò qualcosa che il nonno non udì: Mirciak aprì le grandi ali e, maestosa, si sollevò nuovamente in alto. Questa volta l’animale salì più in alto per avere una visione periferica superiore così da dominare meglio il territorio. Il sole alto e brillante, l’aria fredda e tersa tra le piume, la valle piena di colori e di vita, fecero affluire nell’uccello gli atavici istinti della sua specie e all’improvviso sentì l’impulso irresistibile di scaraventarsi giù dal cielo per ghermire la sua preda naturale. Natura e istinto avevano lavorato bene: nonno e nipote si goderono lo spettacolo della cattura. Il bambino era raggiante e il vecchio lo guardò amorevolmente, mentre pensava alle tante cacce cui aveva partecipato.

    Quel vecchio dall’aria fiera era stato Gran Moghul, terzo Imperatore della sua dinastia, quello che, tra i propri predecessori, aveva di più allargato le conquiste fatte dai grandi guerrieri musulmani all’interno dell’India Centrale. Il suo nome, Akbar, era già leggenda: veniva ricordato con enorme stima da tutti i suoi amici e ricorreva negli incubi dei pochi nemici rimasti in vita. Era stato un comandante avveduto e amato dalla sua gente ed era stato un terribile avversario per tutti quei signorotti feudali che governavano con pugno di ferro e troppo egoismo i piccoli territori dell’India centro-meridionale, senza lasciare ai propri sudditi la possibilità di una vita dignitosa.

    I Moghul erano pur sempre degli invasori e anche portatori di un altro credo religioso, ma avevano avuto il merito di unificare un Paese immenso, imponendo un ordine fino ad allora sconosciuto, che generava un diffuso e discreto benessere nella popolazione, tanto da smussare le differenze etniche e culturali. L’impero dei Moghul era diventato leggendario in tutto il mondo, per le sue enormi dimensioni e le grandi ricchezze: i suoi Imperatori erano personaggi che popolavano le fantasie esotiche di tutti gli spiriti romantici europei.

    Musulmani convinti, i Moghul avevano introdotto la loro religione anche in quelle regioni dove la gente locale praticava la fede Induista e Giainista, creando non pochi conflitti interreligiosi, ma sia per il polso fermo dei dominatori musulmani, che per la moderazione degli Indù, alla fine le varie etnie avevano trovato il modo di convivere ognuna seguendo la propria fede. La pacifica convivenza determinò la prosperità della nazione e l’Imperatore Akbar il Grande, in punta di spada, conquistò e pacificò altre regioni per consolidare e proteggere i propri confini, stabilendo, infine, la propria capitale a Delhi.

    Anche se di cultura e fede islamica, l’Imperatore aveva sposato una bella donna di origine Indù e non si fece mai problemi del fatto che avesse altre credenze religiose. Akbar trasferì nella politica il suo modo illuminato di concepire la vita spirituale, scegliendo gli uomini al suo servizio in base alla loro capacità e fedeltà, e non per etnia e provenienza.

    Pur essendo analfabeta, Akbar dette un grande impulso all’architettura, alle arti e alla musica, aiutando e proteggendo gli artisti e istituendo centri di cultura dove educare le nuove classi dirigenti del Paese. Akbar il Grande, pronipote di Babur, che era stato il Primo Imperatore Moghul, discendente del mitico Gengis Khan, lasciò la successione a uno dei suoi figli. Non al primogenito, ma a quello che riteneva più capace di condurre il Paese a nuovi traguardi. Aveva scelto Jahangir, grande e coraggioso combattente, che si era insediato con decisione sul trono, mentre lui si era ritirato sulle montagne afghane per istruire quel suo nipote, che prometteva così bene.

    Il nuovo Moghul, Jahangir, aveva avuto il figlio Khurram dalla seconda moglie, una principessa di stirpe Rajput, la bellissima Iagat Gosini, che aveva dato al bambino, in eredità genetica, quei bei tratti somatici e quello sguardo acceso e magnetico.

    Era stato nonno Akbar, ormai fuori dai giochi politici ma con una prestigiosa presenza a Corte, a chiedere che a quel bellissimo bambino fosse dato il nome di Khurram che significa Gioioso, perché fin dai suoi primi giorni incantava tutti con il suo bel sorriso.

