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Storie di Vino: Antologia di grandi Autori dal medioevo al '900
Storie di Vino: Antologia di grandi Autori dal medioevo al '900
Storie di Vino: Antologia di grandi Autori dal medioevo al '900
E-book489 pagine5 ore

Storie di Vino: Antologia di grandi Autori dal medioevo al '900

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Quest’opera è una raccolta di testi di autori italiani dall’antichità al primo novecento. Una sola cosa hanno in comune tra loro: parlano del vino. Il vino è sempre stata una parte importante della cultura mediterranea ed europea. E, si può ben dire, addirittura fondamentale nell’ebraismo e cristianesimo.
Parleremo della storia del vino, della vite in generale e delle opere letterarie. Il vino come “cultura” e non soltanto come prodotto di una “coltura”. Vedremo come Galileo fosse costantemente preoccupato del vino prodotto dai suoi poderi, ma anche come la poesia parla del vino o dei suoi effetti, ed anche come fosse il vino incontrato da Marco Polo nei suoi viaggi verso la Cina, le impressioni di Pigafetta mentre porta a termine la prima circumnavigazione del globo.
Un libro davvero interessante, inedito nel suo genere.
Un libro da sfogliare e... Perché no? Tutto da bere...

LinguaItaliano
Data di uscita21 set 2012
ISBN9781301580156
Storie di Vino: Antologia di grandi Autori dal medioevo al '900
Autore

Duilio Chiarle

Duilio Chiarle, writer and guitarist of "The Wimshurst's Machine".Duilio Chiarle, scrittore e chitarrista dei "The Wimshurst's Machine".Ha ricevuto il premio "Cesare Pavese" nel 1999. Gli sono stati attribuiti i premi internazionali "Jean Monnet" (patrocinato dalla Presidenza della Repubblica Italiana, dall’Università di Genova e dalle Ambasciate di Francia e Germania) e "Carrara - Hallstahammar" (quest'ultimo per due volte consecutive).Con il gruppo musicale "The Wimshurst's Machine" ha ricevuto tre nomination hollywoodiane consecutive: sono suoi i racconti dei "concept" musicali.Ha ricevuto l'onorificenza di "Ufficiale" dell'Ordine al Merito della Repubblica Italiana.

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    Storie di Vino - Duilio Chiarle

    Storie di vino Antologia di grandi autori dall’antichità al ‘900

    Duilio Chiarle

    © Duilio Chiarle 2012

    Edizione Smashwords

    Prima edizione

    PREMESSA

    Quest’opera è una raccolta di testi di autori italiani dall’antichità al primo novecento. Una sola cosa hanno in comune tra loro: parlano del vino. Il vino è sempre stata una parte importante della cultura mediterranea ed europea. E, si può ben dire, addirittura fondamentale nell’ebraismo e cristianesimo.

    Parleremo della storia del vino, della vite in generale e delle opere letterarie. Il vino come cultura e non soltanto come prodotto di una coltura. Vedremo come Galileo fosse costantemente preoccupato del vino prodotto dai suoi poderi, ma anche come la poesia parla del vino o dei suoi effetti, ma anche come fosse il vino incontrato da Marco Polo nei suoi viaggi verso la Cina, le impressioni di Pigafetta mentre porta a termine la prima circumnavigazione del globo al posto del deceduto Magellano, vedremo addirittura quali consigli fossero dati per l’educazione dei figli. E poi l’immancabile Belli, le irridenti opere degli scapigliati, i racconti di Grazia Deledda, Verga, Svevo, una poesia poco nota di Alfieri, e l’incredibile racconto futuristico di Emilio Salgari con la sua visione del 2000. Brani di storia come la relazione del Barberini di un suo viaggio nella Mosca del ‘500. Uscendo dal seminato, sono incluse alcune opere di grandi classici dell’antichità come Omero, Luciano, Petronio, Anacreonte, Aristotele: ciò è stato fatto in quanto opere tradotte da importanti letterati italiani del sei-settecento. Ma anche i pensieri sul vino di Leopardi, e quindi i classici D’Annunzio, Pascoli, Carducci. Anche alcune donne, come vedrete. Vi sono alcune opere anonime di vari secoli non ultimi alcuni canti popolari. Infine, la risolutiva poesia di Pavese. Il vino come pretesto, il vino come oggetto, il vino come ideale.

    Numerosi sono anche gli autori stranieri che hanno in qualche modo parlato del vino. Ovviamente non possiamo citarli tutti ed inoltre quest’opera, già ampiamente incompleta per gli autori italiani, non può occuparsi anche degli autori stranieri. Tuttavia, molti autori e grandi poeti hanno parlato del vino nelle loro opere. Già nel medioevo troviamo qualche autore e (a sorpresa) è un poeta marocchino: Muhammad Al-Mu’tamid (1040-1095).

