Tavole d’autore
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Roberto Carretta, laureato in Filosofia dell’arte, è nato l'8 dicembre 1963 a Torino, dove vive e lavora.Ha pubblicato Lo scenario conquistato - Gli scacchi e l'origine del loro simbolismo, La cucina delle fiabe, In taverna con Shakespeare. lo studio I labirinti del tempo-Storia di un'imperfetta armonia, sulle raffigurazioni del tempo tra mito e scienza moderna. Ha tradotto e curato La condizione umana, unica edizione italiana del ciclo di conferenze tenuto nel 1959 dallo scrittore e saggista Aldous Huxley, la biografia Nietzsche in Italia di Guy de Pourtalès e, con Renato Viola, Il Mesmerismo e la fine dell'Illuminismo in Francia dello storico americano Robert Darnton. E' membro del Comitato scientifico dei musei. Collabora con quotidiani, testate artistiche e letterarie. E' direttore editoriale della collana "Leggere è un gusto".
Per "Leggere è un gusto" ha pubblicato In taverna con Shakespeare. Amori, vendette e inganni a banchetto e La cucina delle fiabe. Fate, streghe ed elfi ai fornelli.
Renato Viola, laureato in Politologia, esperto di relazioni internazionali, vive e lavora a Torino. Ha tradotto e curato testi e articoli di politica sociale ed economica tra i quali il volume Capitalismo cognitivo. Coautore, con Mimmo Calopresti, di video e sceneggiature, è stato redattore della rivista musicale jazz “Blue Note”. Collabora con quotidiani e testate cinematografiche e di politica internazionale.
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Anteprima del libro
Tavole d’autore - Roberto Carretta - Renato Viola
- I CIBI -
Un invitato inatteso all’Ultima Cena
Nella storia dell’arte, tra le infinite ricorrenze simboliche del cibo e dei suoi riti, uno dei soggetti più famosi e universalmente riconosciuti è senz’altro quello dell’Ultima Cena.
Le parole con le quali il Cristo benedice il pane ed il vino sono l’origine del rito eucaristico, elemento centrale già nell’arte paleocristiana e nei mosaici bizantini del VI secolo. A Ravenna, nel ciclo di mosaici che adornano Sant’Apollinare Nuovo, Cristo e gli apostoli sono ancora raffigurati mentre mangiano adagiati su triclini, secondo l’uso romano, disposti a semicerchio attorno alla tavola. Il motivo, alternato a quello del tradimento, attraversa i secoli e le culture. Non esiste però il solo canone principale, come ogni elemento della tradizione il tema iconografico subisce infinite interpretazioni e letture a seconda del contesto.
Al di là del capolavoro di Leonardo nel Refettorio milanese di Santa Maria delle Grazie, incontriamo perciò innumerevoli esempi e… qualche curiosità.
Cosa compare sulle tavole imbandite dell’Ultima Cena? Pane, vino, pesce, agnello, tutti simboli immediatamente collegati alla Pasqua ebraica e alla tradizione cristiana. Ma non solo. Spesso, sono ritratti anche cibi poveri, popolari, parte della fertile tradizione figurativa che decora pievi e cappelle disseminate a colonizzare ed esprimere usi e credenze delle genti contadine. Uno di questi alimenti, in particolare, colpisce l’immaginario moderno per la sua apparente estraneità. Lo ritroviamo, in un periodo di intensa elaborazione simbolica come quello compreso tra il XIV e il XVI secolo, lungo un’area estesa del nostro paese, che dalle Alpi orientali raggiunge le rive dell’Adriatico.
A Feltre, un affresco nella chiesa dei Santi Vittorio e Corona, pone, sulla porzione di tovaglia di fronte al Cristo, quattro animali rosso fuoco che rivolgono, minacciosi, le chele verso di lui. Il corpo, affusolato, ha ai lati quattro zampe e il capo è ornato da lunghe antenne. Non fosse per il colore, si potrebbe pensare allo scorpione, simbolo del tradimento, spesso raffigurato sui vessilli innalzati dai giudei in molte immagini dell’epoca - un esempio fra tanti si ha nella vivida Salita al Calvario di Giacomo Jaquerio, presso l’Abbazia di Sant’Antonio di Ranverso, alle porte di Torino. Incontriamo lo stesso soggetto in un affresco attribuito a Dario di Pordenone (1420-1498) nella chiesa di San Giorgio a Treviso, in diverse pievi delle province di Novara e Belluno, e in una Cena in casa di Simone nella chiesa di Santa Maria in Solario a Brescia. In tutto si contano almeno centocinquanta rappresentazioni.
