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Il vino nel mondo antico: Archeologia e cultura di una bevanda speciale
Il vino nel mondo antico: Archeologia e cultura di una bevanda speciale
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E-book644 pagine4 ore

Il vino nel mondo antico: Archeologia e cultura di una bevanda speciale

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In un libro denso di nozioni, di documenti e di analisi talmente particolareggiate da trasformare anche le più piccole tracce, come i vinaccioli ed altri microscopici resti archeobotanici, in spiragli pertinenti e carichi di prospettiva storica, si ricostruisce la storia dell’invenzione del vino, la sua evoluzione e la sua funzione sociale negli usi delle grandi civiltà antiche, dagli esordi nel Vicino Oriente fino al mondo ellenico, etrusco e romano. Il vino, sostanza preziosa e da sempre conservata con cura, ma anche effimera e volatile sul piano organico, è un reperto archeologico molto raro. Tuttavia se ne hanno riscontri oggettivi in numerosi ambiti dell’antichità: dal percorso di domesticazione della vite ai progressi agronomici ed enologici, dalla storia dei commerci alla progettazione dei vasi vinari, dai corredi potori agli accessori di servizio, dai contesti conviviali alle celebrazioni funerarie. Seguendo il filo di queste tracce multiformi, Il vino nel mondo antico disegna un panorama dettagliato che coinvolge le competenze dell’archeologo, che potrà confrontarsi con deduzioni originali e innovative sulla realtà di un’autoctonia italica della vitivinicoltura o sulla liceità del bere per le donne etrusche; quelle dell’enologo, che vedrà descritta la vinificazione antica e troverà ricomposta la molteplice fenomenologia artigianale dei recipienti da trasporto, conservazione e invecchiamento; la curiosità del degustatore appassionato del “bere bene”, che potrà scoprire le tradizioni raffinate del simposio e del convivio, in quali locali pubblici si poteva consumare il vino e con quali sostanze veniva corretto e diluito, non soltanto per ragioni organolettiche. Il libro, anche grazie a un apparato di illustrazioni di rara ricchezza e vastità, mostra la dimensione conviviale delle diverse culture del vino, con un’articolata definizione del fenomeno, sia come prodotto del genio alimentare umano, sia come bevanda portatrice di valori etici, di slanci edonistici e di risvolti spirituali, questi ultimi legati soprattutto all’immaginario della religiosità sepolcrale fra ammonitori scheletri libanti e suggestivi epitaffi funebri. Questa indagine enoica a tutto campo, in cui lo studio delle identità culturali e delle testimonianze letterarie è sempre connesso all'esame degli aspetti concreti, si caratterizza non solo per il potenziale scientifico e divulgativo, ma soprattutto per la forza di un grande racconto dell'umanità che, attraverso la cultura del vino, ci offre uno spaccato di vita dei popoli antichi. Una cultura, ecumenica, universale, eppure diversa in ogni luogo, e che ovunque trova nel dionisiaco nettare e nei gesti del bere una precisa e concreta corrispondenza che sostanzia in modo profondo l'humus delle genti e dei territori.
LinguaItaliano
Data di uscita17 nov 2014
ISBN9788870006476
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    Anteprima del libro

    Il vino nel mondo antico - Stefano de’ Siena

    Note

    1.  Introduzione

    1.1  Aspetti dell’archeologia del vino

    La domesticazione e la diversificazione della vite, gli adattamenti pedoclimatici e geomorfologici, la messa a punto delle tecniche di vinificazione e il loro continuo miglioramento, l’affinamento qualitativo, la conoscenza delle problematiche dell’invecchiamento e la loro padronanza, la straordinaria varietà di gusti ed aromi, come del resto i vorticosi commerci, a scale differenti, le lotte politiche ed economiche, e finanche le conquiste civili e le affermazioni sociali, sono solo alcuni degli aspetti che emergono occupandosi del vino nel mondo antico; ancora senza entrare nello specifico delle pratiche potorie, dei modi, dei gesti e delle consuetudini del bere.

    Spostando l’attenzione sul consumo, infatti, i fronti d’indagine si aprono ulteriormente coinvolgendo gli ambienti e gli apparati accessori in una panoramica che include la sfera residenziale privata, gli spazi pubblici e, naturalmente, i luoghi del culto. La prospettiva materiale, tuttavia, che non esaurisce la disponibilità di spunti e approfondimenti in questa lunga carrellata, certamente non esaustiva, è a sua volta componente e riflesso dell’idealità del vino. In questa direzione, il ventaglio di significati e di simbologie appartenenti al mondo enoico diviene sterminato, manifestandosi compiutamente nelle relazioni terrene come in quelle con le divinità, nelle espressioni artistiche figurate e in quelle squisitamente letterarie, nelle fonti epigrafiche, nel teatro e nella filosofia. Con queste premesse, risulta abbastanza evidente, e a tratti vagamente frustrante, l’impossibilità di afferrare compiutamente la pienezza delle sue molteplici sfaccettature da un’unica prospettiva.

    Il vino è la sintesi di una tra le espressioni culturali più profonde e complesse del mondo antico: totalmente insito nel nostro passato, come del resto straordinariamente presente e vitale nella modernità e nella contemporaneità, ne condensa la grande articolazione, la magmatica eterogeneità di fondo e per molti aspetti ne concretizza il pensiero. Fortemente radicato nella sensibilità e nella percezione collettiva, profondamente imbevute di formazione enoica, risulta una componente fondamentale e imprescindibile della vita quotidiana e dell’idealità, perpetuando ancor oggi il suo millenario ed emblematico ruolo. Tutto ciò avviene naturalmente, in qualche modo senza neppure emergere dalle nostre coscienze, in maniera assolutamente spontanea e con un’accezione tutta particolare per quanto riguarda le genti mediterranee.

    Il concetto di cultura del vino, così poliedrico e ricco di prospettive e sfumature particolari, talvolta anche difficilmente inquadrabili da un punto di vista complessivo, è divenuto ampiamente circolante ed è stato metabolizzato al punto che considerazioni di questa natura possono a volte apparire scontate. L’approccio alla bevanda è divenuto col tempo così istintivo e immediato che le riflessioni sulla sua vera essenza raramente accompagnano il gesto quotidiano o occasionale del bere. L’azione corporea e l’esperienza sensoriale di assumere vino si risolvono in un atteggiamento mentale consolidato, che è entrato da tempo nella sfera dei comportamenti umani abituali, senza la necessità di dover ricorrere ad articolate spiegazioni etiche o a complicati e alchemici ragionamenti sociologici e filosofici. Semplicemente ne siamo, chi più chi meno, perfettamente consapevoli e ci accostiamo ormai al vino con un agio che sfiora la sufficienza, con la stessa informalità e libertà che riserviamo a certe relazioni personali consolidate, per le quali non è necessario attenersi a rigide etichette o a particolari sforzi comunicativi. Osservare come tale inclinazione sia il riflesso dei retaggi del nostro percorso storico è probabilmente un’altra delle varie ovvietà in cui si può facilmente incorrere. Eppure, all’origine di questa estrema confidenzialità non può esservi che l’atavica e felice relazione tra l’uomo e il vino, un legame dai risvolti evidentemente indelebili e in perenne evoluzione, fin dal suo lontano e nebuloso esordio.

    Il vino è il compendio materico e finale di qualcosa di molto più vasto, che travalica le singole espressioni, le consuetudini e le abitudini soggettive per incarnare l’essenza profonda della nostra cultura e della nostra storia. Ad alcuni millenni di distanza dal suo concepimento e dalla sua creazione, riconosciamo alla bevanda, che ancora definiamo tranquillamente di Bacco, una somma di significati e una pregnanza di presupposti e premesse che raramente trovano riscontri in altre espressioni della civiltà e forse mai, tutte assieme, in altri prodotti partoriti dal genio umano.

    Dietro al vino c’è la sublimazione del rapporto con il territorio ed il paesaggio, innanzitutto, sia dal punto di vista dell’appartenenza e del radicamento che da quello, altrettanto stimolante, del suo attraversamento e della sua trasformazione, della mobilità e della circolazione degli uomini e delle idee.

    Un retroterra fatto dell’ancestrale vincolo tra l’uomo e la natura, dunque, ma altrettanto leggibili e paradigmatiche sono le sue valenze strettamente sociali, esplicitate nel mondo antico da una serie di manifestazioni cerimoniali e rituali, tanto nell’ambito delle relazioni civili quanto in quello religioso. Il vino circola tra gli uomini e spesso sovrintende ai loro rapporti, in contesti elitari inizialmente, poi a un livello sempre più diffuso, a un certo punto massificato. Il consumo e l’utilizzo in ambito sacro, invece, riflettendo principi di solidarietà ancora molto mondani, concretizza idealmente le relazioni divine trasferendo su un piano metafisico la convivialità terrena e rivelando una possente funzione simbolica. Fonte di un’ebbrezza in qualche modo diversa e peculiare, più accessibile e meno impegnativa rispetto alle sostanze conosciute e assunte tradizionalmente per riti sciamanici ed affini, il vino rivestì presto un ruolo chiave nel superamento degli schematismi quotidiani favorendo una sorta di avvicinamento diretto a dio, fino ad estrinsecarsi in un vero e proprio contatto.

    Per queste ragioni fu percepito a lungo come strettamente connesso alla spiritualità e alla conoscenza e la componente terrena, certamente determinante, si coniugò in maniera del tutto naturale anche a valori mediatici decisamente più esoterici. Sarebbe tuttavia fuorviante attribuire al vino un valore primordiale assoluto ricalcandolo sulla sua indiscutibile valenza di evocazione della sacralità divina. La religione antica infatti, a sua volta espressione del rapporto tra uomo e ambiente naturale, è soprattutto un efficace ed eccezionale strumento di regolazione, che sovrintende alla ciclicità del tempo e al mantenimento dell’ordine sociale e generazionale. Si tratta di una struttura concettuale profondamente intrisa di elementi civili e di connotati pragmatici alquanto terreni, di una forma di espediente comunitario in grado di garantire unione e continuità che si realizza principalmente attraverso l’assolvimento di pratiche e obbligazioni rituali, malgrado la lettura del pieno valore mediatico di queste azioni risulti spesso difficoltosa.

    Nei luoghi di culto le scoperte archeologiche hanno messo in luce numerosi ambienti destinati alla libagione e tantissimi recipienti per bere, come ad esempio la gran quantità di skyphoi e kantharoi emersa a Tebe nel santuario del Cabirion, anche se i contorni precisi e i dettagli dei riti di manipolazione e di assunzione del vino appaiono ancora sfuggenti. La religiosità sepolcrale fornisce evidenze simili, sottolineando una ritualità incentrata su aspetti fortemente connessi al consumo di vino collettivo, con specifici rimandi alla sfera del convivio mondano.

    Il simposio stesso, massima espressione culturale della civiltà greca, fin dalle prime libagioni sacre che inaugurano la riunione esprime questa liminarità tra la ritualità civica e quella religiosa. Anche se condotta sotto l’egida degli dei, la consuetudine del bere insieme, per quanto ammantata da un’aura di sacralità, sembra corrispondere prima di tutto a una pratica sociale, con evidenti attributi politici, artistici e finanche edonistici. Tutto questo non significa, ovviamente, che alcuni non apprezzassero la dionisiaca bevanda particolarmente, o magari soltanto, in certi casi, per le sue qualità intrinseche.

    L’uomo antico è animale sociale per antonomasia, come si è sempre sostenuto da più parti, ma il vino, eccitante e stimolante attivatore delle relazioni personali, catalizza indubbiamente anche risvolti più intimisti. Dona piacere e vigore, serenità ed euforia, favorisce la creatività artistica, stimola la prestanza sessuale ed è persino un potente farmaco. Brevemente e sommariamente, racchiude in sé una percezione generale di benessere fisico e spirituale, a condizione che l’assunzione sia in qualche modo equilibrata. Anche in questa non secondaria interpretazione comunque, sembra prevalere un’etica collettiva. Presso i Greci, ma analoghi concetti sono spesso ripresi dalle fonti latine, invale infatti una comune e diffusa riprovazione per i bevitori solitari, quasi sempre presentati come marginali alla comunità civile e per questo accomunati agli schiavi, ai barbari o addirittura alle donne, invariabilmente escluse da ogni livello gerarchico. Essere uomini colti, invece, equivale a saper interpretare il proprio ruolo con adeguatezza all’interno della libagione di gruppo, sia nelle vesti di simposiasta che in quelle di simposiarca, quando si è responsabili dell’andamento del consesso potorio e si devono regolare i rapporti tra i partecipanti governando il climax dell’ebbrezza. Nel repertorio pittorico dei vasi per bere, gli aristoi sfilano in splendida parata atteggiandosi nelle classiche pose libatorie e sottolineando il livello della loro importanza nella polis. Dimostrano, come è richiesto dai precetti costituiti, di saper recitare antichi e nascenti canti poetici e di conoscere l’arte del conversare amabilmente, disquisendo su questioni filosofiche e sui problemi dell’attualità. Il ruolo del simposio, trainato dalle élites greco-italiche, è quello di fornire un profilo identitario culturale, un modo di essere e di vivere, un fulgido fattore di civilizzazione che diviene presto un elemento distintivo e caratterizzante per diversi ethnoi.

    1.1

    Si tratta di aspetti fin qui prevalentemente ideologici, che si caricano di significati rilevanti nel momento in cui i processi culturali designano il vino come depositario privilegiato di metafore e allegorie che sottintendono precise esperienze, siano esse riconducibili a manifestazioni religiose o a intrattenimenti mondani. Il vino si sacrifica sugli altari, si sparge al suolo come profusione sacra, mentre si recita una preghiera, oppure quando si fa un giuramento solenne, si consuma collettivamente durante le feste e si usa, magari talora abusandone, nei canonici spazi conviviali del simposio e del banchetto. Davvero è difficile pensare a un’altra bevanda in grado di riassumere e rappresentare tanti e tali contorni così dichiaratamente immateriali.

    D’altro canto il vino, come reperto archeologico in sé, è veramente rarissimo, anche se come vedremo si tratta di un aspetto delle ricerche con ottimistiche prospettive di evoluzione. Inoltre, se finora ci siamo limitati a introdurre le tematiche più intangibili che il prezioso nettare involve, non vorremmo ulteriormente esitare nel calarci in una realtà più materica che, da un punto di vista strettamente archeologico, si presenta fortunatamente abbastanza corposa, variegata e polisemica. Occuparsi di vino significa infatti, necessariamente e inderogabilmente, indagare quantomeno i suoi molti elementi accessori, dai recipienti per bere a quelli per la preparazione della bevanda, fino a quelli per lo stoccaggio e per il trasporto, gli arredi, gli ambienti e le decorazioni, i contesti pubblici del consumo, le attrezzature per la produzione, le innumerevoli manifestazioni artistiche e quelle letterarie. La cultura materiale del vino è fortunatamente ricca e articolata, mutevole per aree, epoche e gruppi sociali e, contrariamente alla bevanda, è assai meno evanescente. Attraverso questi reperti, oggetti reali e apparati che sostanziano ed evocano la presenza del vino, si palesano le forme e i modi del bere, le azioni e i gesti di un universo, quello enoico, che è uno straordinario specchio indicatore per la percezione della mentalità antica, una sorta di cartina tornasole del modo di essere e di sentire da cui proveniamo.

    Tuttavia l’epopea del vino è indissolubilmente legata alla storia della domesticazione della vite, presupposto fondamentale per la sua produzione e a lungo fase critica nel tribolato processo compiuto dall’uomo per giungere all’elaborazione di una bevanda veramente perfetta. Non si tratta della semplice e banale constatazione della necessità di disporre di una materia prima adeguata, appunto l’uva. Come vedremo, le problematiche della coltivazione sono molto complesse e abbisognano di una prospettiva diacronica e geografica alquanto elastica. Le vicende della vite risentono delle variazioni climatiche sul lungo periodo, delle condizioni pedologiche e della geomorfologia dei territori e, soprattutto, del patrimonio di conoscenze umano che, come la pianta del resto, mostra una sorprendente capacità di adattamento alle condizioni ambientali e storiche che ne delineano i contesti originari di appartenenza e quelli di successiva introduzione.

    1.2

    Il contributo dell’archeobotanica, in questo senso, è importantissimo, specialmente per quanto attiene alle fasi primordiali delle sperimentazioni viticole. Da probabili vinificazioni estemporanee, con i frutti di piante selvatiche, ai primi vagiti di forme di protoviticoltura, attraverso processi di selezione di viti domesticoidi, fino al conseguimento di una padronanza accettabile dell’intero processo produttivo, in grado di sostenere una vinificazione standardizzata e un livello qualitativo soddisfacente, il percorso compiuto è stato certamente qualcosa di unico nell’antichità. Un tragitto verosimilmente contrassegnato da episodi locali, da acquisizioni consolidate e da frustranti insuccessi, da rincorse, rimedi e aggiustamenti in itinere, dal trasferimento di specifiche tecniche di cura e manutenzione dei vigneti e dall’ibridazione di concezioni diverse sulle tipologie impianticole. Una fase lunga, e per molti versi disomogenea, con peculiarità locali e percepibili flussi regionali, gradualmente culminata nella trasformazione dell’uva spontanea in una materia prima specifica, peraltro senza nessun’altro impiego plausibile se non quello della vinificazione.

    Il quadro complessivo delineato da queste premesse, più che il vino in sé, viene a costituire, nella sua globalità, il soggetto della nostra indagine. Il consumo del vino, seppur direttamente pressoché impalpabile, domina tanto la cultura materiale quanto quella ideale e fornisce uno stimolante scenario che rivela la sua completezza e la sua molteplicità di valenze soltanto nella piena comprensione di questa polifunzionalità. Sotto questo profilo, la prima e più evidente necessità è quella di un approccio altrettanto sistemico, che eviti la scomposizione della materia per concentrarsi piuttosto sulla sua complessità.

    Vi sono diversi possibili modi di intendere l’archeologia del vino, che passano attraverso il privilegio che inclinazioni soggettive possono conferire per esempio a un taglio più umanistico, oppure approdare a una dimensione più tecnologica, o ancora condizionati da formazioni, competenze e predisposizioni che derivano direttamente dalle scienze naturali. Ciò nonostante, risulta abbastanza chiaro, anche in via preliminare, che si tratta di un campo di studi nel quale l’interdisciplinarietà risulta decisiva e indispensabile. Al contempo, è proprio la ridondante vastità di angolazioni dell’argomento a inibire teoriche pretese di esaustività.

    Partendo da queste cognizioni le scelte effettuate e i criteri di impostazione adottati manterranno in genere un profilo ampio, assumendo i tratti di un’antologia esemplificativa, di una rassegna di sintomatiche espressioni della fenomenologia enoica finalizzata all’ottenimento di una visione globale e, insieme, di sintesi. Sono peraltro le stesse motivazioni che porteranno alla costruzione di limiti cronologici e geografici apertamente elastici e sempre connotati dal notevole dinamismo umano, una delle chiavi fondamentali del successo del vino nel mondo antico.

    1.3

    Il dettaglio puntuale, tematico o areale, è del resto prerogativa di parecchi contributi della bibliografia moderna che, nella sua ricchezza, appare caratterizzata in gran parte da interventi specialistici settoriali che assolvono adeguatamente all’esigenza di approfondimenti particolareggiati e a cui si rimanda per soddisfare opportune aspettative di completezza. Nel novero delle suggerite integrazioni tematiche che, per la loro evidente pregnanza sono talvolta oggetto di pubblicazioni anche monografiche, rientrano ad esempio gli studi sull’impiego del vino nella farmacopea, qui solo oggetto di accenni funzionali al discorso complessivo. Altrettanto può dirsi dei dettagli inerenti le problematiche strettamente enologiche, relative alla produzione vinicola propriamente detta nei suoi risvolti più tecnici, che vanno dalle attrezzature alle materie impiegate, fino ai metodi di affinamento e invecchiamento. Certamente meritevoli di attenzione sono poi le ricerche sui patrimoni genetici, basate sulle relazioni tra viti selvatiche e piante di selezione antropica. Le recenti conquiste scientifiche degli studi sul DNA consentono infatti la formulazione di ipotesi sulle ramificazioni dell’albero genealogico dei gruppi dei vitigni e sulla mappatura dei centri di domesticazione. Un campo di studi che costruisce affascinanti paralleli tra le ibridazioni e le interazioni culturali e quelle varietali, giocate sulle connessioni tra antropologia, linguistica, botanica e scienza agronomica.