    Ci sono più congeniali Johann Wolfgang Goethe (1749 – 1842), William Blake (1757 – 1827), Emily Dickinson (1830 – 1886), Stephane Mallarmé (1842 – 1898), Paul Verlaine (1844 – 1896), Charles Baudelaire (1821 - 1867), William Butler Yeats (1865 – 1939), Rainer Maria Rilke (1875 – 1926), Antonio Machado (1875 – 1939), Herman Hesse (1877 – 1962), Fernando Pessoa (1888 – 1935),

    Walter Benjamin (1892 – 1940), Edward Estlin Cummings (1894 – 1962), Paul Eluard (1895 – 1952), Federico Garcia Lorca (1898 – 1936), Jose Luis Borges (1899 – 1986), Jacques Prévert (1900 – 1977), Pablo Neruda (1904 – 1973), Dylan Thomas (1914 – 1953), Paul Celan (1920 – 1970).

    Anche nell’est Europeo c’è stato chi ha citato il vino nelle proprie opere: la polacca Wislawa Szymborska (1923 – 2012) e la russa Anna Andreevna Achmatova (1889 – 1966). Invece, parlando di Grecia, ecco il grande poeta Kostandìnos Kavafis (1863 – 1933) ed il turco Nazin Hikmet Ran (1902 - 1963).

    Insomma, ci sarebbe materiale per un’opera molto più ampia. Ma non possiamo uscire dal percorso nazionale e ci limiteremo, come abbiamo detto, al già nutritissimo parterre degli autori italiani, con qualche puntata nell’antica Grecia e antica Roma.

    Spero che questa raccolta vi piaccia. Almeno quanto un buon bicchiere di vino…

    Storie di vino: antologia di grandi autori dall’antichità al ‘900

    STORIA DEL VINO

    L’uva risulta già coltivata nell’antichità più remota. Probabilmente un ignoto viticoltore scopre che il succo d’uva fermenta e che la bevanda che ne deriva provoca una certa ebbrezza. Dove sia realmente nato il primo vino, non lo sapremo mai, sebbene abbiamo certezza che fosse coltivata la vite già nel settimo millennio a.C. nella zona del Mar Nero e del Mar Caspio, e probabilmente la vite venne coltivata proprio perché qualcuno scoprì casualmente che il succo dell’uva fermentava. Si ritiene infatti che il primo vino fosse già prodotto dalla vite selvatica già nel decimo millennio a.C. In ogni caso il vino prese piede velocemente. La prima patria della viticoltura dovrebbe essere la mezzaluna fertile della Mesopotamia, una zona in cui ora non si produce vino. Proprio nella Bibbia troviamo la testimonianza dell’antica coltivazione poiché si narra che Noè, dopo aver approdato, per prima cosa piantò una pianta di vite.

    Tra il 4000 ed il 3000 a.C. sappiamo che in Egitto era già prodotto del vino, anche se la bevanda alcolica per eccellenza in Egitto è la birra. Sulle pareti delle tombe egizie si possono vedere scene di vita in cui spiccano vigne in forma di pergolato e scene di pigiatura dell’uva dopo il raccolto che avveniva a piedi nudi dentro grandi catini ed i resti venivano torchiati mediante presse a sacco, (alle due estremità del sacco in cui si trovava l’uva rimasta dalla prima spremitura si trovavano dei bastoni che girando in senso contrario uno all’altro torcevano il tessuto e strizzavano l’uva all’interno lasciando uscire il liquido di torchiatura. Tutto il succo veniva poi versato in anfore e lasciato fermentare; infine le anfore venivano tappate.

    Nella tomba del faraone Tutankhamon (rinvenuta da Carter quasi intatta) si sono ritrovate numerose anfore vinarie. Su di esse vi è la scritta Anno 4 per la casa di Tutankhamon con una stampigliatura sul tappo in argilla su cui si legge Vino delle proprietà di Tutankhamon e anche Vino di buona qualità dei possedimenti di Aton: probabilmente si tratta di una annata memorabile dalle qualità eccezionali, dato che il tappo era stato sigillato al tempo della rivoluzione eretica del dio unico Aton che per qualche decennio aveva soppiantato le tradizionali divinità egizie. Poiché Tutankhamon divenne faraone ancora bambino (successe ad Akhenaton con il nome di Tutankhaton, solo più tardi mutato nella forma Tutankhamon, al termine della guerra civile), il vino era certamente un vino pregiato e invecchiato. Sul collo delle anfore vi era un piccolo forellino al fine di permettere la fuoriuscita dei gas dopo la chiusura. Gli egizi amavano anche arricchirne il sapore con altri ingredienti, più o meno come avveniva anche nel mondo greco e romano. Sappiamo che il vino più apprezzato era quello prodotto nel delta del Nilo e presso alcune oasi. Naturalmente si parla di vitigni che non esistono più, essendo stati tutti sradicati all’epoca dell’invasione islamica dell’Egitto.