L’animale misterioso è, in realtà, il gambero di fiume (astacus fluvialis), crostaceo ormai scomparso dai corsi d’acqua del Nord Italia (da poco reintrodotto a scopi alimentari in un Comune della provincia di Torino), un tempo abbondante e importante integratore nelle diete delle comunità di pianura e di bassa montagna. Di colore grigio, abitante dei fondi e delle gore fangose, con la cottura diviene d’un rosso intenso e perciò venne eletto simbolo del sacrificio, della passione e della Resurrezione del Cristo. Il carapace dei crostacei, inoltre, si rinnova a ogni cambio di stagione. Già Plinio, nel libro IX della Storia naturale, tratta di quella «classe di animali che è priva di sangue (e) munita di una crosta fragile» i quali «al principio della primavera, alla maniera dei serpenti, si spogliano della vecchia crosta rinnovando i loro gusci». A partire dal XII secolo queste caratteristiche ne fecero un emblema del passaggio dalla morte alla rinascita, dalla miseria della vita terrena allo splendore trascendente.
Anche altre particolarità del gambero colpirono la rigogliosa fantasia medievale. Innanzitutto il suo procedere all’indietro, indice di chi recede dalla retta via per abbracciare - ad esempio - le teorie propugnate da alcune sette eretiche che negavano la «transustanziazione», la reale presenza del corpo e del sangue di Gesù nel pane e nel vino eucaristici. Alcuni vollero invece attribuire la sua presenza sulla mensa degli apostoli al desiderio di ribadire la distanza del popolo ebraico, che non riconosce la venuta del Messia: i crostacei sono, per le regole alimentari kasher, cibo impuro, come indicato nel Levitico e nel Deuteronomio, simbolo dell’Antico patto. Ultima attribuzione possibile, nel vasto catalogo della significanza simbolica, ancora la somiglianza del gambero allo scorpione - e tale pare a volte trasformarsi proprio in prossimità della figura di Giuda Iscariota. Oltre a diffamare gli ebrei, il crostaceo ricorda il segno zodiacale del cancro che presiede al cielo estivo, momento in cui il sole sembra fermarsi e invertire il proprio corso, dalla luce al buio, dalla vita alla morte: come il Cristo all’apice della sua parabola terrena.
Che proceda a ritroso o di lato, cosa che ne ha anche fatto l’emblema dell’instabilità e dell’incostanza, il cammino dei crostacei nella storia della pittura non si ferma certo a questi più antichi e classici esempi. In piena età barocca, non deve ingannare la loro presenza in raffinate nature morte, contornati da preziose stoviglie o altre prelibatezze. In quella di Jan Davidsz de Heem (1634, Staatsgalerie, Stoccarda), una lettura non puramente gastronomico-estetizzante, rivelerà nell’astice un simbolo di Resurrezione e, nel frutto e nell’uva che lo accompagnano, quelli del Peccato originale e della Passione. Grande cultore del linguaggio simbolico, sempre il Seicento propone, nella Natura morta con astice e ganchio di Pieter Claesz (1643, Institute of Arts, Minneapolis) il memento dell’orologio che, da un lato della tela, invita a ricordare la fugacità di ogni piacere, quindi a una lettura simbolica dell’intera composizione.
Code fritte di gamberi in salsa rosa
Ingredienti (per 4 persone): 16 code di gamberi, 2 albumi, un pezzetto di zenzero fresco, 2 bicchieri di vino bianco, olio, aglio, farina, sale. Per la salsa: concentrato di pomodoro, panna, ½ limone, sale, pepe.
Preparazione: diluite il concentrato di pomodoro con tre cucchiai di panna, il succo di mezzo limone filtrato, un po’ di sale e pepe e la salsa è pronta.
Versate il vino in una terrina, aggiungete un cucchiaio di zenzero gattugiato, uno spicchio d’aglio, salate e lasciate marinare le code di gamberi per circa un’ora. Sbattete gli albumi, immergete i gamberi sgocciolati, passateli nella farina e friggeteli in olio bollente. Asciugateli su carta da cucina, salate e servite caldi, con salsa a parte.
L’uovo dischiude il tempo della rinascita
Dioniso, dio dell’estasi, della fertilità e del vino, riceve da una fanciulla un dolce, una torta circondata da uova colorate, che sembra una corona o la cima turrita di un castello. La ragazza, una baccante, gli porge anche, con la mano sinistra, un uovo¹. È una scena consueta sui vasi greci raffiguranti feste nuziali, sacrificali o riti funerari. Alle divinità, alle spose o ai morti sono sempre offerte uova, sorta di lasciapassare per una vita futura, sia essa quella coniugale o dell’aldilà.
Nella necropoli etrusca di Tarquinia², un uomo banchetta sul triclinio, nella mano sinistra ha un calice di vino, sostanza inebriante che avvicina alla dimensione ultraterrena del divino, nell’altra un uovo che allude alla certezza della rinascita.
L’uovo è infatti simbolo del seme primordiale dal quale nasce il mondo, grembo della vita e custodia dell’anima. