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Il volo di carta
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E-book984 pagine14 ore

Il volo di carta

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Info su questo ebook

A Belcolle, nell'alto Lazio, quattro anziane musiciste presidiano un luogo speciale per garantirsi un'eternità innaturale: Villa Tornaboni. Duilia Liberati, agente immobiliare, riceve il mandato di vendita della proprietà e raggiunge Belcolle con il giovane segretario. La speciale simbiosi tra il ragazzo e la tenuta attira l'ira delle vecchie signore, che vedono minacciato il loro angolo di paradiso, spingendole a usare i loro particolari poteri per arginare il pericolo. In sottofondo, due organizzazioni schierate su fronti opposti da tempo immemorabile. In primo piano gli abitanti di Belcolle, molti dei quali portatori di un frammento di storia legato a villa Tornaboni e al suo storico possessore.
Una storia paranormale a tinte gialle spruzzata di fantascienza, mitologia ed esoterismo. Un testo stratificato e complesso che nella prima parte, a getto continuo, introduce personaggi e semina enigmi per poi scioglierli uno a uno.
Note: contiene molti flashback e riflessioni
LinguaItaliano
Data di uscita27 ago 2017
ISBN9788899561086
Il volo di carta

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    Anteprima del libro

    Il volo di carta - Cristina Lattaro

    Il volo di carta

    Titolo: Il volo di carta

    Autrice: Cristina Lattaro

    Questo romanzo è un’opera di fantasia: nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono il prodotto dell’immaginazione dell’autore o sono usati in modo fittizio. Qualsiasi riferimento a fatti, luoghi o persone è puramente casuale.

    Tutti i diritti di traduzione, riproduzione e adattamento, totali o parziali, con qualsiasi mezzo, anche copie fotostatiche e microfilm, sono riservati.

    © 2016 bookeco

    www.bookeco.it

    ISBN 978-88-99561-08-6

    PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA

    Copyright 2016 bookeco

    Stampato per conto di bookeco nel mese di  gennaio 2016

    Cristina Lattaro

    Il volo di carta

    A Patrizio e

    ai suoi voli di carta

    … queste vibrazioni fanno vibrare e tremare l'aria che gli è appresso, i cui tremori e increspamenti si distendono per grande spazio.

    Galileo Galilei

    Prologo

    Belcolle, Novembre 2006

    Rebecca attende sempre con impazienza che scocchi l’ora di un’esibizione. Nel giorno concordato scandisce dentro di sé ogni secondo che passa, soppesa gli elementi in gioco finché Paga, Nini e Beatrice, violiniste talentuose, la raggiungono ligie al richiamo. Paga, Nini e Beatrice conoscono le regole, ne sono amministratrici indispensabili sebbene di second'ordine rispetto a lei. Tutte abitano nuclei protetti e invisibili da cui condizionano l’esterno senza timore, forti del linguaggio potente e trasparente che le accomuna.

    Quando il momento giunge, Rebecca non tollera interferenze né confusioni tra i ruoli. Lei è la direttrice, le altre insufflano vita nei propri strumenti e sono strumenti suoi a loro volta. Aspetta che prendano posto al centro della sala riccamente arredata, poi le scruta. Quando il suo sguardo le tocca, le ospiti, di solito, abbassano gli occhi sopraffatte dal timore di non essere all’altezza di aspettative sempre più ambiziose.

    Ai piedi portano scarpe morbide, basse, di ottima fattura. Quanto agli abiti, dipende. In occasione di una riunione scansano le vestaglie a motivi floreali o geometrici che sono solite indossare. Si adornano di gioielli. Nini rinfresca la sua tintura color oro.

    Non c’è mai alcun estraneo, ogni concilio è strettamente privato, protetto dall’insonorizzazione quasi perfetta dell’appartamento di Rebecca. Assiepato fra le pieghe dei loro ricordi, comunque, è sempre presente un pubblico enorme e acclamante.

    Ogni concerto è debitamente pianificato. C’è stata un’unica eccezione alla regola e di essa Rebecca conserva un piacevole ricordo.

    Lo ricrea nella sua mente quando asseconda una certa attitudine all’autocompiacimento.

    Allora Nini era assente, Paga e Beatrice si erano riunite da lei in tutta fretta dopo aver intravisto un uomo, Marco Vele, aggirarsi nei dintorni di villa Tornaboni. Rebecca aveva deciso di agire all’istante. Era salita sul palcoscenico, aveva tirato le tende e aveva trafficato con gli interruttori in modo che intensi raggi di luce spiovessero dall’alto. Aveva assemblato un antico leggio badando a non scalfirne la superficie resa lucente dalla foglia d’oro applicata con maestria artigianale. Vi aveva disposto sopra uno spartito e un trafiletto ritagliato anni prima da un quotidiano ormai estinto. Lo stralcio conteneva una breve ma accurata analisi delle patologie scatenate dall’utilizzo di utensili vibranti o dalla guida su superfici sconnesse, quelle stesse che avrebbero provocato le note del concerto quando si sarebbero solidificate sotto la sua supervisione.

    … le affezioni dovute ad alterazioni causate dall'esposizione a microtraumatismi vibratori sono estremamente dolorose. Non riducono solo la capacità di afferrare o camminare ma in casi estremi possono portare alla cancrena…

    «Concentrate su di me!» aveva ribadito preparandosi a dirigere. Beatrice aveva sollevato su di lei gli occhi mansueti e aveva sorriso indulgente, pensando a Nini e al suo esonero speciale. Rebecca non vi aveva badato. Aveva aperto la scatola laminata in platino che custodiva la bacchetta che preferiva. Aveva estratto il bastoncino di legno con un guizzo, lo aveva stretto con grazia tra i polpastrelli delle prime tre dita della mano destra. Alla seconda pennellata spalmata in aria, la sua figura si era circondata di un alone brillante e un’alchimia di sensazioni contrastanti aveva pervaso le compagne mentre attaccavano all’unisono.

    Abilità e tecnica, precisione e potenza erano dilagate in paesaggi sonori che istantaneamente si erano compattati trasformandosi in acquitrini pericolosi.

    La trappola era per il giovane che si aggirava a un paio di chilometri di distanza, nei pressi di villa Tornaboni, il nerbo su cui ruotava la loro esistenza.

    Marco Vele affondava i piedi nell’erba rarefatta che tappezzava i passaggi più angusti di un parco. Scrutava i paraggi con attenzione alla ricerca di un’ispirazione o di un qualsiasi altro spunto da aggiungere al proprio carniere di impressioni.

    Desiderava far luce sul mistero che circondava la proprietà, ma la sua sosta si era prolungata oltre le originarie intenzioni. Si sentiva al centro di un mirino e sapeva di avere poche possibilità di scampare all’attacco che percepiva imminente a meno di non mettere una certa distanza tra sé e le musiciste. Eppure indugiava, perché era vicino come non mai al punto focale della storia che stava ricostruendo. Era investito da intense ondate di compassione miste alla consapevolezza dell’esistenza di centinaia di vicende del tutto analoghe eppure infinitamente differenti da quella che gli si stava rivelando lentamente.

    Le donne, intanto, avevano continuato implacabili a costruire il tunnel lungo cui si sarebbe snodato il flusso invisibile che lo avrebbe investito.

    A ogni istante il loro contagio si era rafforzato e si era dipanato lungo il percorso più efficace, come un rivolo d’acqua alla ricerca del punto di affluenza lungo un argine che nessuno, tranne loro, sapeva costeggiare.

    In quello stesso pomeriggio di novembre, Rita Collezzi percorreva in bicicletta la stradina che per un lungo tratto filava parallela al muro di cinta di villa Tornaboni.

    Rita conosceva a memoria le buche più insidiose che evitava senza nemmeno guardare a terra. Come accadeva alla maggior parte degli abitanti di Belcolle, adorava quel tratto denso d’aromi. Ogni tanto si fermava per rubare qualche mora dai rovi che si stendevano fitti sul ciglio che precipitava a valle. Masticava e riprendeva a pedalare. La  fruttificazione iniziava con l’estate per proseguire fino al tardo autunno. Per quanto ne sapeva, probabilmente era l’unico posto al mondo dove accadeva un tale miracolo. Con il cestino quasi pieno agganciato al manubrio, si era fermata all’improvviso accanto a una siepe e aveva alzato gli occhi. Uno stormo d’uccelli disegnava una freccia inseguito da un serpente di vapore che guadagnava metri a ogni istante. Per Rita il fenomeno non rappresentava una novità. Fin dall’infanzia essi avevano animato i suoi orizzonti. Tuttavia non ne aveva mai visti di tanto scuri e densi.