    Il vino dei Fenici fu il primo di cui si ha certamente notizie commerciali. Infatti i Fenici, grandi navigatori, erano celebri commercianti ed il vino libanese divenne merce di intenso scambio certamente già nel primo millennio a.C. attraverso tutto il mediterraneo.

    Intorno al XV Secolo a.C., l’impero minoico diffuse i propri vini nella grande area di influenza marittima greca. Nei poemi omerici il vino è infatti molto citato ed Ulisse lo utilizza puro per ubriacare Polifemo ed accecarlo. Dobbiamo precisare che nel mondo greco il vino veniva diluito con una parte di vino in sedici di acqua e nessuno lo beveva puro. Per noi oggi è una cosa quasi inconcepibile, una sorta di eresia, dato che l’uso del vino lo abbiamo ereditato non dal mondo greco o romano ma da quello dei Galli, i quali (con grande orrore dei Romani) lo consumavano solamente puro.

    Il vino greco più famoso era il Pramnio, citato addirittura nell’Iliade. A Lesbo si produceva l’Omphacites, a Cos si produceva un vino aspro mentre a Chios lo si resinava. I Greci, insomma, mischiavano al vino molte componenti come la resina, il miele, l’acqua di mare o addirittura qualche spezia. La fondazione di colonie nell’Italia meridionale e a Marsiglia (nel 600 a.C.) farà sì che il vino si diffonda ovunque. Per i Greci antichi, l’Italia aveva il nome di Enotria, ovvero la terra del vino.

    I Romani, oltre ad allungare il vino con come i Greci, lo mischiavano anche con frutta a pezzi. Oggi, le loro usanze non sono perdute. Ancora oggi in Grecia vi è il vino resinato, non certo molto adatto ad un palato italiano, mentre il vino speziato è in voga anche oggi: con cannella e chiodi di garofano, il vino caldo si chiama vin brulé ed è piuttosto gradito in inverno e la tradizione popolare lo consiglia per curare i raffreddori… Invece il vino con la frutta si è tramandato nella tradizione spagnola con la celebre Sangrìa. In epoca romana si è scritto così tanto sul vino che non è difficile ricostruire la mappa vinicola dell’Italia dei Cesari.

    I Galli, eredi della tradizione greca e romana, furono i rivoluzionari del vino. Giulio Cesare, nel De bello gallico gli attribuisce ammirato l’invenzione della botte e probabilmente sempre i Galli inventarono anche il tino.

    La nostra tradizione vinicola si evolve però in modo barbarico proprio alla caduta dell’Impero romano d’occidente. Niente più resine, miele o spezie nel vino, se non per motivi curativi. Il vino diviene poco coltivato, sovente si usa la vite selvatica.

    Nell’alto medioevo, epoca delle grandi foreste, i vitigni si trovano sovente stesi tra un albero e l’altro. Questo fino all’anno mille. Nel frattempo la tecnica vinicola era andata raffinandosi laddove la coltivazione è sopravvissuta. I barbari infatti erano soltanto capaci di produrre idromele. Ma ben presto il vino torna in uso. L’uso del vino nell’Europa medioevale diventò così diffuso che era usuale fare colazione inzuppando il pane nel vino e soltanto nelle zone del nord in cui non era possibile rifornirsi di vino il messale era autorizzato con altre bevande fermentate. E’ questa l’epoca del vino. Un buon vino diventa una questione di prestigio. I grandi complessi abbaziali, centro della cultura del medioevo, sono anche i grandi produttori di vino e soprattutto di quello di migliore qualità. I benedettini in particolare si distinsero in questo campo. In Borgogna in particolare si ebbero grandi risultati. I cistercensi divennero i padrini del Borgogna. L’Inghilterra, Paese in cui la vite cresce con difficoltà, iniziò ad importare i vini bordolesi, ed in particolare il claret, che era molto apprezzato. I vini mediterranei, più forti, corposi e aromatici, erano quelli che meglio si conservavano e divennero quindi oggetto di forte scambio commerciale con il nord dell’Europa. Il vino medioevale aveva infatti un difetto: andava consumato giovane poiché già in primavera si andava alterando. Il problema della conservazione aveva iniziato a manifestarsi quando nel basso impero e nell’alto medioevo il tradizionale metodo di stivaggio del vino nelle anfore era stato sostituito dalle botti. Il problema si manifestò sino al XVII secolo, dato che non era ancora in uso la bottiglia di vetro e del tappo di sughero. Sino al XVII secolo, l’unico vino che era possibile conservare a lungo era quello ottenuto dalla torchiatura, dato che il vino ottenuto dalla torchiatura possiede più tannino.