    Quando ebbe l’età giusta, il vecchio condottiero chiese e ottenne di portare il nipote con sè sui monti afghani, per temprarlo alle difficoltà e alla vita dura lontano dagli agi del Palazzo. Il piccolo Khurram, legatissimo al nonno, aveva accettato di buon grado.

    Nelle speranze del vecchio Akbar c’era il sogno che quel suo nipote potesse diventare, un giorno, anch’egli un Gran Moghul, grande e illuminato come e più di quanto lo fosse stato lui. Adesso, lassù su quelle montagne, con l’aquila che ritornava con la volpe tra gli artigli, il vecchio si sentiva felice per quel ragazzo, che nei suoi sogni e nella sua fantasia già vedeva come un personaggio che sarebbe rimasto nella memoria delle genti dell’India e dei Paesi vicini. I fatti e la storia gli avrebbero dato soddisfazione. Quel bambino sarebbe diventato il più grande Imperatore di quell’immenso Impero che era il Sub-continente Indiano. Colui il quale tutti, in seguito, avrebbero conosciuto come il Gran Moghul Shah Jahan.

    Quest’uomo speciale avrebbe lasciato dietro di sè monumenti straordinari per la loro maestosità e per il loro stile architettonico; avrebbe coltivato arte, cultura e artigianato ad altissimi livelli, chiamando a sè artisti di tutti i campi e tutti i paesi e avrebbe edificato, per la moglie perduta, il Mausoleo di Agra, quel monumento all’amore eterno che oggi tutti conosciamo come il Taji Mahal.

    2.

    Venezia

    Anno, 1965.

    Nicolò Mannucci si sentiva inquieto e irritato allo stesso tempo. La giovane età e l’atmosfera di quella sua città, bella ma così particolare, lo rendevano insofferente: si sentiva costretto a inventarsi qualcosa.

    Vivere a Venezia era un sogno per molti, ma per i veneziani non sempre era piacevole. D’estate la città era fin troppo frequentata da turisti maleducati e invadenti, mentre d’inverno s’immalinconiva in un clima umido e vagamente malsano, a causa di tutta quell’acqua che ti ritrovavi ovunque. Ma Venezia era Venezia, e a buon diritto si poteva considerare la città più straordinaria del mondo.

    Gli abitanti, un tempo orgogliosi di abitare in Laguna, ora tendevano a trasferirsi e a comprare case sulle terraferma dove di solito passavano l’inverno, ma i Mannucci mai avrebbero lasciato la loro amata abitazione: nell’arco delle generazioni — erano stati artigiani, artisti, orafi e medici — tutti avevano continuato a vivere nel palazzetto di famiglia vicino a Rialto.

    Nicolò era l’ultimo dei tre figli di Alvise Mannucci, medico generico.

    La vecchia casa risaliva alla metà del 1600 e nei secoli era cambiata ben poco, se non negli arredi. Nella sostanza la struttura era rimasta la stessa: tre piani con scala interna leggermente ripida e una mansarda, che sarebbe stato più giusto chiamare soffitta, dove venivano riposte tutte le cianfrusaglie di casa che nessuno aveva il coraggio di buttare via e che finivano lassù per essere dimenticate, mentre si riempivano di polvere.

    Nicolò era in casa ad annoiarsi durante la chiusura settimanale del suo negozio-laboratorio e, visto che era solo, decise di fare una ricognizione in soffitta, dove non metteva piede da quando era bambino e si rintanava lassù dopo aver combinato qualche guaio. In realtà era da tempo che il giovane Mannucci desiderava salire in solaio per una ricerca metodica di qualcosa di antico, dimenticato o nascosto in quel posto così particolare.

    Erano passati due anni da quando, nel suo piccolo laboratorio di oreficeria a Piazza S.Marco, un cliente anziano, con quella tipica aria colta da professore, gli aveva chiesto se fosse lui, Nicolò Mannucci, uno dei Mannucci che abitano nel palazzo di Canal Grande, vicino al Rialto, e alla sua risposta affermativa, aveva esclamato: «Sai che porti il nome del tuo famoso antenato, che partito da Venezia nel 1600, diventò medico e chirurgo e diplomatico della Serenissima, presso la corte dell’Imperatore Moghul? Del resto voi Mannucci siete stati sempre dei tipi un po’ speciali!»