    Mentre Marco Vele indugiava davanti al cancello di villa  Tornaboni,  le virtuose innescavano la loro arma contro di lui e il filamento avanzava brillando con l’energia di un incubo e con la dirompenza di un giavellotto. Dopo alcuni istanti, aveva investito la nuvola di piume e l’aveva frantumata in una miriade di efelidi grigie. Rita aveva aggrottato la fronte. Era tornata a cavalcioni della bici ed era rimasta assorta per qualche minuto. Infine aveva scosso la testa e poi l’aveva abbassata calibrando i muscoli delle gambe per lo stacco vigoroso della prima pedalata. Aveva registrato troppo tardi, distratta ancora dai propri pensieri, il rumore dell’auto che arrancava sulla strada e che, improvvisamente, aveva puntato il cofano contro di lei. La colluttazione l’aveva fatta saltare dal sellino. Si era ritrovata bocconi sul costone erboso a pochi centimetri dagli alberi che si affacciavano sul pendio. Qualcuno si era chinato sussurrando qualcosa che suonava come una cantilena di scuse. Rita aveva i jeans strappati all’altezza di un ginocchio, il golfino sporco di viola. Si era alzata in piedi certa di non essersi fatta male. Anche il forestiero si era drizzato. Anche lui era sudato e malmesso. Rita ricordava la posizione che aveva tenuto poco prima sul bordo della via. Considerando il punto in cui l’auto si era fermata dopo l’urto, le apparve evidente come la vettura avesse invaso la sua parte di carreggiata. Tornò sul suo investitore. La successiva occhiata le confermò la prima impressione: l’uomo si muoveva stentatamente, aveva gli occhi arrossati e teneva il braccio sinistro immobile lungo un fianco. Rita colse l’incrinatura strana della voce e il riflesso mutevole delle parole che arrivavano concitate alle sue orecchie. Poi le venne in mente il lampo che aveva attraversato l’aria e lo collegò all’accaduto.

    Ebbe l’impressione che il forestiero fosse scosso da più tensioni in parallelo, ognuna di matrice differente, come se pensieri distinti e ugualmente pressanti prevalessero in lui a brevi intervalli regolari.

    Lo aveva fissato negli occhi.

    «Quelle erano loro, le streghe. E ti hanno colpito!» aveva esclamato puntando l’indice verso il braccio infermo.

    Due anni dopo. Belcolle, Aprile 2008

    Paga e Nini si muovevano agili tagliando per i campi pur di arrivare non viste in prossimità di villa Tornaboni durante una delle rare iniziative non concordate con Rebecca. La proprietà era entrata nel catalogo di una nuova agenzia immobiliare dunque sarebbe stato difficile, in futuro, giungervi vicino come nei momenti in cui essa era terra di nessuno. Rebecca, Beatrice, Paga e Nini erano membri di una organizzazione, l’EM. L’acronimo identificava una società con un obiettivo ambizioso: agevolare l’insediamento di virtuose musiciste in luoghi dalle caratteristiche speciali, i siti. Nelle vicinanze di un sito, i corpi vecchi e malati delle donne si risanavano completamente.

    Capitani d’industria, uomini politici e abili banchieri raccolti sotto l’egida dell’organizzazione offrivano massicci sostegni economici per il mantenimento e lo sviluppo dei progetti dell’EM. Speravano che le moderne tecnologie di analisi e di ricerca riuscissero a decifrare la formula magica che scatenava la vitalità delle suonatrici. Anche loro, allora, avrebbero goduto di un benessere illimitato, indipendentemente dalla latitudine o dalla longitudine di residenza. E per sempre.

    La cupola della struttura, la sua volontà pulsante e avida d’eternità, tuttavia, non conosceva la ricetta alla base delle benefiche reazioni chimiche cellulari. Ciascuno dei suoi componenti credeva di essersene fatta un’idea accontentandosi della leggenda metropolitana secondo cui erano un’attuazione della Teoria degli Affetti.

    La disciplina, sorta nel XVI secolo, era basata sullo studio approfondito di alcune regole compositive. Da esse, secondo la versione accreditata ufficialmente dall’EM, scaturivano le figurazioni  ritmico-melodiche  responsabili  dei  giovamenti  purché  interpreti  straordinarie  le eseguissero nei pressi dei luoghi speciali. Volpi dell’economia e avvoltoi della finanza avevano accettato, come garanzia dell’asserzione, il fatto storicamente certificato che tra gli esponenti più famosi della Teoria degli Affetti comparisse un Galilei, il padre di Galileo. Saziata in qualche modo l’umana necessità di inquadrare in una sequenza di causa ed effetto i pochi elementi astratti in proprio possesso, l’interesse della cupola si concentrava sui progressi degli esperimenti. I rilevamenti erano condotti da un generoso numero di scienziati foraggiati per tradurre in equazioni riproducibili le alterazioni molecolari e psicofisiche indotte negli organismi che riuscivano a rigenerarsi.

    In pochi, i due Gran Maestri della Loggia e i due Venerabilissimi Gran Maestri, conoscevano lo stile di vita tenuto dalle pazienti stanziate intorno a un baricentro che diveniva fulcro e orizzonte della loro esistenza artificiale. Essi soli sapevano che la longevità si basava su premesse e congiunture complesse che andavano al di là di ogni immaginazione.

    La passeggiata campestre di Paga e Nini violava le regole imposte alle pazienti dall’EM.

    Le pazienti, in cambio del privilegio di vivere protette e sorrette in un contesto al di fuori dell'ordinario, avevano promesso di suonare solo in certi ambienti, di indossare indumenti semplici e ordinari e di acconciarsi in modo sobrio e anonimo. In altre parole, essendo confinate in piccoli agglomerati, dovevano sforzarsi in tutto e per tutto di mimetizzarsi con la popolazione senile, assumerne il portamento e le abitudini.

    Era fondamentale, infatti, che la loro identità restasse segreta così come la loro età. Tuttavia Paga e Nini a volte non erano riuscite a rintuzzare i propri impulsi. In sordina e con la massima circospezione, ma pur sempre con gusto e partecipazione, avevano osato e si erano esibite lasciando che la loro ombra si stagliasse sulle mura di villa Tornaboni.

    L’aria fresca della primavera sferzava il loro viso grinzoso mentre calpestavano l’erba turgida. Erano esseri esili dai lineamenti marcati. La loro somiglianza era sempre stata impressionante, escludendo il colore degli occhi (nocciola in un caso e azzurrino nell’altro) e dei capelli che erano scuri per Paga e biondi per Nini. La comune fisionomia era uno dei motivi per cui un intraprendente impresario teatrale le aveva ribattezzate e consegnate alla storia dividendo a metà il cognome del famoso musicista genovese. L’altra ragione era stata la loro particolare empatia col violino. Tuttavia, chi le aveva frequentate negli anni sincopati della giovinezza, aveva ipotizzato più volte che il tizio, da uomo di mondo qual era, dotato per giunta di una certa dose d’ironia, avesse indirettamente sotteso la morbosità con cui le signorine si facevano compagnia durante le esibizioni.

    Paga e Nini si portavano dietro le custodie pregustando il momento in cui avrebbero iniziato il duetto esclusivo con l’animo pieno della foga selvaggia che regalava loro la lunga marcia e il timore di essere scoperte.

    Paga teneva la sua stretta sotto il braccio destro. Dentro vi alloggiava il famoso Toscano di cui gli estimatori avevano perso le tracce alla fine del diciottesimo secolo. Quello stesso che Antonio Stradivari, su commissione del marchese Ariberti di Cremona nel 1690, aveva costruito insieme a un altro violino, due viole e un violoncello. Paga l’aveva visto per la prima volta in un angolo della vetrina di un rigattiere ed era stato subito vero amore.

    Paga e Nini erano arrivate ansimanti sul retro della villa.

    «Ci siamo!» aveva esclamato Nini soddisfatta. «Si sveglia tra cinque minuti.»

    Era impossibile sbagliarsi sui ritmi di Anselmo Ornelli, l’originario proprietario. Le suore a cui si era affidato rispettavano scrupolosamente gli orari. Alle sette di mattina l’ospite veniva svegliato, lavato e sistemato sulla sua sedia a rotelle. Era allora, non appena la consapevolezza di sé lo investiva, che qualcosa nella villa si destava.