    Ma è soltanto con il monaco benedettino Dom Perignon (1638 – 1715) che la vinificazione fa un salto di qualità. Nel 1668, nell’abbazia di Hautevillers, nei pressi di Reims, inventò un metodo per ottenere vini bianchi da uve nere della Champagne. Perignon si era accorto che i vini ottenuti dalle uve pinot avevano la tendenza a rifermentare a primavera con il primo caldo. Mise allora a punto una tecnica di ammostatura soffice e celere ed ebbe l'idea di fermentare il vino in bottiglia, in cantine interrate, per renderlo frizzante e mantenerlo giovane. Il sistema è così efficace che il casuale ritrovamento nel mare del nord di una nave che conteneva vino champagne destinato alla corte di Pietro il Grande ha permesso l’assaggio del vino ritrovato sul fondo del mare perfettamente conservato permettendo così di studiare il sapore fruttato il cui segreto era andato perduto durante la rivoluzione francese: i vini contenuti in quel carico sono stati recuperati ed hanno un valore immenso.

    Nel XV e XVI secolo Venezia divenne il più grande mercato vinicolo del mediterraneo. In questo periodo iniziò la procedura del passimento per la produzione del vino liquoroso. In questo periodo è anche molto attiva la Spagna con l’esportazione verso l’Inghilterra di vino delle Canarie e di sack, un vino dolce ad alta gradazione alcolica che in Inghilterra veniva utilizzata come ora lo Sherry.

    Tutto cambia nel ‘500, quando a causa dell’invasione turca del mediterraneo e dello scisma anglicano, l’Europa cambia le sue abitudini. Il Portogallo aveva importato i vitigni ciprioti ed iniziato a produrre il Madera. In particolare i commercianti olandesi furono i più attivi nel commercio dei prodotti alcolici e soprattutto dei distillati di vino, come il brandy.

    Nel XIX secolo, la produzione del vino era la risorsa principale di molti Paesi, ma subì forti problemi a causa della Peronospera e della Filossera che quasi distrussero intere specie di vite. Il problema si risolse soltanto innestando la vite europea su quella americana (che era immune alla filossera). Intere zone furono devastate. Il Falerno, che era il vino preferito degli zar, andò quasi perduto e si trova ora prodotto soltanto in una ristrettissima zona.

    Un discorso particolare occorre fare per il metodo utilizzato per ottenere il vino moscato. Questo, ottenuto da uva bianca a cui, una volta che il mosto raggiungeva i 5,5 gradi alcolici veniva bloccata la fermentazione mediante la refrigerazione veloce del mosto. Ciò faceva in modo che il vino restasse dolce, ma con il passare del tempo perdeva le sue caratteristiche ed era perciò necessario consumarlo giovane. Oggi le tecniche si sono molto evolute, ma il principio è lo stesso.

    La scienza vinicola è oggi in continua evoluzione. Ma si è recentemente scoperto che il vino rosso contiene forti quantità di antiossidante e perciò se consumato con molta moderazione ha effetti positivi sull’organismo. Oggi i vini vengono prodotti nelle autoclavi, ma per fortuna c’è ancora chi si appella alla tradizione.

    I VITIGNI PIU’ DIFFUSI IN ITALIA

    BARBERA: è un vitigno rosso molto diffuso in Piemonte, dove per molto tempo è stato usato per produrre o tagliare vini senza troppe pretese. Oggi è stato rivalorizzato il suo potenziale, dando origine a vini ricchi, fruttati e corposi.

    CABERNET SAUVIGNON: è un vitigno rosso francese di grande carattere, principale varietà del Médoc. Diffuso in tutto il mondo, dà origine a vini speziati, erbacei, tannici con caratteristico sentore di ribes. In Italia è largamente utilizzato con risultati notevoli come nel caso del Sassicaia. Esiste anche la varietà Cabernet Franc, poco conosciuta nel nostro paese ma molto utilizzata nel bordolese.

    CHARDONNAY: è un vitigno bianco francese diffuso in tutto il mondo grazie alla facilità di coltivazione. Costituisce la base dei bianchi di Borgogna ed è usato anche per lo Champagne. In Italia è molto diffuso per produrre sia vini fruttati e leggeri che vini potenti e corposi nonchè i migliori spumanti metodo classico. L'enorme diffusione di questo vitigno ha contribuito alla standardizzazione del gusto che alcuni ritengono una cosa negativa.

    CORVINA: è un vitigno rosso tipico del veronese, da cui si ottiene (tra l’altro) il famoso Amarone. Produce vini dal colore rubino intenso e carattere ricco, tannico e fruttato.

    DOLCETTO: è un vitigno rosso molto diffuso in Piemonte dove dà origine a vini secchi, eleganti e vellutati. Conosce oggi un periodo molto fortunato.

    INZOLIA: è un importante vitigno bianco siciliano, utilizzato come base dei più importanti bianchi della regione tra i quali il celeberrimo Marsala. Produce vini secchi e profumati, che possono essere anche strutturati e longevi.

    MALVASIA: è un vitigno bianco ma ne esistono anche varietà nere ed i vini che se ne ricavano vanno dal carattere ricco e bruno al bianco vellutato, sia dolci che secchi. E' caratterizzato da una vena delicatamente aromatica.