    Il nostro percorso si concentrerà piuttosto su un’esplorazione diacronica e trasversale dell’avventura vitivinicola che, lambendo le origini caucasiche e anatoliche, virerà presto sulla realtà del Mediterraneo centrale per attraversare le principali manifestazioni del consumo di vino nelle civiltà elleniche e italiche, con un interesse particolare riservato alle culture enoiche di Etruschi e Romani, fino agli esiti dell’età tardo imperiale. Nella consapevolezza di come la vite e il vino abbiano contribuito a generare e plasmare pratiche sociali, politiche, economiche e modelli esistenziali, con un ruolo decisivo in momenti epocali di civiltà e cultura, cercheremo di cogliere gli aspetti più significativi del consumo della nobile bevanda, nelle espressioni formali come nei riflessi ideali, chiaramente percepibili nell’artigianato, nell’arte, nella letteratura e nella religiosità.

    1.2  Le fonti e le discipline scientifiche

    Le fonti di cui ci avvarremo, in ossequio a un’ampiamente condivisa logica di cooperazione sinergica tra diverse discipline, saranno molteplici. Il fulcro principale del quadro informativo sarà indubbiamente costruito sul record archeologico, ricorrendo al patrimonio culturale espresso dai manufatti, dai contesti architettonici civili e religiosi, dai corredi funerari delle sepolture e da ogni altro tipo di traccia messa in luce dagli scavi stratigrafici. Lo scenario enoico sarà ovviamente integrato dalle fonti scritte, non appena disponibili, massicciamente impiegate senza preclusioni di genere e con particolare riguardo a quelle greco-romane. A volte sarà necessario adottare una certa cautela, specialmente in presenza di dati lacunosi o contraddittori, quando non scopertamente parziali. La natura polisemica della materia suggerisce comunque un’attenzione non selettiva, che tenga in adeguata considerazione i contributi della letteratura di taglio storico come le testimonianze di ambito scientifico, naturalistico e geografico, senza tralasciare il rilevante supporto riscontrabile nei documenti dei mitografi, dei drammaturghi, dei filosofi e, soprattutto, dei poeti.

    Il vasto apparato epigrafico, fonte insostituibile a cui faremo spesso riferimento, fornisce attraverso le iscrizioni una serie di valenze interpretative. Si va da informazioni di profilo imprenditoriale e associazionistico, legate al commercio vinario, alla grande sensibilità comunicativa espressa, ad esempio, dalla raccolta dei carmina epigraphica precristiani, senza trascurare altri ambiti. Il contesto epigrafico romano di ambito funerario, a proposito del vino, si mostra particolarmente interessante, soprattutto in funzione di uno sforzo cognitivo verso una percezione della forma mentis antica.

    Il mondo della vite e del vino può essere poi letto attraverso le immagini. L’approccio iconografico risulta in genere assai prolifico, consentendo ricostruzioni descrittive, come ad esempio nello sconfinato repertorio vascolare della ceramica simposiaca, ma anche interpretazioni più sfumate, come nel caso dell’arte funeraria etrusca e romana. Una porzione rilevante di questo ambito sarà fornita dalle iconografie domestiche, a loro volta straordinariamente ricche di intensi risvolti semantici. Un vasto assortimento figurativo che è parte integrante degli ambienti e degli apparati conviviali, quinte scenografiche elettive del consumo di vino nei contesti privati.

    Un altro filone d’indagine in grado di apportare utili indicazioni sui processi diffusivi, che talora assumono il sapore di consistenti indizi, è quello della ricerca linguistica. Nel caso dell’ampelografia storica e delle dinamiche di acculturazione enoica le analisi glottologiche ed etimologiche sviluppano interessanti prospettive che, in certi casi, sembrano muoversi nella stessa direzione delle ipotesi archeologiche.

    L’ultima e più recente frontiera è rappresentata dall’infittirsi delle interazioni con le discipline scientifiche, le cosiddette scienze esatte. Ormai patrimonio acquisito della moderna ricerca archeologica, la stretta collaborazione con la chimica, la fisica, la biologia e la botanica sembra essere particolarmente foriera di ulteriori elementi e spunti di esame nel caso del vino. Il consistente e continuo progresso delle apparecchiature di laboratorio e l’elaborazione di metodi analitici particolarmente sofisticati ha in effetti agevolato la messa a punto di diverse strategie investigative. I risultati a cui si è giunti sono in grado di fornire utilissime indicazioni, ad esempio sulla natura delle tracce residuali dei recipienti, oltre che innegabili progressi sulle metodologie di datazione e contributi alle ricerche sulle provenienze e sulla circolazione dei manufatti. In molti casi questa contiguità di interessi ha creato settori di studio specifici, di matrice decisamente pluridisciplinare, come l’archeologia molecolare, l’archeobiologia e l’archeobotanica. Soprattutto quest’ultima, nelle sue accezioni palinologiche, carpologiche e xilo-antracologiche, concorre a delineare i contesti paleoclimatici e paleoambientali consentendo in particolari circostanze di monitorare, area per area, le modificazioni genetiche della vite in relazione all’attività umana.

    Ne deriva un quadro informativo splendidamente articolato, pienamente rispondente alle esigenze di un soggetto di studi così sfaccettato e ricco di valenze diverse, ma assolutamente complementari, come quello del vino. Una bevanda speciale, come è stata definita in mancanza di attributi alternativi altrettanto stringati e omnicomprensivi, il cui consumo, accantonando per un attimo i variegati connotati sostanziali e concreti, investe pienamente l’emotività dell’uomo antico ad ogni livello. L’idealità del vino risulta immanente, attraversa gli aspetti del gusto, del gesto, del rituale e quelli esistenziali, mistici, cultuali e funerari. Invade gioiosamente la sfera edonistica, sospesa tra le problematiche connesse agli effetti e alle virtù oggettive della bevanda e i delicati equilibri tra conoscenza, trasgressione e trascendenza. Un approccio multiforme sensazionale, che passa dalla contrapposizione tra ebbrezza e sobrietà, dall’esaltazione apologetica al (raro) rifiuto, per giungere a codificare potenti simbologie che sono l’evidente manifestazione del suo enorme potere di seduzione e dell’incredibile fascino costantemente esercitato presso le civiltà.

    2.  La nascita del Fenomeno Vino

    2.1  Coltivare la vite, produrre il vino: archeobotanica e archeologia dei territori arcaici

    La viticoltura, a meno che non la si intenda come coltivazione di piante da frutto per diretto uso alimentare, di uva da tavola per intenderci, è un’espressione agronomica che non rende compiutamente i significati culturali racchiusi nell’eterogeneo universo enoico. Sotto questo profilo risulta certamente più appropriato l’utilizzo del termine vitivinicoltura, che integra alla precedente accezione il concetto di vinificazione ed esclude a priori il prodotto fine a sé stesso, inteso come cibo. Per produrre il vino in senso stretto, cioè dall’uva, è necessario un lungo percorso che comincia con una valutazione geo-morfo-pedologica del territorio e dei vitigni da adottare; si concretizza, talvolta dopo molti anni e attraverso altri passaggi, nell’ottenimento della preziosa bevanda e ancora prosegue con le problematiche relative alla conservazione e all’invecchiamento. Si tratta di un autentico processo culturale, anche in considerazione delle particolari caratteristiche botaniche della vite. In questa prospettiva, la ricerca delle origini e degli sviluppi del sapere vitivinicolo assume pertanto un valore fondamentale che, da un lato ci porterà a un excursus cronologico, e talora geografico, che esce dalle canoniche periodizzazioni dell’archeologia classica per addentrarsi nei territori di competenza della protostoria e, dall’altro, si pone come assolutamente necessaria ai fini di un’adeguata comprensione e di una visione complessiva del fenomeno vino nell’antichità. Il suo consumo, infatti, e gli aspetti sociali, etnici, religiosi, artistici e mistici ad esso collegati, non possono prescindere da tali considerazioni, essendo strettamente connessi dal lungo filo della tradizione del sapere e del sentire umano. Se il gioco di parole non fosse in qualche modo banale, e probabilmente non del tutto nuovo, potremmo parlare di una cultura del vino all’interno di un più ampio concetto di vitivinicūltura.

    Nel secondo millennio a.C. la letteratura ittita, il cui linguaggio era ampiamente diffuso in Asia Minore e nelle regioni limitrofe, presentava già un’espressione dall’assonanza molto simile alle parole neolatine poi usate per definire il vino. La traslitterazione dal cuneiforme suona come ųiįan- e quella dal geroglifico come ųiānas o wijana-. In Luvio, altra lingua indoeuropea del sottogruppo anatolico, l’etimo diventa ancor più simile ųin-, e waiana- dal geroglifico. Genealogicamente il Luvio è strettamente connesso alle altre lingue scritte e parlate in Anatolia, come ad esempio il Licio, il Cario, il Lidio o il Palaico¹. Altri linguaggi di regioni relativamente vicine non si discostano più di tanto da questa matrice dal suono comune: gini in Armeno, gvin-i in Mingreliano, gvino in Georgiano, vene in Albanese. Anche L’Arabo e l’Etiopico, coinvolti in questa koiné linguistica, usano il vocabolo wain o wa-yn, l’Assiro īnu e il Protosemitico wainu, che diventerà vajin in Ebraico e wayn in Sabeo². Le tavolette di Cnosso e Pilo riportano la parola woi-nē-wei per indicare il concetto di mercante di vino, mentre la bevanda è idenitificata come woinos, da cui deriverà il greco classico oinos.

    I supporti fittili micenei riportano spesso anche uno specifico ideogramma, che rappresenta un tralcio di vite stilizzato sostenuto da una schematica struttura lignea, i cui prodromi appaiono nei testi di età minoica sotto forma di geroglifico e che si ipotizza possa avere a sua volta un embrione nella scrittura degli Egizi.³. Infine abbiamo l’etrusco vinm o vinum, con variante fonetica in vinun ⁴, etimo ancora oggetto di discussione, che in Italia risuona con parecchie similitudini nel Falisco uino o uinom, nell’Umbro vinu o uinu, nel Volsco uinu, nel Retico vinu e persino nel Siculo viino e nel Lepontico uinom⁵. Tutti termini molto simili al Latino, che pure propone la parola vinum, poi vino in Italiano e Spagnolo, che darà luogo nei neoidiomi derivati a vinho, vin, wein e wine, rispettivamente in Portoghese, Francese, Tedesco e Inglese⁶.