    Le due donne deposero le custodie a terra. Paga aveva estratto il suo gioiello dal guscio rivestito di velluto verde e poi lo aveva spogliato della fodera di seta rossa con lo stesso fare sensuale che aveva riservato ai suoi amanti in un tempo lontano. Se Paga aveva un violino più celebre, Nini poteva vantare un arco più pregiato. Era firmato Sartory vicino al nasetto rigorosamente in madreperla e sotto la guarnitura. Lo strofinò con cura con pece greca di qualità in modo da ottimizzare l’attrito sulle corde. Presero posto l’una davanti all’altra e dopo aver saggiato per un istante l’accordatura, iniziarono a suonare.

    Belcolle, Aprile 2008

    Duilia passeggiava nervosa lungo la padronale che collegava villa Tornaboni a Belcolle. Suo marito Emilio, che gestiva insieme a lei un’agenzia immobiliare, stava intrattenendo un cliente, l’avvocato Gamazza. Nonostante la cordiale abilità che gli era propria, Emilio non avrebbe potuto continuare a trascinarlo senza meta nei dintorni ancora a lungo. Aveva scordato le chiavi del cancello in ufficio e aveva telefonato al segretario dell’agenzia perché le portasse. Non era da lei, ma si era svegliata presto e fin da subito aveva intuito che sarebbe stata un giornata pessima. La sensazione di vuoto che aveva provato allora le era rimasta appiccicata addosso.  Di fatto si era alzata con un leggero mal di testa e aveva trovato difficile ricordare cosa avesse fatto il giorno prima. Poi, con stupore, aveva realizzato di avere solo un vago sentore del proprio lontano passato. Ci aveva riso su scuotendo la testa, senza prendersela davvero. Una temporanea amnesia non era quanto di peggio stava sopportando da un po’ di tempo a quella parte. Certo, era stata sempre capace di ricostruire persino i profumi della sua infanzia eppure, in quel momento, non era riuscita a focalizzare nessun evento particolare della sua vita da bambina. Fuori dalla finestra, i tetti e le mansarde erano avviluppati dal tiepido abbraccio dei primi raggi del sole. Il resto degli edifici si confondeva in una macchia grigia. Allo stesso modo, solo una parte della sua coscienza si era svegliata, l’altra era rimasta come assopita. Ed era sola. Emilio era sparito il giorno prima per sbrigare alcuni affari nei dintorni di Belcolle anche se la sua Fiat Croma era rimasta parcheggiata sul retro di casa. Aveva pensato che ci fosse qualcuno di nuovo a fargli compagnia, qualcuno che infine gli avrebbe dato uno strappo fino alla villa dove lei lo avrebbe raccolto per il ritorno.

     Duilia accolse con sollievo l’arrivo della vettura di Gemmino, assunto da un paio di mesi ma che si era rivelato affidabile e preciso come un impiegato di esperienza.

    «Le hai portate?» aveva chiesto al ragazzo appena era uscito dall’abitacolo. Gemmino aveva annuito e le aveva steso le chiavi. Duilia non si era persa in convenevoli, aveva aperto il cancello e poi era volata verso il portoncino della villa. Emilio l’aveva ringraziata da lontano senza slancio, come se ogni movimento della moglie fosse parte di un piano consolidato. In realtà aveva sfruttato i meccanismi di comunicazione retaggio di un’annosa complicità e ben oliati dalla facilità straordinaria con cui l’uno coglieva gli accenti dell’altro.

    Di solito Duilia vagava libera durante le visite in cui si trovava coinvolta, spesso si accompagnava con una macchinetta fotografica. Ora contava di fare un’incursione con Gemmino ma il ragazzo era rimasto immobile vicino alla portiera.

    «Tutto bene?» gli aveva domandato raggiungendolo. Gemmino si stringeva in una giacca a vento troppo pesante per un pomeriggio primaverile mentre un fremito nervoso, lieve ma percettibile, gli animava le braccia incrociate.

    La guardò per un istante con occhi più malinconici del solito.

    «Ho rotto con Fabia» aveva sussurrato.

    Poco prima di partire per Belcolle, Duilia aveva incrociato Gemmino in ufficio. Aveva atteso il ragazzo senza fretta, immersa in un silenzio totale. Aveva riordinato le scartoffie su cui aveva sgobbato nelle ultime settimane. Aveva buttato alla rinfusa nella borsa una serie di gingilli di cui non poteva fare a meno. Infine, passando innanzi alla scrivania del segretario, aveva colto una possibilità offensiva nella partita a scacchi che stava giocando con lui da alcuni giorni.

    Il lampo le aveva fatto scoprire come minacciare seriamente il re nemico con la sua donna, la regina nera. Aveva sollevato il pezzo immersa in un difficile esercizio logico e matematico di calcolo delle probabilità, quando il campanello aveva suonato. Era sobbalzata urtando con la tracolla la scacchiera che era rovinata a terra insieme ai due eserciti in miniatura. Non se ne fece un cruccio, da anni aveva imparato a convivere con la propria goffaggine. Zigzagando tra i caduti, aveva aperto la porta. Gemmino aveva osservato lo sfacelo.

    «Ci penso io, devi andare a Belcolle, se non sbaglio.»

    Duilia era rimasta in sospeso accanto allo stipite. Dopo qualche istante d’incertezza si era scrollata dall’impiccio con un generico "va bene, pensaci tu!" e aveva iniziato a scendere le scale. Aveva un appuntamento con Emilio e un cliente interessato a villa Tornaboni, non era il caso di fare tardi. Arrivata al piano terra, si era accorta di aver mantenuto il pezzo in mano. Lo aveva tuffato nella borsa mentre raggiungeva l’auto. Allora non aveva colto nulla di strano sul viso del ragazzo ma un suo giudizio in merito non sarebbe stato affidabile poiché all’alba si era alzata di soprassalto e per tutta la mattinata aveva carburato poco.

    I – Villa Tornaboni

    Comitato di accoglienza

    Le regole degli scacchi sono fissate da secoli. La superficie di gioco è limitata a sole 32 caselle nere e a 32 caselle bianche. Eppure le combinazioni possibili sono estremamente numerose e le scoperte che ne derivano sorprendenti.

    Mentre Duilia passeggiava nervosa lungo il ciglio della strada che sfiora il cancello di Villa Tornaboni, la Donna gettata sul fondo della sua borsa sembrava animarsi sballottata dai passi veloci e dagli strattoni. Se fosse stato possibile estrarre il pezzo dal pozzo scuro in cui era precipitato, esso avrebbe avuto una precisa fisionomia. Soffermandosi sui tratti minuti si sarebbero potute cogliere le fattezze tipiche di una personalità decisa dallo sguardo tenace, consapevole delle proprie prerogative. Per la precisione, avrebbe richiamato alla memoria Rebecca che a poca distanza, in un appartamento lussuoso e raffinato in uno dei palazzi più antichi del paese, stava sorseggiando con calma una tazza di tè. Non era preoccupata, solo disturbata dall’inconveniente rappresentato dalla tipa dell’agenzia arrivata in paese.

    Rebecca aveva poggiato la foto di Duilia Liberati sul tavolo e aveva guardato le compagne che le sedevano attorno con indifferenza. Era lei il capo del gruppo, la prima tra le virtuose musiciste a essere stata trapiantata a Belcolle. Dunque, era lei la sola a doversi pronunciare sulle azioni da intraprendere nel prossimo futuro.

    Il suo soggiorno pluridecennale si era arricchito di un capitolo noiosamente ripetitivo ogni volta che un’agenzia aveva preteso di decidere della sorte di villa Tornaboni. Ma poiché le premesse di una guerra si erano di nuovo concretizzate, di nuovo occorreva affilare le armi. Sospirava godendo della carezza dell’abito di seta che fasciava il suo corpo tracagnotto. Intanto rifletteva sull’interferenza, sull’ennesima minaccia che pretendeva di turbare la sua vita dopo la vita. Il suo volto appariva pacato ma stringeva con forza nervosa, tra l’indice e il pollice della mano mancina, il solitario della collana di diamanti che le sottolineava la curva del seno. Con lo stesso stile si erano acconciate le altre componenti della compagnia. Paga, Nini e Beatrice erano arrivate in casa della direttrice alla spicciolata dopo pranzo, trasportando vestiti e gioielli all’interno di anonime buste per la spesa. Il lusso era un piacere che si permettevano raramente, costrette com’erano a non attirare l’attenzione. Un’impresa difficile nella quale erano coadiuvate da un settore dell’EM. Il gruppo lavorava a tempo pieno per ridurre la circolazione delle informazioni che riguardavano i suoi membri. Ogni giorno venivano passati al setaccio con programmi sofisticati un numero esorbitante di dati. Per l’EM era essenziale ripulire le biblioteche e gli archivi pubblici o privati da ogni forma di documentazione che in qualche modo citava l’una o l’altra delle virtuose ingaggiate nelle proprie fila.