    MERLOT: è un importante vitigno rosso francese, una sorta di complemento del cabernet, insieme al quale costituisce il famoso uvaggio bordolese. Ottimo anche vinificato in purezza (ad esempio il Château Pétrus). Produce vini profumati, con tipico sentore di prugna.

    MONTEPULCIANO: è un famoso vitigno rosso del versante adriatico centro-meridionale. Nelle migliori versioni dà origine a vini ricchi e strutturati, di ottima qualità.

    MOSCATO: è un vitigno bianco dall'aroma inconfondibile, diffuso in tutto il mondo ed utilizzato soprattutto per produrre vini dolci, sia freschi che liquorosi. Il più famoso moscato italiano è l'Asti.

    NEBBIOLO: è un grande vitigno rosso italiano, uno dei migliori, da cui si ottengono i più importanti rossi piemontesi come Barolo e Barbaresco. Produce vini profondi e austeri, adatti all'invecchiamento. E’ coltivato in Valtellina con il nome Chiavennasca ed è usato per produrre importanti rossi fra cui Sassella e Inferno.

    NEGROAMARO: è un importante vitigno nero del sud, specialmente della Puglia. Sta uscendo dal ruolo di semplice uva per vini da taglio, per dare origine a rossi di grande carattere e intensità. Il colore scuro e il gusto amarognolo ne determinano il nome.

    PINOT BIANCO: è un vitigno bianco della Germania diffuso nel nord Italia e può dare origine a vini leggeri, freschi e fruttati (anche alcuni spumanti) ma anche a vini di una certa struttura, morbidezza, alcolicità e longevità.

    PINOT GRIGIO: è un vitigno bianco conosciuto in Germania come Rulander. In Italia è famosa la sua versione leggera e fruttata, ma può dare origine anche a bianchi spessi e corposi.

    PINOT NERO: è un vitigno rosso di Borgogna, molto quotato, che dà origine a vini con profumo e aroma ineguagliabile e viene coltivato con buoni risultati anche in California e in Australia. E' considerato un vitigno difficile, e in Italia non dà sempre risultati ottimali. Si presta anche alla vinificazione in bianco, specialmente per la produzione di spumanti e Champagne.

    PROSECCO: è il vitigno bianco da cui si ottiene uno degli spumanti italiani di maggiore successo. Diffuso in Veneto, ha carattere delicatamente aromatico e profumato di mela.

    RIESLING: è un importante vitigno bianco , posto alla base dei migliori vini tedeschi. In Italia ne è diffusa al nord una varietà Italica, ritenuta meno pregiata di quella renana, ma in grado di produrre vini di grande qualità.

    SANGIOVESE: è il più importante vitigno rosso dell'Italia centrale, emblema del vino toscano, da cui si ottengono Chianti e Brunello di Montalcino. E’ coltivato in tutto il mondo e profuma di violetta.

    SAUVIGNON: uno dei più importanti vitigni bianchi francesi dopo lo Chardonnay. Ha un aroma caratteristico erbaceo e corposo. Dà origine al Sancerre e al Pouilly-Fumè. In Italia è molto diffuso e dà buoni risultati.

    SCHIAVA: è il principale vitigno rosso del Trentino e dell'Alto Adige, diffuso in diverse varietà ed è utilizzato per produrre vini rossi piacevoli e profumati come il Santa Maddalena.

    TOCAI: è un importante vitigno bianco che non deve essere confuso con il Tokaji ungherese (che è un vino e non un vitigno), ed è diffuso soprattutto nel Friuli e nel Veneto. Dà origine a vini di colore paglierino carico, sapidi e profumati di fiori e mandorla. Una recente sentenza della Corte Europea impedisce al vitigno italiano di dare il proprio nome al vino, ciò a causa dell’ignoranza delle autorità in materia vinicola.

    TRAMINER: è un vitigno bianco di origine tedesca che in Italia è diffusa soprattutto nella versione aromatica Gewürztraminer, molto usata in Alto Adige, da cui si ottengono vini profumati che maturando producono caratteristici sentori minerali.

    TREBBIANO: è un vitigno bianco diffusissimo in Italia, ma non viene considerata un’uva pregiata ed viene usato per tagliare molti bianchi italiani. Vinificato in purezza dà origine a vini onesti e senza pretese che in alcune versioni produce risultati eccellenti come nel caso del Trebbiano d'Abruzzo.

    VERDICCHIO: è un vitigno bianco tipico delle Marche da cui si ottiene un vino con riflessi verdolini, profumato e caratterizzato da un retrogusto amarognolo.

    VERMENTINO: è un vitigno bianco molto diffuso in Liguria e Sardegna, e dà origine a vini delicatamente aromatici

    VERNACCIA: è un vitigno bianco coltivato in Toscana (in particolare a S. Gimignano) ed in Sardegna e produce uno dei vini più caratteristici del nostro paese secco, strutturato ed adatto all'invecchiamento.