    Poi in gioielleria erano entrati altri clienti, e il discorso era morto lì. Però il giovane aveva raccolto e memorizzato l’informazione.

    Ogni tanto in famiglia si parlava di antichi avi, di vecchi mestieri, di bisnonni famosi, di mitiche ricchezze perdute o forse mai esistite, ma sempre e comunque era stata tramandata una sensazione di un antico mistero legato ai Mannucci in un lontanissimo passato.

    Così quel giorno, l’assenza dei genitori in viaggio di piacere in Francia, unita alla pigra atmosfera veneziana di una stagione priva di turisti e alle parole di quel professore sconosciuto, avevano stimolato Nicolò a compiere una ricognizione. Trasformatosi mentalmente in un moderno esploratore, Nicolò, dopo aver aperto la vecchia e robusta porta con due giri di un’enorme chiave, era penetrato nel mondo irreale e polveroso di quella antica soffitta, illuminata dai raggi di luce autunnali, provenienti da due minuscole finestre rotonde, vetrate a piombo, che diffondevano un chiarore pieno di mistero e di aspettative. Le vecchie cerniere avevano protestato con un cigolio. Quand’era bambino quel rumore l’aveva sempre spaventato, eccitando la sua fertile fantasia, ma ora che aveva un’età diversa, poté solo pensare che sarebbe stato meglio ingrassare quelle cerniere prima che si saldassero del tutto tra di loro. Quindi si richiuse la porta alle spalle e si soffermò per adattarsi alla scarsa luce del grande locale ingombro di ogni cosa immaginabile. Genitori, nonni, bisnonni, avi e antenati vi avevano lasciato gli oggetti inutili e i ricordi della loro vita.

    Sarebbe stato un bell’esercizio di fantasia immaginare il motivo specifico per cui certe cose erano arrivate in casa e poi erano state declassate a giacere nel solaio. Studiando quei reperti era possibile capire come fossero cambiate le mode e le abitudini durante gli anni in cui la sua famiglia era vissuta lì.

    Tutte quelle cose polverose avrebbero fatto la gioia di qualsiasi rigattiere, pur in un periodo storico a vent’anni dalla fine di un guerra disastrosa e all’inizio di un grande boom economico, quando in tanti si sbarazzavano del vecchiume per arredare le loro case con mobili in stile svedese considerati il massimo del bello, del moderno e del confortevole. Basta con i rococò e i barocchi arzigogolati, basta con i legni scuri e pesanti dall’aria austera e triste. Gli italiani cercavano aria nuova e allegria nella vita e nelle loro case. Il triste passato andava buttato o relegato fuori dalla vista.

    I Mannucci si erano tenuti in casa alcuni bei mobili Liberty e Art-Decò mentre tutto il resto lo avevano fatto portare via, ad eccezione di una serie di mobiletti minori e di alcune suppellettili che erano state mandate in esilio nel sottotetto. Adesso erano lì, incombenti nella penombra, testimoni muti di quella visita del giovane rampollo di casa.

    Nicolò aveva meditato a lungo su quella ispezione estemporanea in quello che da piccolo considerava un mondo magico e misterioso, mentre adesso rappresentava solo un posto polveroso dove sporcarsi inutilmente. Ora, sebbene nel passato chiunque avesse fatto delle ricerche non avesse scoperto mai niente di interessante, l’accenno di quell’oscuro studioso aveva acceso il fuocherello della curiosità, alimentato dal carburante della fantasia, che era una componente caratteriale del giovane. Un’ispirazione gli aveva messo in testa che in quel solaio ci potesse essere qualche nascondiglio segreto in cui trovare qualcosa di valore. Nicolò non avrebbe saputo fornire una spiegazione razionale per questa sua speranza, o mezza convinzione, tanto che aveva atteso di essere solo in casa per avviare una ricerca con un certo metodo. Si sarebbe sentito un po’ ridicolo se avesse esposto il suo proposito ai genitori, gente poco propensa ai voli della fantasia, e ci sarebbe rimasto male se non avesse trovato niente, facendo una brutta figura, ad un’età in cui si presumeva che non si dedicasse alle cacce al tesoro. Qualcosa dentro di sè gli intimava però di togliersi quella voglia e quello sfizio, qualunque fosse stato il risultato finale, e ora aveva tutta la giornata a disposizione per il suo progetto. Vestito con dei vecchi jeans e una logora maglietta da tennis, non aveva timore di sporcarsi più del dovuto. S’era portato qualche straccio per spolverare e li utilizzò per ripulire una vecchia sedia impagliata, sulla quale sedette per lasciarsi permeare e coinvolgere dall’atmosfera particolare di quella stanza che parlava di altri tempi.