    Il lavoro coinvolgeva tecnici e informatici di prima scelta chiamati candeggiatori poiché uno dei loro compiti storici era stato quello di bianchettare i documenti cartacei delle musiciste, dovunque essi fossero archiviati, in modo da farle risultare meno attempate. Negli ultimi tre anni aggredivano banche dati sparse in giro per il mondo, forzavano server blindati e iniettavano speciali virus pur di cancellare ogni traccia di vita vissuta delle preziose alleate rimasta incastrata nel labirintico oceano del WEB.

    Rebecca aveva sospirato e aveva lanciato un altro sguardo alla foto al centro del tavolinetto, isola colorata nel mare di pizzi candidi e porcellana. Si era versata una tazza di tè che aveva portato alle labbra sorridendo. Per chiunque altro che non fosse lei, la voglia di dominare la situazione e di presidiare a ogni costo la barricata sarebbe potuta sembrare persino ridicola. Avrebbe infatti dovuto sloggiare tra breve, ma per lei, fino all’ultimo istante di permanenza a Belcolle, la villa rappresentava un forte da difendere senza mezze misure. Lo scenario che avrebbe caratterizzato l’era dopo di lei non sarebbe cambiato di una virgola rispetto a quello attuale, con l’eccezione del buco rappresentato dalla scomparsa improvvisa sua e delle sue compagne. Poteva prevedere fin da subito che una volta respinto l’assalto imminente e vinto il confronto con Duilia Liberati, Tina Castelli, l’attuale proprietaria dell’immobile, non avrebbe sospeso i tentativi  di vendita mentre Anselmo Ornelli, il precedente possessore, avrebbe continuato una metodica e squallida esistenza presso il convento delle suore di Belcolle.

    Le favorevoli condizioni di cui godevano loro quattro si sarebbero mantenute a lungo intatte, a vantaggio delle musiciste che le avrebbero sostituite. La nuova comunità avrebbe ricevuto il dono con la prospettiva di godere di un discreto periodo di tranquillità prima del prossimo attacco. Nonostante l’idea la irritasse, Rebecca non sarebbe arretrata di un passo.

    Rebecca aveva osservato di sottecchi le tre donne strette attorno al tavolo. Al contrario di lei, non provavano mai, davvero, il brivido della sfida, non sentivano in bocca il gusto piccante di uno scontro imminente.

    La mise era per loro essenziale affinché ricordassero chi erano state e perché occorresse stringere i ranghi e lottare. Rebecca, invece, aveva costantemente nutrito per sé la medesima stima dei tempi andati semmai accresciuta dalla fama ottenuta all’interno dell’EM. A sua volta adorava coprirsi di stoffe pregiate e adornarsi mentre l’umida dolcezza del tè dirompeva sulla sua lingua arida. Ma solo perché sotto la luce cruda delle lampade a stelo i gioielli splendevano e le regalavano l’illusione che i fuggevoli riflessi la trasfigurassero grazie a una qualche interazione profonda asservita alla sua vanità.

    «Spero che questa volta, Nini, non eviterai di unirti a noi quando daremo una lezione a questa tipa!» aveva osservato Paga con lo sguardo fisso sul viso tirato di Duilia Liberati ritratta di tre quarti.

    Paga non aveva resistito alla tentazione di punzecchiare la sua amica. Non era riuscita a digerire il modo in cui Nini si era comportata durante l’ultimo braccio di ferro, quando aveva dichiarato che non avrebbe preso parte alla seduta speciale a danno di Marco Vele dell’agenzia Venti della multinazionale Lappartamento.

    A quel tempo, dopo aver saltato la sessione menzionata da Paga, Nini si era ritirata in solitudine. Non aveva parlato né visto nessuno per giorni. Rebecca l’aveva lasciata fare. Fino a quel momento le  altre  non  erano  state  in  grado  nemmeno  di  immaginarla  capace  di  un  atto  di  umana comprensione.

    Rebecca

           Intorno ai quarantacinque anni, a Rebecca era stata diagnosticata  una grave perdita del contenuto minerale delle ossa. Aveva consultato numerosi esperti, tutti di fama mondiale. Il loro parere era stato discorde sulle cause della patologia che l’affliggeva ma la diagnosi era stata unanime: sarebbe peggiorata. Che il male fosse dovuto a un mancato assorbimento della vitamina D a livello intestinale oppure a una marcata incapacità di sintetizzarla a livello del fegato o dei reni, poco importava. Il processo era irreversibile e progressivo.

    La sua vita ebbe una svolta all’inizio dell’inverno del 1959, quando di anni ne aveva ormai cinquanta.  Si era imbarcata su una nave da cargo, la Silla, per approdare nel porto di Civitavecchia. Il viaggio che la vecchia imbarcazione aveva dispensato ai suoi pochi passeggeri in partenza da Barcellona non era stato confortevole. Né si poteva pretendere altro visto che nel corso di infinite staffette era stata offesa dal sale e dalla ruggine, dalla maleducazione degli ospiti e dalla sporcizia dell’equipaggio. Non aveva mai avuto propensione a navigare con fluidità neppure durante i suoi anni migliori quando aveva fatto servizio da piroscafo costiero nel mediterraneo occidentale.

    Rebecca aveva sopportato al limite della pazienza i lamenti notturni della caldaia mugugnante, gli scricchiolii del mobilio consumato, lo sciabordio irritante delle onde sullo scafo sverniciato. Poi, finalmente, aveva assistito alle manovre di attracco, ritta sul ponte, troppo emozionata per rimanere rinchiusa in una squallida cabina. I marinai a bordo avevano notato appena la signora piccola e grassoccia che si muoveva avvolta in un pastrano, con un cappuccio sempre abbassato sugli occhi. Nessuno di loro si sarebbe mai sognato di attribuirle una fama planetaria. Solo in dirittura d’arrivo Rebecca aveva osato mostrarsi a capo scoperto, lasciando i corti capelli grigi in balia del vento che faceva cozzare le scialuppe di salvataggio contro il fianco dell’imbarcazione. La consapevolezza dell’ignoranza che l’avrebbe circondata l’aveva persuasa a usare il mezzo male in arnese poiché essa si traduceva nella certezza di passare inosservata e di poter trascorrere indisturbata le ore del tragitto.

    Viaggiare in incognito era un lusso che poteva permettersi solo in condizioni estreme, mescolandosi con persone che non avevano idea di cosa fosse un teatro, un’opera lirica o un concerto. In quegli anni chiunque calcasse o avesse calcato le scene godeva di una notorietà estesa e rischiava di essere importunato su ogni strada o piazza d’Europa da esecutori dilettanti e amatori accaniti.

    Quella volta, tuttavia, Rebecca aveva avuto un motivo ancora più valido della semplice tutela della propria privacy per sopportare le abbondanti esalazioni di carbone del fumaiolo scrostato. C’era in ballo una promessa.

    Tre settimane prima della sua partenza, un uomo aveva fatto ingresso nell’edificio della città della Catalogna dove Rebecca dirigeva un avviato conservatorio privato. Il vecchio e irreprensibile guardiano, Pablito Ores l’aveva introdotto nell’atrio anche se di solito impediva l’accesso a chiunque non figurasse negli elenchi degli iscritti a qualche corso o non fosse il genitore di uno degli studenti.

    Pablito Ores era rimasto avvinto dall’aspetto impeccabile dell’ospite e dalla maniera affabile con cui egli lo aveva salutato al di là del portone d’ingresso. Dopo i soliti convenevoli, questi aveva estratto dalla giacca raffinata un portafogli di pelle con gesti tanto eleganti e con una tale torpida indifferenza che Pablito Ores si era trovato in mano, senza neanche accorgersene, una banconota. Il guardiano aveva soppesato il misterioso visitatore con un’aria confusa, indeciso su come districarsi tra i regolamenti e il desiderio di compiacerlo. Finché aveva ceduto. Il modo dello sconosciuto di ammiccare e sorridere, di avanzare lentamente e inesorabilmente verso la meta pur nel contegnoso rispetto di un’autorità, quella di Pablito Ores, che non pareva assolutamente in discussione, facevano parte di un protocollo troppo collaudato perché un’anima semplice potesse resistere. Così il portiere aveva preso una decisione e creduto ammissibile fare un’eccezione. Aveva permesso l’accesso alla struttura a un estraneo infrangendo uno dei precetti più rigidi della terribile direttrice.

    Rebecca aveva imbastito l’attività senza essere particolarmente motivata all’insegnamento. Il conservatorio le serviva poiché le permetteva di mantenere un contatto poco oneroso con il mondo che era stato il fulcro della sua vita per anni. Lo aveva fondato e seguito con perseveranza anche se, con il trascorrere del tempo, si era resa conto di aver sottovalutato la mediocrità del genere umano nonostante per esso non avesse mai nutrito grosse simpatie. Inizialmente aveva accolto insipide signorine per bene ansiose di imparare a strimpellare qualche nota per esibirsi durante le serate in famiglia. Poi gli iscritti erano divenuti in prevalenza bambini senza alcun talento costretti dai genitori a leggere un pentagramma solo per torturare uno strumento. Quando l’affluenza era aumentata, lei aveva rafforzato il corpo dei docenti alle sue dipendenze fino a schierare in prima linea una decina di pazienti istitutrici. Aveva esercitato il ruolo di preside con fermezza e perspicacia muovendosi come un’ombra sagace tra spartiti e strumenti. Era stata uno dei più grandi direttori d’orchestra di ogni tempo, era uscita di scena acclamata e adorata da critici e appassionati. Gli studenti di ogni età che affollavano il suo istituto la guardavano con ammirazione ed era quello il suo pane quotidiano.

    «La musica è arte e scienza allo stesso tempo!» esclamava ai tempi d’oro, dopo un concerto, durante le interviste che concedeva solo a chi scriveva per le testate di maggior prestigio. A Barcellona, durante il suo forzoso ritiro, evitava di intrattenersi più di tanto con chicchessia e c'era sempre e comunque una parte di angoscia nel suo sguardo come se fosse perseguitata da un problema irrisolto. Le braccia le rimanevano addossate al busto e la postura le conferiva una rigidezza artificiosa. Il suo solido corpo dal baricentro basso aveva perso l’equilibrio, non seguiva più come un tempo il ritmo degli occhi e del respiro. Non afferrava mai niente e in nessun caso, ogni suo spostamento rispondeva a un calcolo perfettamente misurato. La freddezza che ostentava era un buon mezzo per far passare a chiunque la voglia di un qualche contatto fisico risparmiandole parecchie lancinanti strette di mano. Non aveva dovuto impegnarsi molto per raggiungere la perfezione. Le era bastato mettere allo scoperto l’atteggiamento di superba arroganza che aveva assunto da giovanissima, quando era la ragazza prodigio che ammaliava il corpo insegnanti del migliore liceo musicale di Milano e che sprezzava l’ammirazione dell’intera scolaresca. In più, aveva dapprima arricchito il proprio linguaggio di un cinismo saccente per poi ammantarsi di un velo di astratta superiorità cementata da centinaia di tributi spontanei.

    Desiderava sfuggire il più possibile alla realtà a cui era costretta, così limitava ogni suo gesto, sempre.

    Pablito Ores aveva annunciato a Rebecca che c’era qualcuno che voleva parlarle rimanendo ben eretto e con la divisa gallonata tirata a lustro esattamente come piaceva a lei. Prima di accettare, la donna aveva squadrato l’ospite con il visore del citofono interno. Aveva acconsentito per molte ragioni. Perché l’uomo in attesa indossava un completo classico di ottima fattura. Perché non dimostrava più di una quarantina d’anni. Perché era di bell’aspetto, alto e solido con una certa naturale eleganza. Ma soprattutto perché era il tipo di cui avrebbe fatto un boccone fino a cinque anni prima. Aveva sempre riconosciuto di primo acchito gli esseri, di sesso maschile o femminile, la cui alchimia sarebbe risultata perfettamente compatibile alla sua. Verso di essi Rebecca esercitava un’influenza difficilmente arginabile mentre, dal canto loro, essi scatenavano in lei una profusione di emozioni e il desiderio di esercitare un possesso integrale. La menomazione l’aveva convinta ad accantonare la propria sensualità. Si era sentita debole, inadeguata, non più in grado di esercitare il ruolo di preminenza che considerava imprescindibile nel rapporto di coppia. Quando il piccolo schermo in bianco e nero le aveva rimandato il profilo del visitatore aveva concesso a se stessa il lusso di una piccola divagazione. La panoramica invitante insieme alla sua buona predisposizione l’avevano convinta a indugiare sulla prospettiva bidimensionale del monitor. Si era resa accessibile. Aveva accettato di ricevere il visitatore.

    In generale odiava chi si dava da fare per incontrarla, specialmente se le sembrava che affollasse la mischia bassa. Di fronte a uno sconosciuto non riusciva mai a sottrarsi a una specie di obbligo di valutazione. Tutti gli inopportuni che reclamavano un briciolo della sua attenzione finivano per rappresentare un’incognita da svelare risolvendo equazioni che richiedevano lunghi calcoli e uno sforzo di concentrazione dall’esito il più delle volte scontato e deludente. Per soddisfare il desiderio di onniscienza le occorreva campionare con precisione l’inflessione di una voce e seguire come un pennino da elettrocardiogramma la sagoma del paesaggio frastagliato tracciato dal tono sotto esame. Valutava il tempo in cui una parola seguiva l’altra e l’intensità infusa nella pronuncia dei vocaboli. Infine si concentrava per pochi ma intensi minuti e indirizzava i dati ottenuti verso un complesso algoritmo di elaborazione. Le sensazioni che si condensavano attorno ai suoi pensieri le aprivano gli spiragli rivelatori da cui inquadrava nella prospettiva definitiva l’interlocutore. Era come estrarre l’impronta genetica di un ritmo e calibrare su di essa una lente per rilevare i dettagli su cui basare un’efficace introspezione. L’analisi le costava concentrazione ed energia e quest’ultima era sempre più scarsa. Prodigarsi equivaleva ad avvicinare un fiammifero a una tanica di benzina. Oltrepassare un certo limite, la cui soglia si abbassava in continuazione, avrebbe potuto far nascere un incendio. Sforzo dopo sforzo, il suo spirito indagatore aveva finito coll’inchiodarsi sulla tacca rossa della riserva.

    L’uomo a cui Rebecca aveva accordato un rarissimo nullaosta, Luca Terri, aveva costituito l’eccezione a conferma della regola in una miriade di circostanze. La sua affiliazione all’EM ne era la prova eclatante. Era l’unico membro a essere entrato nel circolo dei magnati della cupola pur essendo lontanissimo dalla soglia minima dei sessantacinque anni.

    «Lei è una delle donne più talentuose che io abbia mai incontrato», le aveva detto affabile dopo essersi accomodato nel suo inaccessibile studio. Rebecca lo aveva guardato sospettosa sebbene fosse avida di complimenti visto che in cuor suo giudicava di meritarli. Tuttavia non poteva ignorare che difficilmente il bell’uomo che le era di fronte con la sua ventiquattrore di prestigio si sarebbe dato tanto da fare solo per elogiarla. In passato, quando era in auge, episodi del genere erano stati all’ordine del giorno ma da tempo si era sforzata di rimanere in incognito e il filtro che aveva messo tra sé e la sua precedente esistenza aveva funzionato. Non desiderava affatto, ora, inciampare in una radice affiorante su un terreno bonificato distratta dal ricordo di un antico brivido. Spinse sotto il tavolo le mani. Nel caso in cui le sue dita si fossero flesse per un moto inconsulto, nessuno avrebbe potuto mettere in relazione la smorfia di dolore con una causa tanto banale.

    «So che ha problemi di artrosi alle mani.»

    Rebecca aveva sussultato come se avesse ricevuto una scudisciata. Nonostante tutti i suoi sensi fossero all’erta, non era preparata a ricevere un urto tanto duro. Il suo ferreo autocontrollo la aiutò a ingoiare il boccone amaro. Rimase immobile, con la schiena ben eretta come se intorno ci fosse il pubblico delle grandi serate di gala, decisa a dominare il sentimento di attrazione e repulsione che la divideva.

    Luca Terri rimase sconcertato da una simile reazione. Aveva creduto di incrinare il baluardo difensivo della direttrice tirandole una bordata invece aveva avuto l’impressione imprevista di colpire un muro di gomma. La delusione gli smorzò le parole in gola. Solo dopo qualche istante riuscì a tornare in rotta e a proseguire col canovaccio che aveva preparato.

    «Sono qui per offrirle di guarire e tornare a dirigere sebbene per un pubblico estremamente ristretto.»

           Rebecca ghignò. Poteva darsi che la stesse prendendo in giro per pura vanità. Oppure voleva semplicemente includerla in qualche progetto sperimentale che le avrebbe richiesto un cospicuo esborso. Decise di temporeggiare. Decise che si stava divertendo e che si sarebbe divertita ancora di più sentendo articolare i dettagli di una simile proposta tanto più che aveva dato il via a una delle sue analisi.