    I GRANDI AUTORI

    DA ILIADE DI OMERO (IX Sec. a.C.)

    (Traduz. Vincenzo Monti – 1825)

    LIBRO III

    (…) Il diletto di Sparta almo terreno

    Lor patrio nido li chiudea nel grembo.

    Venìan recando i banditori intanto

    Dalla città le sacre ostie di pace,

    Due trascelti agnelletti, e della terra

    Giocondo frutto generoso vino

    Chiuso in otre caprigno. Il messaggiero

    Idéo recava un fulgido cratere

    Ed aurati bicchier. Giunto al cospetto

    Del re vegliardo sì l’invita e dice:

    Sorgi, figliuol laomedonteo; nel campo

    Ti chiamano de’ Teucri e degli Achei

    Gli ottimati a giurar l’ostie percosse

    D’un accordo. Alessandro e Menelao

    Disputeransi colle lunghe lancie

    L’acquisto della sposa; e questa e tutte

    Sue dovizie daransi al vincitore. (…)

    LIBRO VI

    (…) Ohimè! per certo i detestati Achei

    Son già sotto alle mura, e te qui spinge

    Religïoso zelo ad innalzare

    Là su la rocca le pie mani a Giove.

    Ma deh! rimanti alquanto, ond’io d’un dolce

    Vino la spuma da libar ti rechi

    Primamente al gran Giove e agli altri Eterni,

    Indi a rifar le tue, se ne berai,

    Esauste forze. Di guerrier già stanco

    Rinfranca Bacco il core, e te pugnante

    Per la tua patria la fatica oppresse.

    No, non recarmi, veneranda madre,

    Dolce vino verun, rispose Ettorre,

    Ch’egli scemar potría mie forze, e in petto

    Addormentarmi la natía virtude.

    Aggiungi che libar non oso a Giove

    Pria che di divo fiume onda mi lavi;

    Nè certo lice colle man di polve

    Lorde e di sangue offerir voti al sommo

    De’ nembi adunator. Ma tu di Palla

    Predatrice t’invía deh! tosto al tempio,

    E récavi i profumi accompagnata

    Dalle auguste matrone, e qual nell’arca

    Peplo ti serbi più leggiadro e caro,

    Prendilo, e umíle della Diva il poni

    Su le sacre ginocchia, e sei le vóta

    Giovenche e sei di collo ancor non tocco

    Se la cittade e le consorti e i figli

    Commiserando, dall’iliache mura

    Allontana il feroce Dïomede,

    Artefice di fuga e di spavento.

    Corri dunque a placarla. Io ratto intanto

    A Paride ne vado, onde svegliarlo

    Dal suo letargo, se darammi orecchio.

    Oh gli s’aprisse il suolo, ed ingoiasse

    Questa del mio buon padre e di noi tutti

    Invïata da Giove alta sciagura.

    Nè penso che dal cor mi fia mai tolta

    Di sì spiacenti guai la rimembranza,

    Se pria non veggo costui spinto a Pluto.(…)

    LIBRO XI

    (…) Apparecchiava intanto una bevanda

    La ricciuta Ecaméde. Era costei

    Del magnanimo Arsínoo una figliuola

    Che il buon vecchio da Tenedo condotta

    Avea quel dì che la distrusse Achille,

    E a lui, perchè vincea gli altri di senno,

    Fra cento eletta la donâr gli Achivi.

    Trass’ella innanzi a lor prima un bel desco

    Su piè sorretto d’un color che imbruna,

    Sovra il desco un taglier pose di rame,

    E fresco miel sovresso, e la cipolla

    Del largo bere irritatrice, e il fiore

    Di sacra polve cereal. V’aggiunse

    Un bellissimo nappo, che recato

    Aveasi il veglio dal paterno tetto,

    D’aurei chiovi trapunto, a doppio fondo,

    Con quattro orecchie, e intorno a ciascheduna

    Due beventi colombe, auree pur esse.

    Altri a stento l’avría colmo rimosso;

    L’alzava il veglio agevolmente. In questo

    La simile alle Dee presta donzella

    Pramnio vino versava; indi tritando

    Su le spume caprin latte rappreso,

    E spargendovi sovra un leggier nembo

    Di candida farina, una bevanda

    Uscir ne fece di cotal mistura,

    Che apprestata e libata, ai due guerrieri

    La sete estinse e rinfrancò le forze. (…)

    LIBRO XIV

    De’ combattenti udì l’alto fracasso

    Nestore in quella che una colma tazza

    Accostava alle labbra; e d’Esculapio

    Rivolto al figlio: Oh, che mai fia, diss’egli,

    Divino Macaon? Presso alle navi

    Dell’usato maggiori odo le grida

    De’ giovani guerrieri. Alla vedetta

    Vado a saperne la cagion. Tu siedi

    Intanto, e bevi il rubicondo vino,

    Mentre i caldi lavacri t’apparecchia

    La mia bionda Ecaméde, onde del sangue,

    Di che vai sozzo, dilavar la gruma. (…)

    LIBRO XVI

    (…) Con altra cura intanto alla sua tenda

    Avvïossi il Pelíde, ed un forziere

    Aprì di vago lavorío, cui Teti

    Gli avea riposto nella nave e colmo

    Di tuniche e di clamidi del vento

    Riparatrici, e di vellosi strati.