    Sono concreti indizi etimologici e glottologici che, a prescindere dall’ardua identificazione dell’originale gruppo linguistico di appartenenza, tendono a individuare radici culturali comuni, zone propulsive e percorsi evolutivi di una bevanda che pare dunque ampiamente attestata e circolante, sulla sola base di queste evidenze almeno fin dal II millennio a.C., in una precisa ancorché vasta zona geografica. Si tratta dell’areale corrispondente ai territori dell’Asia medio-anteriore e del Caucaso dove, con tutta probabilità come vedremo, trae la sua origine anche la Vitis vinifera vinifera, o sativa ⁷.

    La stessa tradizione ebraica fornisce consistenti tracce che rivelano la zona caucasica come il possibile luogo natio della viticoltura, sfumandone però nel tempo gli albori. Il libro della Genesi, nella saga del diluvio universale, risalente al periodo precedente a quello della cattività babilonese, narra la ripresa della vita e dell’attività agricola collocandole, genericamente, dopo le ecumeniche e incessanti piogge. La Mesopotamia appare come il luogo originale, la terra in cui Noè piantò la vite, bevve il vino e si ubriacò, per poi giacere nudo nella sua tenda destando il pudico scalpore dei figli⁸. La Shin’ar di cui si parla nell’Antico Testamento⁹ è stata infatti identificata, grazie alle tavolette della biblioteca di Assurbanipal, a Ninive, con la pianura centromeridionale mesopotamica detta Sumer¹⁰. Si tratta di antichi racconti, chissà quanto a lungo tramandati oralmente prima di essere stati fissati dalla parola scritta. Riecheggiano nelle tradizioni accadiche e assire attestate dalle tavole reali, seppure in modo frammentario: narrazioni mitologiche che trovano riscontri nell’epopea dell’eroe sumero Gilgamesh, che sembrerebbe da contestualizzare nei secoli iniziali del terzo millennio. Nell’antico poema il vino è strettamente connesso a un alto concetto dell’esistenza come dimostra la cerimonia iniziatica basata sulla bevanda grazie alla quale Enkidu, il compagno di Gilgamesh, passa dallo stato di natura a quello di civilt๹.

    La coincidenza dell’apparizione del vino nella letteratura è pressoché concomitante all’invenzione della scrittura e questo lascia intuire l’esistenza di una cultura enoica già profondamente consolidata. Diversi testi mesopotamici si soffermano già a indicare le zone più rinomate per la produzione viticola, individuandone i profili ideali negli ambienti collinari forniti di abbondanti risorse idriche naturali: sono regioni come la terra di Izalla, al nord della Mesopotamia, la terra di Singara e la valle dell’Eufrate attorno a Karkemish, in Siria e, naturalmente, il biblico Ararat, l’area montuosa di Urartu, oggi nella Turchia orientale¹². L’antico Testamento tramanda notizie anche riguardo attività commerciali aventi il vino per oggetto, ad esempio nel passo di Ezechiele in cui si celebra quello di Khelbon, nella Siria centrale, al centro degli scambi tra le città di Tiro e Damasco¹³. Forse ancora più noto però, è il famoso elogio delle ricchezze e della fertilità della terra di Canaan, in particolare dell’area intorno a Hebron, nella Palestina meridionale¹⁴. Con ogni probabilità, qualche sorta di prodromo del vino era già oggetto di produzione prima del 3000 a.C., tuttavia non è assolutamente agevole individuare testimonianze archeologiche che possano restituire certezze temporali relative all’avvio di una reale vitivinicoltura a scala apprezzabile. La ricerca si è spesso orientata più sulla pianta che sulla bevanda, per oggettiva scarsa capacità di conservazione di quest’ultima e per la difficoltà nel reperirne tracce consistenti, anche se la sola presenza della vite non è affatto indicatrice della pratica enologica.

    Innanzitutto è necessario distinguere tra due sottospecie di piante, quella selvatica, Vitis vinifera sylvestris, e quella coltivata, Vitis vinifera vinifera o sativa¹⁵. La quasi totalità dei vitigni contemporanei è derivata da un solo ceppo domestico, di origine eurasiatica, tra circa un centinaio di specie spontanee note nelle zone temperate dell’Europa e dell’Asia, ma anche del Nord America. Nel vicino oriente, secondo un’opinione maggioritaria conosciuta comunemente come ipotesi Noè, in onore del patriarca designato dall’Antico Testamento come inventore della vitivinicoltura, la subspecie sylvestris sarebbe quindi stata oggetto di una progressiva domesticazione che portò alla creazione della subspecie vinifera. Quest’ultima presenta la caratteristica di essere ermafrodita, di avere cioè sulla stessa pianta stami e pistilli, con il grande vantaggio di essere più produttiva in termini di grappoli, contando inoltre su una base fruttifera più facilmente prevedibile¹⁶. Purtroppo, però, la loro distinzione su base archeobotanica non è per niente scontata¹⁷, dal momento che in molti casi, specialmente quelli più controversi e dal maggior potenziale informativo, i vinaccioli presentano caratteri liminari tra i parametri di riferimento delle due specie.

