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Rosa Canina
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E-book189 pagine2 ore

Rosa Canina

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Info su questo ebook

Ancora fanciullo, il conte Euridanio di Villalta era solito trascorrere le giornate - lui, figlio del potente e infl essibile conte Giovanni - assieme a un

gruppo di ragazzi cenciosi che, inorgogliti dal suo interesse, lo fecero entrare nella loro fratellanza, la famiglia del firri. Aspettando Madrefi umara, “regina delle acque e degli alberi”, e auspicando di emulare la natura della rosa canina, “tra le spine far nascere fiori”, essi crebbero e maturarono, passando attraverso le prove che la vita aveva riservato. Alcuni caddero.

Altri seguirono il proprio destino. Ma “la notte fi nisce così: come finiscono le cose”, e allora Euridanio abbandona il palazzo del padre e va a vivere per sempre sul suo Aspromonte, da solo. Soltanto così potrà comprendere i sentimenti e l’essenza degli uomini. Marcello Borgese dà vita a una storia affascinante, ricca di una saggezza evocativa del senso costante che, al di sopra delle mutevoli vicende umane, scandisce l’ordine sereno dell’essere.

Il libro ha ottenuto una menzione speciale al premio letterario “Procida isola di Arturo-Elsa Morante” XXI edizione 2007.
LinguaItaliano
Data di uscita13 giu 2013
ISBN9788891113627
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    Anteprima del libro

    Rosa Canina - Marcello Borgese

    necessità)

    L'alba era appena spuntata ed il palazzo del conte Arese di Villalta già si animava di figure illuminate dall'incerto chiarore delle lanterne.

    La servitù vociando affrettava i preparativi per la partenza.

    La scuderia sembrava una caserma che avesse ricevuto un notturno allarme ed i muli recalcitravano, infastiditi dall'andirivieni di gente che si chiamava e si scambiava ordini mentre legava briglie e morsi.

    Uomini e animali, compiutamente preparati e al fine rassegnati, attendevano l’arrivo del conte Euridanio mentre il sole si arrampicava sul fianco della montagna e una sottile fragranza di zagara permeava l'aria.

    Bagliori rossastri fluttuavano per le stanze, percorrevano i corridoi, salivano su per i soffitti tra le volute degli stucchi e i ghirigori delle grottesche mentre la luce del giorno avanzava scendendo giù dalla torre della scienza.

    La notte finiva così: come finiscono le cose.

    Iniziava un altro giorno.

    Tutt'intorno si fece silenzio.

    Gli alti pioppi ed i sambuchi non mossero foglia e perfino il torrente, già smessa l'irruenza invernale, ammutolì.

    I servi, consapevoli della gravità dell’ora, aspettavano immobili trattenendo il fiato.

    M’accompagnerete fin lassù, scaricherete i muli e tornerete indietro.

    Euridanio dagli occhi tristi, aveva deciso di vivere per sempre da solo tra i boschi della montagna.

    I suoi anni erano quasi cinquanta e altri dieci gli restavano da vivere.

    §§§

    In quel ventiquattro aprile del 1809 Euridanio Arese di Villalta, in testa alla brigata, si mosse, oltrepassò il cancello, percorse la breve distanza che separava il palazzo dal greto della fiumara e puntò a levante per risalire il corso d'acqua.

    Gli argini erano asciutti e tra la breccia e l'arena lussureggiava la nepitella che calpestata dai muli spandeva nell'aria il suo odore pungente.

    Le foglie dei pioppi e dei sambuchi avevano ripreso il loro incessante moto dopo la pausa, gli uccelli cominciavano a cantare e le lucertole uscivano dalle tane per scaldarsi al sole che nel frattempo, s'innalzava e prometteva d'essere caldo.

    Dopo una breve sosta per bere l’acqua fresca della sorgente che gorgogliava tra i massi candidi, la marcia riprese decisa sino alla confluenza della fiumara Tenopotamo con la Gnunai. Là vi era uno scontro violento tra i due corsi d'acqua che provenivano dagli opposti fianchi della montagna. In quel punto combattevano una cruenta lotta per l'affermazione della supremazia sul territorio sottostante. Il risultato, di quelle secolari battaglie, era una larga pietraia di forma ellittica entro cui s’incuneava il fianco occidentale del monte.