    Quivi una tazza in serbo egli tenea

    Di pregiato artificio, a cui null’altro

    Labbro mai non attinse il rubicondo

    Umor del tralcio, e fuor che a Giove, ei stesso

    Non libava con questa ad altro iddio.

    Fuor la trasse dell’arca, e con lo zolfo

    La purgò primamente: indi alla schietta

    Corrente la lavò. Lavossi ei pure

    Le mani, e il vino rosseggiante attinse. (…)

    LIBRO XXIII

    (…) Di seder non è tempo: alle correnti

    Dell’Oceáno ritornar mi deggio

    Nell’etíope terreno ove s’appresta

    Agl’Immortali un’ecatombe, e bramo

    Ne’ sacrifici aver mia parte io pure.

    Ma il Pelíde te, Borea, e te, sonoro

    Zefiro, prega di soffiar nel rogo

    Su cui giace di Pátroclo la spoglia

    Dagli Achei tutti deplorata, e molte

    Vittime ei v’offre, se avvampar lo fate.

    Così detto, disparve; e quei levârsi

    Con immenso stridor, densate innanzi

    A sè le nubi. Si sfrenâr soffiando

    Sulla marina, sollevaro i flutti,

    E di Troia arrivati alla pianura,

    Riunâr su la pira; e strepitoso

    Immane incendio si destò. Dai forti

    Soffii agitata divampò sublime

    Tutta notte la fiamma, e tutta notte

    Il Pelíde da vasto aureo cratere

    Il vino attinse con ritonda coppa,

    E spargendolo al suol devotamente,

    N’irrigava la terra, e l’infelice

    Ombra invocava dell’estinto amico.

    Come un padre talor piange bruciando

    L’ossa d’un figlio che morì già sposo,

    E morendo lasciò gli sventurati

    Suoi genitori di cordoglio oppressi;

    Così dando alle fiamme il suo compagno,

    Geme il Pelíde, e crebri alti sospiri

    Traendo, intorno al rogo si strascina.

    Come poi nunzio della luce al mondo

    Lucifero brillò, dopo cui stende

    Sul pelago l’Aurora il croceo velo,

    Morì la vampa sul consunto rogo,

    E per lo tracio mar, che rabbuffato

    Muggía, tornaro alle lor case i venti.

    Stanco allora il Pelíde, e dalla pira

    Scostatosi, sdraiossi, e dolce il sonno

    L’occupò. Ma il tumulto e il calpestío

    De’ capitani, che all’Atride in folla

    Si raccogliean, destollo; ei surse, e assiso

    Così loro parlò: Supremo Atride,

    E voi primati degli Achei, spegnete

    Voi tutti or meco con purpureo vino

    Di tutto il rogo in pria le brage, e poscia

    Raccogliam di Patróclo attentamente

    Le sacrate ossa; e scernerle fia lieve,

    Imperocchè nel mezzo ei si giacea

    Della catasta, e gli altri all’orlo estremo

    Separati, fur arsi alla rinfusa

    E uomini e cavalli. Indi d’opimo

    Doppio zirbo ravvolte, in urna d’oro

    Le riporremo, finchè vegna il giorno

    Ch’io pur di Pluto alla magion discenda.

    Non vo’ gli s’erga una superba tomba,

    Ma modesta. Potrete ampia e sublime

    Voi poscia alzarla, o duci achei, che vivi

    Dopo me rimarrete a questa riva.

    Del Pelíde al comando obbedïenti

    Con larghi sprazzi di vermiglio bacco

    Di tutto il rogo ei spensero alla prima

    Le vive brage, e giù cadde profonda

    La cenere. Adunâr quindi piangendo

    Del mansueto eroe le candid’ossa;

    Le composer nell’urna avvolte in doppio

    Adipe, e dentro il padiglion deposte,

    Di sottil lino le coprîr. Ciò fatto,

    Disegnâr presti in tondo il monumento,

    Ne gittaro dintorno all’arsa pira

    I fondamenti, v’ammassâr di sopra

    Lo scavato terreno, e a fin condotta

    La tomba, si partían. Ma li rattenne

    Il Pelíde, e lì fatto in ampio agone

    Il popolo seder, de’ ludi i premii

    Fe’ dai legni recar; tripodi e vasi

    E destrieri e giumenti e generosi

    Tauri e captive di gentil cintiglio

    E forbite armature. E primamente

    Alla corsa de’ cocchi il premio pose:

    Una leggiadra in bei lavori esperta

    Donzella a chi primier tocca la meta,

    Con un tripode a doppia ansa, e capace

    Di ventidue misure. Una giumenta

    Che al sest’anno già venne, ancor non doma,

    E il sen già grave di bastarda prole

    Al secondo. Un lebéte intatto e bello

    E di quattro misure al terzo auriga;

    Al quarto un doppio aureo talento, e al quinto

    Una coppa dal foco ancor non tocca. (…)

    DA ODISSEA DI OMERO (IX Sec. a.C.)