    Come sua abitudine quando doveva fare qualcosa di speciale, tentò di rilassarsi al massimo cercando di svuotare il cervello e di mettersi in sintonia con l’ambiente. Seduto nella penombra sentiva arrivare, ovattati, i rumori di chi navigava sul Canal Grande. I fischi soffocati dei vaporetti che sostavano alle fermate di Rialto, le colorite grida dei gondolieri, il brusìo indistinto della gente che transitava sulle rive, facevano da sottofondo musicale in un modo leggermente ipnotico. Nicolò aveva alzato tutte le antenne della propria sensibilità per perlustrare con la mente la grande mansarda suddivisa in sezioni dalle mura portanti interne che sostenevano il tetto ricoperto con i vecchi coppi e che avevano resistito agli ultimi duecento anni.

    Pensando alla possibilità di qualche nascondiglio mai scoperto fino ad allora, ritenne che qualsiasi oggetto di particolare valore non poteva essere stato lasciato banalmente in evidenza.

    Ragiona — si disse — se mai avessi dovuto nascondere qualcosa qui dentro, dove avresti potuto imboscarlo? In un mobile? Troppo banale. Dietro il mattone di qualche muro? Come trovarlo? Sarebbe comunque un po’ ovvio, e bisogna considerare anche la dimensione di ciò che vuoi nascondere. Dietro un mattone fasullo si può occultare solo qualcosa di molto piccolo, difficilmente di un certo valore e quindi poco interessante. La cosa preziosa di cui parlano le leggende dovrebbe avere una certa consistenza. Pensaci bene, se dovessi nascondere qualcosa cercheresti un posto insospettabile, specie se avessi bisogno di spazio. Riflettendo su come è costruito questo solaio, devi considerare le strutture indispensabili alla costruzione, e quelle accessorie. Indispensabili sono i muri portanti, i colmi del tetto con le travi, travetti e coppi di copertura, e le travi che reggono le tavelle che sostengono l’impiantito. Le strutture accessorie possono essere state in qualche modo aggiunte allo scheletro di base, ma quali sono nello specifico? Il perimetro della costruzione è integro, senza rientranze nel rettangolo che rappresenta, quindi nessuna stanzetta aggiuntiva e poi murata. Nessuna aggiunta nemmeno ai muri portanti interni, che vanno a sostenere le travature del tetto: tutto normale dal pavimento al soffitto mansardato. Il pavimento... ma come può essere fatto un pavimento del 1600? In teoria ci dovrebbero essere dei pali, che posti da una parete all’altra dovrebbero sostenere le tavelle, o tavole di legno, che fissate tra di loro costituiscono quella pavimentazione, che è sempre un filino elastica e rumorosa quando ci cammini sopra pesantemente. Se ciò che pensi è vero, tra un palo e l’altro, sotto gli assi, si trovano degli spazi vuoti dove poter nascondere un bel po’ di tesori, oppure anche un solo misero tesoretto, che però ti rallegrerebbe la vita e ti toglierebbe qualche problema economico, visti i tuoi scarsi guadagni quest’anno. Sì, mi sembra un’idea plausibile. Ma se quassù c’è qualcosa di valore, da dove posso cominciare? Il pavimento è bello grande, oltre che ingombro di un sacco di mobili e cose. Voglio fare una ricerca metodica e organizzata, come quando si gioca a battaglia navale. Farò proprio così: dividerò la superficie in una specie di griglia, come se fossero dei quadrati del gioco. Partirò da A1 ed andrò avanti. Se c’è qualcosa qui sotto, la troverò!

    3.

    I cavalieri Moghul

    Afghanistan. Anno, 1604.

    Khurram restò sulle montagne ancora per qualche anno, poi il nonno ritenne che fosse giunto il momento di riportarlo ad Agra, nel nuovo Palazzo Imperiale, per inserirlo nel mondo che gli competeva. L’esile bambino partito per le montagne si era trasformato in un robusto adolescente dal portamento fiero e dal passo elastico e atletico conquistato sulle aspre pietraie. Il padre, che non lo vedeva da anni, lo accolse con calore e stupore e la madre si sciolse in lacrime di gioia dopo aver tanto sofferto per la sua lontananza.

    Fu un grande rientro in una casa, anzi, in un immenso palazzo, dove però il ragazzo si sentiva a disagio, dopo aver vissuto su quei monti aridi. Anche il clima era diverso: l’aria secca, gelida d’inverno e ardente d’estate, ma sempre limpida che respirava sulle montagne, si era trasformata, ad Agra, in quella leggera e costante umidità che, specie alla sera, trasportava dalle campagne gli odori e gli umori forti della terra e i profumi dei fiori, che sbocciavano ovunque saturando l’aria di aromi inconsueti. Ad arricchire tutto quel misto di sentori forti, arrivava dalle lontane foreste una vaga nota di decomposizione vegetale, che alleggeriva i toni dolci. L’insieme di queste fragranze generava quel costante odore, che era la caratteristica principale dell’enorme Sub-continente Indiano.

    Agra era una città magnifica e gli Imperatori Moghul vi avevano edificato palazzi e strutture che rivaleggiavano con quelle di Delhi. Erano riusciti a coniugare lo stile architettonico tipico induista, con quello caratteristico musulmano, dando vita a qualcosa di estremamente gradevole, con l’armonizzarsi di edicole ad archi e colonne sormontate da cupole e cupolette, che riprendevano l’idea delle coperture delle moschee.

    Il Palazzo Imperiale era l’edificio più importante della città e non si contava il numero di stanze e saloni disponibili per la famiglia del Moghul e per i dignitari che vivevano nelle varie dipendenze collegate alla struttura principale.

    Le mogli del Gran Moghul abitavano nell’Harem all’interno del palazzo e ospitavano anche le altre donne, mogli dei dignitari, sottraendole all’andirivieni di tutte le attività generate dalla gestione del potere di quell’enorme Paese. Gli europei criticavano quel modo di tenere isolate le donne, ma nel gineceo dei Moghul isolarsi era una scelta e non un’imposizione, tanto è vero che in quello che ancora veniva chiamato Harem vivevano anche donne di etnie e religione diverse, che trovavano interessante e comodo passare le giornate tra femmine, condividendo attività e passatempi.

    Le mogli dell’Imperatore crescevano in quella parte del Palazzo i loro figli più piccoli, aiutate da uno stuolo di servitrici, balie, cuoche e eunuchi, che provvedevano a una rigida sorveglianza. Si trattava di un mondo particolare, coniugato al femminile, dove regnava un’armonia e un ordine gradito a tutte quelle donne che, a seconda del loro rango, intrecciavano amicizie, collaborazioni e conversazioni in una confidenza complice, che le teneva molto legate tra loro.

    La cultura musulmana, che prevedeva per l’uomo la prerogativa di avere più mogli, in quel mondo particolare difficilmente generava inimicizie, perché il concetto della poligamia era molto radicato nella mentalità femminile. Qualora una delle mogli si fosse innamorata perdutamente del proprio marito, padrone assoluto del loro destino, e questo amore fosse stato ricambiato con la stessa intensità, allora, questa moglie diventava la favorita e la regina indiscussa dell’Harem, una donna che, se fosse stata dotata di intelligenza e diplomazia, avrebbe avuto influenza a sufficienza sul proprio Signore da essere anche la portavoce delle esigenze e dei desideri delle altre mogli.

    Una volta stabilita una certa gerarchia era interesse comune andare d’accordo e accettare la prevalenza di una rispetto alle altre. Era un equilibrio abbastanza difficile ma non impossibile da mantenere, perché le spose erano educate fin da piccole ad accettare il matrimonio che veniva loro imposto dai genitori e i rapporti tra i sessi erano sempre sorvegliati dalle famiglie, per cui non avevano libertà di scelta e neanche la possibilità materiale di scegliere. Appartenendo a famiglie di alto lignaggio ed elevata condizione sociale, le mogli dell’Imperatore erano istruite e colte a sufficienza da saper distinguere la convenienza tra vivere a Palazzo in maniera regale e vivere nell’anonimato di una vita qualunque con qualche marito insignificante.