    Si fermarono accanto alla spianata sassosa, dove si estendeva un piccolo altipiano erboso, colorato da fiori d’asfodelo ed acanto e limitato da tamerici sporgenti lungo il margine.

    Un pasto frugale, consumato in silenzio: pane, pecorino e olive nere bollite. Poi su, per la montagna, attraverso i castagneti, i lecceti e le impervie brughiere d’erica e corbezzoli tra i quali s’intrecciavano i rovi, la rosa canina e le felci.

    La notte giunse quand’erano ormai in una radura circondata da alti faggi e intanto s'era levato lo scirocco d’aprile: forte, irregolare e a tratti violento.

    Ripararono sotto i larghi rami dei faggi.

    Al mattino i servi lasciarono sacchi e barili, il cavallo e una capretta e andarono via non senza voltarsi indietro molte volte sperando in un ripensamento del conte.

    Euridanio, rimasto solo, si guardò intorno pensando a ciò che avrebbe dovuto fare ma non sapeva da dove iniziare.

    Mise un poco d’ordine: viveri da una parte, strumenti di lavoro e sementi da un’altra, armi e polvere nel posto più asciutto.

    All’imbrunire un telone cerato per tetto, uno per pavimento e pali e ramaglia come pareti.

    Esausto ma nel contempo appagato andò a sedersi in cima al dirupo, a contemplare gli spazi che si aprivano giù lungo i crinali fino alla piana ed al mare.

    Il giorno dopo si mise ad esplorare a piedi i luoghi vicini per trovare il miglior posto dove costruire un casolare.

    S’inoltrò nel bosco che diveniva sempre più fitto quando ai faggi si alternavano i pini, gli abeti bianchi ed i lecci sotto i quali fioriva un rigoglioso sottobosco.

    Qualcosa mosse le foglie secche ed Euridanio si tirò indietro pensando ad una vipera, si accorse invece di una stupida quanto innocua salamandra pezzata gialla e nera che restò immobilizzata per la paura.

    Il luogo era infestato da queste creature per la presenza, nelle vicinanze, di uno stagno dal quale si ergevano sottili fusti sarmentosi che si aggrappavano ai rami degli abeti e si attorcigliavano ai tronchi.

    Centinaia di salamandre posate sulle pietre, sugli assi fradici o sulla terra nera del bosco, lo guardarono indifferenti.

    La natura del luogo era aspra ma allo stesso tempo, irresistibilmente attraente poiché l’immobilità e i silenzi di quelle creature rimandavano al mistero della montagna e della natura muta.

    Dopo qualche ora, superò un ripido pendio e si diresse verso nord per aggirare un vallone, quando fu attirato da un pianoro assolato che dominava quattro valloncelli sottostanti. Su di esso si stendeva un soffice prato limitato a settentrione da una intricata brughiera e a sud da un costone scosceso mentre sugli altri due lati si aprivano grandi spazi. Lontano in basso s’intravedeva il mare: a ponente quello di Scilla e Cariddi e a levante quello greco d’Omero.

    Il pianoro dei due mari così chiamò quel posto, mentre assaporava il piacere della solitudine e del guardare con distacco giù, verso la terra degli uomini, dall’alto della cima aspromontana.

    Lo scirocco non soffiava più ma aveva impastato l'aria d’umidità. Molte nuvole arrivavano da sud-est e scaricavano acquazzoni pieni di finissima sabbia desertica.

    Euridanio sul pianoro contemplava il suo passato con lo sguardo digradante dai pendii fino al ruscello le cui acque precipitavano ignare incontro al futuro.

    Da ragazzo, quando scavalcava il muricciolo di cinta del giardino, andava a giocare con i monelli che popolavano l'alveo della fiumara che scorreva ai piedi della collina.

    Sostava qualche istante prima di saltare, guardava verso i cupi monti ai quali chiedeva complicità e protezione e poi veloce fino al greto dove i giorni erano fatti di luce chiassosa tra le pietre, le brecce e gli scrosci dei gorghi.

    Suo padre, il conte Giovanni, non sospettava simili mancanze da parte del figlio maggiore mentre attendeva all'amministrazione del feudo in compagnia del fedele amministratore don Antonio Caravati. Esaminava il gettito delle gabelle sulla scannatura, sul pancotto, sulla verdura, sulla foglia di gelso, sui diritti di catapania e sull'aggio pattuibile per la tassa della lue venerea che di norma fruttava cento ducati annui.