    (traduz. Ippolito Pindemonte – 1822)

    LIBRO II

    (…) Telemaco frattanto in quella scese

    Di largo giro, e di sublime volta

    Paterna sala, ove rai biondi, e rossi

    L’oro mandava, e l’ammassato rame;

    Ove nitide vesti, e di fragrante

    Olio gran copia chiudean l’arche in grembo;

    E presso al muro ivano intorno molte

    Di vino antico, saporoso, degno

    Di presentarsi a un Dio, gravide botti,

    Che del ramingo travagliato Ulisse

    Il ritorno aspettavano. Munite

    D’opportuni serrami eranvi, e doppie

    Con lungo studio accomodate imposte;

    Ed Euricléa, la vigilante figlia

    D’Opi di Pisenorre, il dì e la notte

    Questi tesori custodia col senno.

    Chiamolla nella sala, e a lei tai voci

    Telemaco drizzò: Nutrice, vino,

    Su via, m’attigni delicato, e solo

    Minor di quel, che a un infelice serbi,

    Se mai, scampato dal destin di morte,

    Comparisse tra noi. Dodici n’empi

    Anfore, e tutte le suggella. Venti

    Di macinato gran giuste misure

    Versami ancor ne’ fedeli otri, e il tutto

    Colloca in un: ma sappilo tu sola.

    Come la notte alle superne stanze

    La madre inviti, e al solitario letto,

    Per tai cose io verrò: chè l’arenosa

    Pilo visitar voglio, e la ferace

    Sparta, e ad entrambe domandar del padre. (…)

    LIBRO VI

    (…) La madre collocava in gran paniere,

    E nel capace sen d’otre caprigno

    Vino infondea soave: indi alla figlia,

    Ch’era sul cocchio, perchè dopo il bagno

    Sè con le ancelle, che seguianla, ungesse,

    Porse in ampolla d’òr liquida oliva.

    Nausíca in man le rilucenti briglie

    Prese, prese la sferza, e diè di questa

    Sovra il tergo ai quadrupedi robusti,

    Che si moveano strepitando, e i passi

    Senza posa allungavano, portando

    Le vesti, e la fanciulla, e non lei sola,

    Quando ai fianchi di lei sedean le ancelle. (…)

    LIBRO IX

    (…) Sorta l’Aurora, e tinto in roseo il cielo,

    Il foco ei raccendea, mugnea le grasse

    Pecore belle, acconciamente il tutto,

    E i parti a questa mettea sotto, e a quella.

    Nè appena fu delle sue cure uscito,

    Che altri due mi ghermì de’ cari amici,

    E carne umana desinò. Satollo,

    Cacciava il gregge fuor dell’antro, tolto

    Senza fatica il disonesto sasso,

    Che dell’antro alla bocca indi ripose,

    Qual chi a faretra il suo coverchio assesta.

    Poi su pel monte si mandava il pingue

    Gregge davanti, alto per via fischiando.

    Ed io tutti a raccolta i miei pensieri

    Chiamai, per iscoprir, come di lui

    Vendicarmi io potessi, e un’immortale

    Gloria comprarmi col favor di Palla.

    Ciò al fin mi parve il meglio. Un verde, enorme

    Tronco d’oliva, che il Ciclope svelse

    Di terra, onde fermar con quello i passi,

    Entro la stalla a inaridir giacea.

    Albero scorger credevam di nave

    Larga, mercanteggiante, e l’onde brune

    Con venti remi a valicare usata:

    Sì lungo era, e sì grosso. Io ne recisi

    Quanto è sei piedi, e la recisa parte

    Diedi ai compagni da polirla. Come

    Polita fu, da un lato io l’affilai,

    L’abbrustolai nel foco, e sotto il fimo,

    Ch’ivi in gran copia s’accogliea, l’ascosi.

    Quindi a sorte tirar coloro io feci,

    Che alzar meco dovessero, e al Ciclope

    L’adusto palo conficcar nell’occhio,

    Tosto che i sensi gli togliesse il sonno.

    Fortuna i quattro, ch’io bramava, appunto

    Donommi, e il quinto io fui. Cadea la sera,

    E dai campi tornava il fier pastore,

    Che la sua greggia di lucenti lane

    Tutta introdusse nel capace speco:

    O di noi sospettasse, o

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