    La madre di Khurram non era la favorita del Gran Moghul, ma essendo la seconda moglie ed essendo molto bella e intelligente, era considerata e apprezzata, oltre a essere la più visitata dal marito nelle calde notti di Agra. Va da sè che la giovane donna perorasse, intelligentemente, la causa del suo bellissimo figlio a dispetto degli altri suoi fratellastri. Il Gran Moghul però non era uno sprovveduto e, in quanto figlio del Grande Akbar, sapeva interpretare i discorsi femminili rendendosi conto che ogni madre cercava di magnificare ed esaltare le qualità della propria prole. Anche lui però, come suo padre, aveva visto in quel bambino, prima, e in quel ragazzo adesso, qualcosa di speciale, una personalità notevole che faceva ben sperare. Oltretutto quel ragazzo, grazie all’educazione fornitagli dal nonno, appariva estremamente educato e diplomatico, pur se i suoi occhi tradivano una latente pericolosità. Una peculiarità caratteristica della loro famiglia.

    Fu con questo pensiero che il Moghul Jahangir, dopo avergli lasciato un anno di tempo da passare a Corte per imparare tutto quello che riusciva sulla politica e sulla diplomazia imperiale, lo fece arruolare, a sedici anni, come semplice cavaliere nel suo esercito meridionale, quello impegnato nella difesa dei confini da vicini molto aggressivi e litigiosi, che spesso tentavano dei colpi di mano. Fu con grande orgoglio che il padre lo vide partire, in groppa a un bel cavallo nervoso, vestito della divisa imperiale con un turbante rosso acceso, elegantemente arrotolato sulla testa. La madre assistette piangendo anche a quest’altra partenza. Intimamente però era felice nel vedere quant’era bello e imponente quel suo figliolo, che già si distingueva fra gli altri compagni di reggimento.

    Così per la seconda volta Khurran si distaccò dalla famiglia ed entrò in una nuova vita, dove avrebbe dovuto imparare altre cose, come un qualsiasi soldato Moghul. I cavalieri Moghul erano leggendari: avevano ereditato dagli antenati mongoli le abitudini di combattimento e l’assuefazione allo stare lungamente in sella, quasi in simbiosi con il proprio cavallo con il quale finivano per essere un corpo unico. L’animale che montavano era tenuto in grandissima considerazione. Si poteva dire, con un po’ di esagerazione, che nell’esercito Moghul i cavalli erano tenuti più da conto degli uomini. Dovendo percorrere sempre grandi distanze su piste poco curate, che collegavano città e paesi, era molto importante che gli animali fossero al meglio della loro forma fisica, dalla quale sarebbe dipesa la vita dei loro cavalieri. Si stabiliva così un legame profondo tra uomo e cavallo, che diventava fondamentale e vincente nei combattimenti ravvicinati, dove i movimenti erano così sincronizzati da rendere i cavalieri Moghul delle micidiali macchine da guerra.

    Khurran ebbe in dotazione la divisa e le armi del proprio reggimento: stivali di cuoio conciato alti fino al ginocchio, che contenevano i pantaloni di pesante stoffa rossa, ampi abbastanza da permettere tutti i movimenti possibili. Ampia era anche la candida camicia con le maniche a sbuffo, ricamata sul petto, che veniva attraversata da una larga fusciacca di cotone rosso dalla spalla destra al fianco sinistro, fino a inserirsi sotto la bella cintura di cuoio, che reggeva il fodero della famosa spada dei Moghul, temprata in un acciaio leggero e di gran qualità. Agganciata con due anelli, sulla destra della bella sella, c’era una corta lancia, che veniva usata nelle cariche prima degli scontri corpo a corpo con le spade. Al lato sinistro della sella era poi agganciato un piccolo scudo metallico rotondo.

    Considerando che la maggior parte dei principi o Maharajah Indù delle regioni centrali e meridionali dell’India poteva contare quasi esclusivamente su truppe di fanteria di solito poco addestrate e male comandate, per i cavalieri Moghul era gioco facile averla vinta in quasi tutte le battaglie dove c’era un equilibrio accettabile nel numero dei combattenti.