    Inoltre, qualora si possa dimostrare che si tratta di uva coltivata, ciò non la certifica immediatamente come materia prima per la produzione di vino, dal momento che questa potrebbe essere stata utilizzata come alimento¹⁸. C’è poi da considerare che anche dall’uva selvatica è possibile produrre forme di bevande enoiche, come del resto si può arrivare ad una soluzione alcolica fermentata partendo da qualsiasi frutto a bacca polposa che abbia un elevato tenore zuccherino. Queste considerazioni portano a focalizzare la questione sull’inizio di un rapporto operoso e dinamico dell’uomo nei riguardi della vite e, di conseguenza, del vino stesso. Sotto questo profilo, è ipotizzabile che tutte le attività di cui sopra siano coesistite a lungo, spaziando dalla raccolta, presumibilmente controllata e protetta, al consumo di uva selvatica, per poi passare a una produzione di bevande dai frutti di piante ancora non domesticate, fino allo sviluppo di una viticoltura in senso stretto¹⁹.

    I reperti archeobotanici di specie coltivate possono comunque mostrare importanti caratteri distintivi e fornire talora utili indicazioni. Durante il processo di domesticazione le modificazioni genetiche incidono anche sulla morfologia dei frutti e dei semi e, in alcuni casi, è possibile giungere a discriminare tra forme ad impatto antropico e protovitigni spontanei. I parametri diagnostici sono costituiti fondamentalmente dalle misure assolute dei semi e dai loro rapporti, ma è necessario disporre di un campione sufficientemente consistente per poter osservare in maniera adeguata le variazioni e condurre idonee ricerche statistiche²⁰. Quello dei vinaccioli, purtroppo, è uno dei casi più complessi in assoluto. Gli studi si basano sui rilievi dimensionali di lunghezza, larghezza, spessore, lunghezza del becco, lunghezza e larghezza della calaza, lunghezza delle fossette, e su indici e parametri morfologici, come la forma dell’area germinativa e lo stesso andamento delle fossette. Sono i medesimi parametri e indici di riferimento che si utilizzano nei contesti di accertata domesticazione per i problemi di riconoscimento di diversi vitigni presenti nello stesso sito²¹. In linea generale, i semi di Vitis sylvestris hanno una forma corta e tozza, mentre quelli di vitis sativa sono più stretti e allungati.

    2.1

    Scendendo maggiormente nel particolare, quelli di pianta selvatica sono piccoli, rotondeggianti e cuoriformi, con becco poco pronunciato, appiattiti o lievemente prominenti nella parte ventrale, con due solchi stretti e profondi separati da un ponte longitudinale e con un’evidente depressione sul dorso; quelli di provenienza domestica, più grandi, sono slanciati, ovali o piriformi, con una scultura poco pronunciata sul ventre e un becco lungo e prominente. Per quanto riguarda i rapporti dimensionali, in particolare il rapporto fra larghezza e altezza massime, i vinaccioli si possono discriminare in base agli intervalli stabiliti dall’indice di Stummer (vite selvatica 0,76-0,83; vite coltivata 0,44-0,53), che tuttavia prevede uno spazio abbastanza ampio (0,53-0,76) in cui non è possibile stabilire l’esatta entità tassonomica²².

    A livello teorico, disponiamo di notizie archeologiche relative a viti ritenute domestiche già attorno al 6000 a.C., in Georgia, nel sud-est della Turchia e nel Caucaso²³. Dal V millennio a.C. abbiamo altri riscontri, ad esempio in Ucraina²⁴, ma anche in Italia, in Abruzzo, Puglia e Sicilia²⁵. Nel millennio successivo le testimonianze giungono dalla Siria, con semi trovati a Gerico, e dall’Egitto²⁶, ma proprio i vinaccioli dell’uva proveniente dal sito di Al-‘Omari, presso il Cairo, che avrebbero una rilevanza tutta particolare, dividono la comunità scientifica²⁷. L’Egitto si trova infatti ai margini dell’areale di diffusione spontanea della vite selvatica e ciò deporrebbe, al di là delle difficoltà oggettive nell’identificazione archeo- botanica della specie, a favore della sua coltivazione specifica²⁸. Comunque sia, non sapremmo definire con sicurezza che tipo di destinazione avesse questa uva. Quello che è certo, è che dalla metà del IV millennio in poi c’è una notevole intensificazione dei riscontri sulla Vitis vinifera. Questi provengono quasi sempre dal Mediterraneo orientale e permettono di ipotizzare l’inizio di qualche forma di viticoltura locale, con crescente affidabilità entrando nel III milennio²⁹. Si tratta di reperti di origine ancora egiziana, ma soprattutto siriana e palestinese, così come di area egea e, naturalmente, di quella anatolica, l’antico luogo elettivo della Vitis sylvestris³⁰.

    Durante l’età del bronzo i rinvenimenti di vinaccioli in contesti archeologici si fanno relativamente cospicui anche in Italia, ma molti scavi prescindono da una bibliografia approfondita per quanto riguarda i dati morfo-biometrici, relegando il contributo archeobotanico ad un ruolo più marginale ai fini della documentazione di esperienze vitivinicole progredite. Molti reperti provenienti da scavi datati sono stati comunque sottoposti di recente a questo tipo di accertamenti. In parecchi casi gli indici calcolati ricadono nell’intervallo intermedio di Stummer, suggerendo la possibile appartenenza dei semi a piante paradomestiche, cioè a viti che non sono più selvatiche, ma che non hanno ancora completato il processo di domesticazione³¹, come ad esempio in alcuni siti della provincia di Modena e di Parma. Vi sono

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