    Fin dai primi istanti aveva trovato piacevole sia il timbro sia il colore della voce maschile che aveva udito. Ondate di nostalgia, dolci e amare allo stesso tempo, avevano pervaso il suo corpo costretto a un rigore forzato che non si sarebbe mai davvero adattato a un’indole passionale. Le fitte non avevano nulla a che fare con i dolori lancinanti che le trafiggevano le mani, erano l’espressione di un desiderio mai assopito che nel passato non era stato mai sazio. Cristalli di ghiaccio acuminati presero a trafiggerle le falangi mentre una vampata di bruciante passione le attraversò lo sguardo pungente. Luca Terri si agitò sulla sedia. Sentiva insorgere un richiamo primordiale che minava le sue sicurezze e che apriva baratri di sconcerto nella sua mente. Si disse che non poteva accadere veramente a lui, non adesso, non lì, assolutamente non per quella donna attempata e arcigna. Sbatté gli occhi smarrito. La signora grassoccia che aveva avuto innanzi fino ad allora si dissolveva rapidamente, la sua figura assumeva contorni sfumati che lasciavano spazio all’immaginazione. Cercò di controllarsi, di imbrigliare i pensieri, distolse lo sguardo tossicchiando nervoso, puntandolo sulle proprie ginocchia. Si accorse di respirare con ritmo sostenuto e che i battiti del suo cuore si erano fatti più intensi. Se non fosse stata una persona razionale avrebbe dato la colpa a un incantesimo. Ma non si trattava di magia, era questione di pura attrazione. Era troppo esperto in materia per non saper classificare l’inquietudine che gli cresceva dentro, per non sentire il ritmo con cui si dilatava e si accresceva con l’apporto di componenti sempre più intense. Aspettò paziente che la smania evaporasse, poi sollevò di nuovo gli occhi su di lei. Con sollievo si trovò davanti la stessa donna grassoccia dalla corta zazzera grigia che aveva inquadrato al suo ingresso nella stanza. Gli parve di cogliere una nota di disappunto sul viso sfiorito ma evitò di concentrarsi su di lei. Aveva un compito da portare a termine e non lo avrebbe assolto cadendo nella rete da cui si era appena divincolato.

    Poi, però, sarebbe interessante lasciarsi andare! si disse mordicchiando il labbro inferiore.

    Rebecca non era mai stata una bellezza. Non aveva goduto di una gradevolezza discreta neanche negli anni della prima giovinezza e neanche quando sul suo volto aveva brillato il riflesso trasfigurante di una fama internazionale. Ma ciò non l’aveva mai turbata. Era stata sicura di sé, soddisfatta della propria figura rubiconda, del viso tondo, degli occhi piccoli e ravvicinati di uno scialbo verde pisello. L’esistenza di Rebecca era stata costellata da tre mariti e altrettanti divorzi nonché da innumerevoli amanti consumati in brevi e brucianti relazioni in cui aveva predominato. Aveva sempre pensato alla sua vita sentimentale come a un’appendice di rilievo e rifletterci sopra stimolava in lei un certo orgoglio mascolino. Aveva recepito il riflesso del piacere magnetico che aveva pervaso il suo ospite con un’ingordigia persino maggiore di quanto era in grado di ricordare che le fosse mai accaduto in passato. Si era stupita del modo deciso in cui egli era riuscito a interrompere il circuito ma poi aveva considerato con maligna perversione che, se avesse voluto, avrebbe saputo riaccenderne la voluttà. Troppa parsimonia negli ingredienti, con una leggera correzione della formula non avrebbe scampo! aveva pensato provando un piacere squisito.

    «Dovrà vivere nella località che le verrà indicata per acquisire e mantenere i benefici che le prometto. Dovrà accettare di impegnarsi a perseguire gli scopi dell’EM, l’organizzazione che rappresento» riprese Luca Terri dopo essersi riempito d’aria i polmoni.

    «Esattamente quali scopi?» incalzò.

    «Sottoporsi a continui controlli medici in un ambulatorio. I dati ricavati verranno spediti con continuità a scienziati che li impiegheranno in studi ed esperimenti.»

    «Cosa le fa credere che otterrei un sollievo?» aveva continuato dandogli spago. Il discorso aveva preso una piega strana e qualcosa dentro di lei lo giudicava d’un tratto interessante. Con decisione soppresse sul nascere una nuova ondata di eccitazione. Per induzione essa si sarebbe trasmessa fino a lui mentre ora l’uomo le serviva lucido e coerente. Poi, quale che fosse stata l’evoluzione  di  quella  chiacchierata,  sarebbe  stato  un  peccato  non  approfittare  di  un  dono inaspettato nonostante le circostanze lo rendessero un frutto dolorosamente proibito a meno… a meno di usare l’ultima dose di un potente antidolorifico che agiva localmente. Si era ripromessa di usarla solo in caso di necessità estrema ma quella che andava profilandosi, dopotutto, poteva esserlo.

    «Il programma è attivo con successo da anni perché sappiamo scegliere chi è adatto a farne parte.»

    Quell’ultima frase ebbe una valenza potente. Sulla sua scia Rebecca concluse la sua analisi. Dopo la ricezione di un buon numero di armoniche, gli strumenti cognitivi in cui riponeva da sempre la massima fiducia le suggerirono che l’ospite era sincero. Seppure si fosse trattato di una proposta marcia, egli la stava proponendo in buona fede e di certo non era un ingenuo. Tuttavia non riusciva a figurarsi come la promessa potesse essere mantenuta.

    Luca Terri le concesse qualche istante per riflettere. Allungò le lunghe gambe, poi fu invaso da una soddisfazione che andava al di là di ogni aspettativa. L’interesse che aveva per Rebecca si era accresciuto a ogni istante. Al pensiero che potesse far parte della sua vita gli si seccò la gola e di nuovo fu costretto a distogliere lo sguardo da lei. Indugiò sulle lampade a  stelo, sugli  arazzi  pregiati  alle  pareti,  sulla  grande  credenza  antica  che  aveva  di  lato,  sul lampadario di cristallo, sull’angolo intimo formato da un divano di pelle e da due grosse poltrone. Cercò di richiamare alla memoria il viso delle donne con cui aveva avuto relazioni intense e durature o fuggevoli e appassionate ma non ci riuscì. Aveva speso molto nella preparazione di quell’incontro. L’EM, in previsione di un’affiliazione, aveva da tempo iniziato a intercettare ogni pezzo della discografia di Rebecca e si era impossessata delle relative matrici in modo più o meno legale. Il materiale era sparito dalla circolazione ma era disponibile per i suoi speciali emissari. Così Luca Terri aveva passato in rivista decine di riviste, ascoltato dischi. Infine aveva creduto di essersi fatta un’idea precisa del suo obiettivo. Rebecca era una pantera, una fiera che non andava vezzeggiata e che non era possibile domare con la dolcezza. Eppure solo ora si rendeva conto di come, nonostante tutto, ne avesse sottodimensionato l’incredibile forza animale. La malattia le aveva imposto una specie di volontaria cattività ma non ne aveva intaccato le caratteristiche di base. Affrontarla nella sua tana ne aveva moltiplicato l’agilità e l’arguzia. Luca Terri strinse i pugni, doveva portare a termine la missione, doveva dirle tutto senza divagare. Ed era difficile. Persino l’aria della stanza gli pareva impregnata di lei. La fisicità di Rebecca aveva l’effetto di una droga.

    «Se poi riuscirà a creare le condizioni opportune, non solo il suo corpo trarrà benefici ma avrà compagnia. L’ideale sarebbe circondarla di tre violiniste eccellenti tra quelle listate dalla mia associazione in un elenco di prima scelta. Lei ne diverrebbe il capo.»

    «Quali condizioni?» aveva osservato Rebecca suadente ma il suo tono non aveva avuto nulla di sdolcinato anzi, era stato teso per tenere l’ospite in prospettiva gerarchica. Prima ancora di ricevere la risposta sorrise soddisfatta. La pienezza di sé che andava crescendo e l’inebriante guizzo di reminiscenza della sua altra vita, solleticavano il suo orgoglio e i suoi sensi.

    «Le sarà spiegato dopo che avrà accettato la proposta» aveva glissato. Rebecca rimase in sospeso per una manciata di secondi durante i quali egli cercò di fissarla senza agitarsi troppo, timoroso di caderne di nuovo vittima.

    C’erano delle condizioni, dunque. Dove e come vivere erano stabiliti a priori. Ma a Rebecca era stata ventilata una possibilità. La sua esistenza avrebbe potuto riprendere quota. Luca Terri lo credeva fermamente e aveva l’aria di sapere esattamente di cosa stesse parlando. Non le aveva assicurato solo uno stato psicofisico migliore se avesse accettato. Le aveva garantito una sorta di eternità. E poi c’era l’allusione alla sua capacità di destreggiarsi che avrebbe potuto fruttarle anche una compagnia di livello.