    La disciplina ferrea imposta ai cavalieri, un organico di comando ben preparato, lo spirito di sacrificio acquisito nei secoli e i dettami della religione prevalente, che imponeva una disciplina spirituale e mentale, mettevano quei guerrieri in uno stato di superiorità psicologica spesso vincente.

    Khurram, dopo gli insegnamenti del nonno Akbar e il modo di vivere sulle montagne afghane, non aveva alcuna difficoltà ad accettare la disciplina imposta dagli ufficiali del suo reggimento, piuttosto severi con le reclute. Solo le tre cariche più alte al comando erano al corrente che quel giovane fosse uno dei figli dell’Imperatore, ma non per questo gli avevano consentito un trattamento di riguardo. Del resto, la ferma militare era obbligatoria anche presso i nobili e i funzionari dello Stato, senza riguardi per nessuno. Così, per tutti i suoi compagni lui era solo un ragazzo come gli altri, che avrebbe tentato di procurarsi gloria e promozioni esclusivamente con i propri mezzi e con il proprio coraggio dimostrato sul campo. Khurram aveva promesso solennemente ai suoi genitori che non avrebbe mai rivelato le proprie origini per averne un qualche vantaggio: avrebbe dato la scalata alla struttura gerarchica del comando solo con i suoi mezzi per guadagnarsi la stima e la fiducia del padre. Dentro di sè covava il desiderio segreto di potergli succedere un giorno sul trono, per prendersi l’onere e l’onore di governare quello straordinario Paese chiamato India, lasciando nel contempo il proprio segno significativo. Era ambizioso come tutti i giovani principi, ma dentro di sè coltivava il sogno di diventare più grande del nonno, così da restare nella memoria delle genti.

    Ora doveva cominciare da zero e il primo passo era quello di distinguersi in battaglia. Aveva ricevuto un’educazione eccellente, ma essere soldato significava soprattutto saper combattere, non bastava avere coraggio, bisognava saper usare la spada con sapienza e forza. Lui non difettava certamente di energia, data la sua giovinezza e prestanza fisica, ma per quanto riguardava l’esperienza aveva ancora tanto da imparare. Nell’esercito Moghul c’erano degli eccellenti istruttori, reclutati tra i veterani di molte battaglie, che si prestavano a insegnare i loro segreti dando lezione giornalmente a tutti i cavalieri che lo desideravano. Khurran era il più assiduo e il più impegnato degli allievi. Instancabile e modesto nella sua gran voglia di imparare, passava da un istruttore all’altro cercando di acquisire qualcosa di nuovo, perfezionando i colpi e le posizioni, sia a cavallo che a terra nel caso avesse potuto venire disarcionato. Dopo qualche mese gli istruttori non ebbero molto altro da insegnargli. Adesso, terminata la preparazione, restava da vedere come si sarebbe comportato in uno scontro reale sul campo di battaglia. Khurran, come moltissimi giovani, non prendeva nemmeno in considerazione l’idea della morte, ed era ansioso di mettersi in gioco per vedere come avrebbe reagito nello spargere il sangue di un altro uomo.

    Intanto che continuava l’addestramento di tutta la compagnia, venti di guerra cominciarono a soffiare dalle regioni del Deccan, da sempre turbolente. Gli abitanti erano molto ostili ai Moghul e difficilmente ne avrebbero tollerato la dominazione e la vicinanza di confine. Di fatto la guerra si avvicinava e Khurran ravvisava la possibilità di mettersi in luce e scalare le vette della gerarchia militare.

    «Comandante, ci sono delle novità? Andiamo in guerra? Combatteremo? Potrò andare in prima linea?» Assillava con questo genere di domande il responsabile della sua unità.

    Questi rispondeva sempre con pazienza, come aveva fatto tante volte con altri giovani pieni di entusiasmo e di voglia di combattere. A molti di loro però era stato costretto a chiudere gli occhi dopo qualche sanguinoso scontro. Ogni volta si chiedeva che senso avesse sacrificare tante giovani vite sull’altare di qualche effimera conquista territoriale, dalla quale spesso non sarebbe derivato alcun vantaggio economico o politico.

    Come in ogni

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