    Era feudatario delle terre di Stenopoli, Castel Saraceno, Cinquecasali, Melisacro, Sant'Ilario dei Greci e Grottachiara dello Ionio. Uomo noioso, sempre impegnato a esaminare i libri maestri che don Antonio teneva con cura.

    I tempi erano agitati e con essi si agitava anche il conte che aveva intentato lunghissime liti con nobili e galantuomini che avevano trasformato in difese taluni terreni demaniali dell'Università comunale, privando così la popolazione degli usi civici sugli stessi. Alla fine, infastidito dalle lungaggini, impose con la forza un proprio sindaco e fece restituire al demanio civico molte terre delle quali si erano impossessate notai, speziali ed avvocati. Di certo non perché fosse animato da benevoli sentimenti verso gli abitanti del luogo, ma perché pensava col tempo, di trovare una scusa per riaffermare su di esse antichi, quanto improbabili, diritti feudali.

    I villici delle terre burgensatiche ( beni posseduti a titolo privato dai feudatari) gli portavano un deferente: odio. A tutte le loro petizioni, intese a ottenere l'aumento delle quote coloniche, rispondeva con un vedremo in seguito..... Ai notabili suoi sostenitori, assicurava invece, alleanze e favori contro i comuni nemici.

    Con i suoi tre figli Euridanio, Cosimo e Isabella era un tiranno.

    Euridanio però, d’indole ribelle, non sopportava imposizioni di dure discipline. Cosimo e Isabella le accettavano, l'uno perché timoroso, l'altra perché l’indole dolce non consentiva contrasti di nessun genere con le persone.

    I tre ragazzi erano affidati alle cure dell'abate don Giacomo Jerocades che li seguiva con dedizione tutto il santo giorno.

    Cosimo era diligente con le lezioni, non dimostrava inclinazione per una particolare scienza, mentre in segreto, per non essere deriso dal fratello, si dedicava allo studio degli stemmi gentilizi, delle armi nei secoli e dell'araldica in genere. Era meschino, pronto a fare la spia contro i fratelli sicché molto spesso Euridanio doveva reprimere il desiderio di percuoterlo. Con l'abate si dimostrava puntuale e ripeteva in maniera rigorosa, le cose imparate anche per mettere in risalto la fiacchezza del carattere e l’indisciplina d’Euridanio.

    L'abate conoscitore dell'animo umano, apprezzava di più la magnanimità, il coraggio e l'intelligenza viva di Euridanio verso il quale indulgeva non senza imbarazzo, alla presenza di Cosimo ed Isabella.

    Nelle controre, quando tutti riposavano e nell’aria si udiva solo il cicalare e il ronzio dei tafani, Euridanio approfittava per dileguarsi e correre verso le candide pietre della fiumara.

    Le popolane che lavavano o curavano la tela immergendola e asciugandola al sole cocente per decine di volte, lo guardavano stupite ma non osavano richiamarlo poiché anche se fanciullo era pur sempre figlio del conte.

    Euridanio dagli occhi tristi vagava per il greto assolato e poi per i vicoli stretti del paese tra schiere delle case piccole della gente minuta che viveva intorno al palazzo.

    A valle del ponte, il fiume formava un'ansa sovrastata da un dirupo su cui si ergeva la chiesa della SS. Trinità dal caratteristico campanile a minareto. Nell'angolo più interno dell'ansa, gli abitanti del borgo scaricavano i pitali e ogni altro rifiuto sicché‚ nelle ore estive di calura, si spandeva un terribile fetore a cui si univa quello proveniente dagli escrementi di capre, maiali e galline che vivevano insieme agli uomini in quei tuguri.

    Per la strada maggiore, sulla quale qualche volta si spingeva, transitavano i carri che dai paesi delle Serre portavano granaglie, fieno e fichi secchi.

    Dalla carraia polverosa esalava un vago lezzo come di liquirizia in putrefazione proveniente dalla paglia frammista a sterco e urina di muli e cavalli.