    Rebecca estrasse da un cassetto della scrivania una fiala e una siringa.

    Per la prima volta Luca Terri vide le mani della donna in primo piano. Un singulto lo attraversò veloce scotendolo dai piedi fino alle scapole. Gli era capitato solo in un’occasione, nello studio di un mediocre fotografo di stelline. Le sue costose scarpe di pelle avevano sfregato una moquette sintetica producendo una scossa elettrica che lo aveva paralizzato per un istante infinito.

    «Metà dose per polso e non mi daranno più fastidio per mezz’ora!» gli aveva detto invitandolo a fare l’iniezione. Si era alzato di scatto.

    «Però non potrò usarle, saranno totalmente addormentate» aveva aggiunto mentre Luca Terri aspirava con l’ago il contenuto della boccetta.

    «Non importa» aveva risposto.

    Dopo una settimana Rebecca aveva accettato spedendo una semplice email. Cosa aveva da perdere? Al peggio avrebbe fatto marcia indietro.

    Duilia incontra Gemmino

    Duilia aveva conosciuto Gemmino durante una delle tante serate passate con se stessa nell’intimità dell’agenzia Trentasette. Persa nei suoi pensieri, era trasalita al suono del citofono. Aveva finito per urtare goffamente il fascicolo in precario equilibrio sulla scrivania. L’involucro si era aperto come le ali di un uccello in planata per poi schiantarsi sul granito del pavimento dello studio e disseminare in giro una valanga di fotografie e fogli di appunti. Duilia aveva fatto spallucce. Tra i battenti scostati aveva intravisto un ragazzo pallido sotto la luce giallognola delle plafoniere che illuminavano il pianerottolo.

    «Sono qui per l’inserzione» le aveva detto con apprensione attraverso il portoncino semiaperto.

    Dulia aveva annuito. Aveva fatto pubblicare lei il trafiletto sul Corriere del Lazio per annunciare che l’agenzia Trentasette della catena Lappartamento aveva intenzione di reclutare una segretaria.

    Duilia aveva sentito il calore dello sguardo del ragazzo mentre una corrente d’aria gelida si era insinuata nell’agio tra i battenti facendole drizzare la peluria sugli avambracci scoperti. Sotto la giacca a vento del visitatore aveva scorto calzoni scuri, giacca nera e dolcevita grigio. Sarebbe potuto passare quasi per un pretino se avesse sfoggiato il caratteristico inserto di plastica bianca in una fessura del colletto della camicia.

    Avrebbe potuto dirgli di tornare l’indomani durante il normale orario d’ufficio. Non lo aveva fatto perché il ragazzo aveva accennato all’annuncio a cui fino a quel momento avevano risposto sempre solo donne.

       «Entri pure!» aveva esclamato spalancando la porta a lui e a un mare di utopiche possibilità. «Duilia» disse semplicemente mentre gli si accomodava accanto tendendo la destra.

      «Gemmino» le rispose stringendola.

    Le collaboratrici in genere duravano poco. Chi si sentiva in qualche modo legata a Emilio, e molte delle signorine che avevano abbandonato la Trentasette lo erano state fin troppo, trovava spesso degli ottimi spunti per uscire fuori di testa e mollare il lavoro. Duilia poteva procurarsi una piccola rivincita su suo marito costringendolo ad accettare un collaboratore invece di una collaboratrice. Avvertì lo scoccare di una scintilla e si sentì come un continente coperto di ghiaccio da migliaia di anni improvvisamente sull’orlo di una rivoluzione geofisica.

    «Sai davvero battere a macchina e stenografare?» gli chiese alludendo a un passo evidenziato sul foglio che le aveva steso con un certo pudore.

    «Abbastanza.» Abbastanza poteva non essere sufficiente. Il  candidato doveva avere tutte le carte in regola perché partiva nei   confronti del suo socio con un notevole svantaggio. «So anche giocare  a scacchi» aveva aggiunto indicando la rivista tematica che spuntava  tra i giornali di moda e di cucina ammonticchiati su un tavolinetto a  beneficio dei clienti in attesa.

    Probabilmente egli aveva immaginato che qualcuno avrebbe ritirato la sua domanda di assunzione in modo asettico, liquidandolo con un rapido le faremo sapere. Invece si era trovato innanzi a una signora piacente di mezza età che lo guardava come avrebbe fatto un gatto con un topo. Soddisfatta, gli aveva comunicato il giorno del colloquio e l’aveva guidato fino all’uscio.

    Si era soffermata ad ascoltare i passi che scendevano le scale. Aveva accostato la battuta lentamente mentre sentiva forte in sé l’urgenza di voler decidere il destino di una persona, di quella persona. E ribadire di conseguenza di essere totalmente padrona del proprio.

    Quando Duilia stabilì di far entrare Gemmino nella sua vita, Emilio le appariva all’apice della propria maturità, con un gradevole aspetto da attore hollywoodiano anni cinquanta. Duilia trovava che la recente comparsa delle prime ciocche bianche, più fitte lungo le basette, lo avesse reso persino più affascinante. Ma la caratteristica peculiare di suo marito erano gli occhi profondi e di un intenso blu oltremare. La scelta della segretaria aveva costituito fino ad allora un esclusivo territorio di caccia del capufficio. Per questo aveva calcolato che Emilio non si sarebbe dimostrato molto entusiasta della candidatura di Gemmino.

    Emilio aveva osservato il ragazzo stenografare, scrivere a macchina, archiviare e rispondere al telefono mantenendo una calma esemplare. Si era comportato esattamente come avrebbe fatto un qualsiasi giudice supremo prima di pronunciare un onesto giudizio finale sebbene avesse deciso fin dal primo istante che verdetto avrebbe emesso di lì a un quarto d’ora. Tuttavia, messo con le spalle al muro davanti a un’evidenza schiacciante, Emilio era rimasto a corto di scuse ragionevoli. Così, a partire dal primo marzo di quell’anno, Gemmino aveva iniziato a timbrare il cartellino e a duellare con Duilia tenendo accanto una piccola scacchiera richiudibile. Il più delle volte le loro partite finivano alla pari ma solo perché Duilia riservava più energie agli scontri che disputava con suo marito. Gemmino era un buon giocatore, difettava soltanto di concentrazione. Amava sacrificare i pezzi nell’attesa di piazzare la mossa decisiva, solo che, nella lungaggine degli incontri, scordava il piano che aveva elaborato.

    Da quando il ragazzo era entrato nella squadra, Duilia si era dedicata con maggiore impegno alle attività dell’agenzia. Emilio, invece, aveva preso la pessima abitudine di tamburellare a lungo con le unghie sul piano della sua scrivania con lo sguardo fisso sull’interfono. Duilia comprendeva quanto si sentisse imbarazzato, ma non aveva abbassato la guardia e i suoi occhi verdi avevano continuato a scrutarlo, implacabili, indicando che c’era solo un’inutile vacuità nella sua protesta silenziosa.

    Duilia aveva messo a disposizione del ragazzo la scrivania piazzata a lato del portone d’ingresso della sala d’aspetto.

    «Prova la postazione!» gli aveva detto il primo giorno di lavoro.

    Gemmino si era accomodato sulla sedia girevole, aveva allungato con discrezione la mano verso il mouse.

    «Buon segno» pensò Duilia osservando come ogni cosa paresse già calibrata su di lui. L’altezza della seduta, l’angolazione del tappetino, persino l’inclinazione della piccola lampada da tavolo.

    La percezione di Gemmino

    «Grazie per essere accorso!» aveva detto Duilia a Gemmino con lo sguardo fisso su villa Tornaboni. «Facciamo un giro?» Il ragazzo aveva accettato senza molto entusiasmo. Mossero all’unisono i primi passi sui ciottoli del vialetto e avanzarono verso l’interno del parco. Erano ormai passate le sei del pomeriggio, il sole iniziava a calare in un principio di crepuscolo dove il celeste si trasformava in viola e i raggi del sole si addensavano in oro liquido. Duilia si stupì innanzi a un leggero movimento della frangia di Gemmino. Continuò ad avanzare guardandosi intorno alla ricerca della siepe o del muretto che influiva sul gioco delle correnti impedendole di percepire la brezza. Il ragazzo aveva mantenuto lo sguardo sul sentiero che serpeggiava tra i cespugli di lavanda in direzione del portico. Duilia avrebbe voluto aiutarlo a rimuovere il grumo che gli pesava sull’animo ma nello stesso tempo non osava forzare la mano. Sapeva quanto egli fosse geloso della propria intimità e restio ad aprirsi. Si dibatteva tra i dubbi nel timore di prendere iniziative sbagliate quando osservò la camicia di Gemmino incresparsi  mentre lei, di nuovo, non percepiva la carezza d’aria che di riflesso si era preparata a ricevere. Si era arrestata e aveva fissato il ragazzo ma egli aveva interpretato la manovra come un tentativo di aprire una conversazione sulla sua recente ferita:

    «Non mi sento di parlarne ora…» aveva sussurrato con tono deciso nonostante fosse timido per natura. Duilia non aveva insistito. Dopotutto lui le aveva dischiuso le porte del suo animo in un momento di sconfortante debolezza ma non le aveva dato il permesso di fare tutte le incursioni che desiderava. La reazione spontanea l’aveva tranquillizzata, ancora. Era stanca e bisognosa di riposo a sua volta. Annuì scuotendo la testa mentre la voce di Emilio giungeva distinta fino a loro.

    …la cucina è opera di un falegname di Belcolle in Sabina, in legno di ciliegio, scelto per il colore caldo e per il profumo.

    Emilio ce la stava mettendo tutta, in ballo c’erano parecchi soldi di commissione. Ma non solo. Riuscire nella vendita avrebbe rappresentato un punto d’onore per l’agenzia: dall’incartamento allegato alla pratica risultava che l’immobile era rimasto sul mercato per mesi. Dulia aveva ripreso a passeggiare quando il corpo di Gemmino fu scosso da un brivido. Il ragazzo impallidì mentre una foschia leggera saliva tremolante nei suoi occhi e in essa, lentamente, le iridi scure  parvero annegare come risucchiate in una nebbia densa. Nel giro di pochi secondi le sue gambe presero a tremare. Duilia lo aveva guardato incredula. Era impossibile non ammettere, ormai, che nell’aria ci fosse qualcosa di insolito. Sorresse il ragazzo afferrandogli un braccio.

    «Gemmino…» sussurrò tastando nel vuoto delle certezze, alla ricerca di una direzione. Cercò di formulare un’ipotesi plausibile su quanto stava accadendo, un evento che il suo istinto giudicava improbabile ma che il ragazzo subiva invece con assoluta pienezza. Il nailon della giacca di lui aderiva alle braccia scoperte di Duilia come una seconda pelle mentre un acuto odore di sudore le aggrediva le narici trasmettendole un messaggio. Finalmente avvertì di nuovo la tensione dei muscoli del ragazzo che si drizzò, seppure faticosamente.

    «Ho visto qualcosa…» farfugliò.

    «Che intendi?» gli domandò con dolcezza.

    «Non mi crederesti mai» sussurrò senza staccarsi da lei.

    «Mettimi alla prova» ribatté decisa continuando a sostenerlo. Era da quella mattina che sapeva che qualcosa di straordinario sarebbe successo. La mattina in cui aveva perso il suo passato. Non sapeva come né quando, sapeva solo che un giorno sarebbe accaduto così come Madame Rossigni, molti anni fa, le aveva anticipato.

    C’era stato un tempo in cui un oroscopo formulato da una famosa medium, Madame Rossigni, aveva previsto un evento straordinario nel suo futuro. Secondo il vaticinio, esso l’avrebbe investita travolgendola e imprimendo una svolta inaspettata alla sua vita. Così Duilia, allora ragazza ventitreenne, aveva trascorso diversi mesi cercando di rintracciare in ogni fatto, anche nel più banale, i germi dello sviluppo che avrebbe influito prepotentemente, erano parole della veggente, sulla sua esistenza. Con il passare degli anni le aspettative legate alla profezia si erano ridimensionate fino a quando sulla soglia della mezza età, esse avevano assunto la consistenza di una promessa quasi del tutto dimenticata. Racchiuse in un limbo, le tensioni più antiche non si erano tuttavia dissolte ma avevano preso a vagare leggere, spuntando di tanto in tanto nello scorcio di un sogno o nel fugace scintillio di una goccia di pioggia. Duilia aveva preso a rimpiangere il tempo in cui a ogni risveglio aveva avvertito scorrerle dentro staffilate di pura energia. Quando in ogni istante aveva colto nel riflesso del proprio volto l’aspettativa che fosse proprio quello l’inizio della fase più interessante della sua vita. Se avesse potuto, avrebbe cancellato il momento in cui aveva deciso di fare a meno dell’emozione legata all’attesa della grande occasione. Era stato allora che aveva permesso a un’inquietante rassegnazione di scalzare l’indefinita tensione che aveva alimentato ogni suo gesto. Era stato allora che aveva smesso di pretendere che accadesse qualcosa di magico col risultato di rimanere sommersa dal vuoto. Eppure il destino non era stato avaro di soddisfazioni e spesso, con maggiore frequenza negli anni della maturità piuttosto che nel passato, Duilia aveva sorpreso su di sé lo sguardo invidioso delle sue amiche o presunte tali.

    Sulla scia delle parole di Madame Rossigni, aveva nutrito a lungo l’illusione di poter sfiorare un orizzonte fatato ma non c’era mai riuscita. Non c’era mai stato nulla di particolare per lei al di fuori dell’incontro stesso con Madame o prima ancora, del ruggito improvviso di un istinto animale che, scuotendola, una volta le aveva permesso di evitare un albero in caduta libera. Ora era invece assolutamente sicura di aver assistito a qualcosa di speciale. Mentre il cuore le batteva a precipizio, con Gemmino che era poco più di una sagoma di busso, si spinse ad agire per non perdere quell’unica opportunità. Desiderava possedere l’incantesimo che aveva soggiogato Gemmino. Nella sua coscienza, i termini straordinario e potente, unici accenni di Madame a essere sopravvissuti in qualche modo all’usura del tempo, riacquistarono parte del loro antico smalto. Come boe solitarie in un mare che gli anni trascorsi avevano reso troppo profondo per essere navigato, si accostarono alla riva sciabordando.

    «Io e Gemmino andiamo in paese!» urlò a Emilio di cui vedeva le spalle incorniciate dal davanzale della cucina a piano terra. Da lui le arrivò un mugugno incomprensibile a cui diede un’interpretazione di massima e di cui non le importava nulla.

    «Torna a Roma con la macchina di Gemmino. Ho visto le chiavi nel quadro» gridò di rimando avviandosi verso il cancello principale. Il suo tono era stato talmente perentorio da indurre l’avvocato Gamazza ad affacciarsi con lo sguardo aggrottato e stupito sotto la falda curiosamente sollevata del cappello.

    Gemmino si lasciava condurre. Aveva bisogno di affidarsi a qualcuno e lei aveva inalato la miscela salata e leggermente acre dell’umore scaturito dalla sua pelle nel momento più oscuro della sua coscienza e aveva rappresentato l’unico appiglio a cui afferrarsi quando era divenuto una specie di fantasma. Duilia era un sentiero da seguire per farsi largo nel caleidoscopio di luci e colori che l’aveva aggredito al riemergere dall’abisso che l’aveva ingoiato.

    In realtà Duilia aveva fatto molto di più. Aveva rivisto la gerarchia delle priorità e aveva lasciato spazio alle figure in lunga attesa dietro le quinte della sua reminiscenza. In tarda serata si sarebbe interrogata a lungo sulla sequenza straordinaria di cui era stata testimone. A ogni mandata avrebbe concluso che a permetterle di far fronte all’urgenza era l’affinità che aveva sentito da sempre fra sé e Gemmino. Poi c’era la condivisione di sentimenti quali la coscienza della paura, della solitudine e dell’abbandono. Non ultima li legava in modo indissolubile la voce che durante la visita era aleggiata ora più vicina e ora più lontana.

    Perché Duilia al primo accenno della rottura con Fabia aveva compreso come Gemmino avesse deciso di non lottare per lei quando il sentimento verso Emilio era diventato troppo intenso. Si era costretto a scegliere e non era riuscito a rinunciare al un sogno proibito prendendo atto della propria trasformazione in un egoista pronto a sacrificare qualunque affetto per un anelito impossibile.

    La cresta inspessita dal tempo sotto cui palpitava ancora la ragazza in attesa dell’accadimento straordinario andava frantumandosi come vetro.

    II - La Prima Visione

    Il tragitto verso la Pensione

    In macchina Gemmino era caduto nel torpore, la testa ciondoloni e il corpo ancorato al sedile della vettura dalla cintura di sicurezza. Duilia non aveva ancora idea di cosa avesse passato veramente, di quanto del suo vigore fosse

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