    Frotte di ragazzi cenciosi si aggiravano in quei luoghi e appena il piccolo conte si avvicinava tacevano, imbarazzati da quella inusitata presenza.

    Dopo un paio di sortite cominciò a scambiare qualche parola con quei ragazzi che ogni giorno giocavano tra i sassi e le acque.

    Con i loro curiosi vestiti e la sporcizia sedimentata sui visi, davano a Euridanio l’impressione d’essere dei cuccioli di bestie rassomiglianti pressappoco agli uomini.

    Il moccio appiccicato al labbro superiore, gli occhi cisposi, i capelli neri impastati di sudore e fango con camicie di tela grezza rattoppate varie volte. Le brache dei più piccoli avevano l'inforcatura tutta aperta, di modo che abbassandosi tiravano subito fuori gli organi pronti per orinare o andar di corpo. Con tale espediente quei bambini potevano soddisfare i bisogni senza spogliarsi. Per pulirsi usavano i sassolini bianchi e rotondi oppure le foglie del sambuco così copioso lungo gli argini della fiumara.

    D’estate, dove l'acqua del torrente saltava la briglia, quei ragazzi facevano il bagno ma l'acqua non lavava la sporcizia accumulata per tutto l'inverno.

    Superate le prime reciproche diffidenze, Euridanio si rese conto che a parte le diversità linguistiche e l’aspetto esteriore quei ragazzi avevano gli stessi desideri e fantasie di gioco e di avventure che aveva lui.

    Una delle più grandi differenze consisteva, comunque, nel fatto che nell’invenzione dei giochi ci mettevano sempre l’assalto a qualche albero da frutta poiché erano perennemente affamati. Euridanio perciò cominciò a trafugare dal palazzo ogni ben di Dio che distribuiva con gioia a quei suoi nuovi amici: pane, formaggio, nduja .

    Giocare con loro era comunque piacevole ed in poco tempo, Euridanio dagli occhi tristi, imparò a costruire arco, frecce e cerbottane per dar la caccia a lucertole, serpi e soprattutto ramarri i quali, secondo i ragazzi, valevano quattrini se portati dal giovane speziale salernitano che li comprava per farci delle medicine pronunciando delle parole magiche: similia similibus curantur.

    Nel torrente si affacciavano orti ben coltivati e irrigati con l'acqua che veniva dai mulini e frantoi delle colline.

    Frutta e ortaggi erano una continua tentazione per i ragazzi affamati che spesso buscavano bastonate dai coloni che li sorprendevano a rubare.

    Quando non era possibile prendere fichi o uva, per la presenza dei contadini, si arrampicavano sui costoni riarsi della fiumara, tra i cardi e le pale spinose dei fichi d’India

    Raccoglievano i frutti con ingegnosi attrezzi formati da due canne alle quali erano fissati all’una un punteruolo ed all’altra un coltello. Con la canna a punteruolo infilzavano la pala con i frutti e con l'altra la tagliavano da parte a parte.

    Quando al calare del sole le ombre si allungavano ed i contorni delle cose non erano più chiari, la fiumara metteva paura.

    La montagna mandava sua figlia a valle.

    C'era sempre qualcuno che distogliendosi per un momento dal gioco e alzando gli occhi coglieva il sole boccheggiante laggiù tra i flutti del mare e allora lanciava l'allarme: E’ notte! Arriva Madrefiumara!.

    A quel grido tutti correvano per ritirarsi al borgo, lasciando qualunque gioco per non essere sorpresi dal passaggio di Madrefiumara che si diceva fosse generosa ma severa con i ragazzi insolenti che si fossero aggirati in quei luoghi dopo il tramonto.

    Euridanio incuriosito voleva sapere e, Miviano, gli spiegò che Madrefiumara era una donna dal viso di vecchia, ma dal corpo prosperoso e fresco come una giovane sul quale ricadevano lunghi capelli bianchi. Usciva dalle sorgenti e vagava, nella notte, dai monti alla marina per tutto il corso del fiume per riprendere il suo regno che all'alba avrebbe riaffidato agli uomini affinché si servissero dell'acqua, dei sassi, della sabbia, delle anguille, delle trote, delle canne e di tutti i frutti delle sponde.

    Però era anche molto permalosa e nell'inverno dal monte scaricava a valle acque vorticose da far sparire ogni traccia

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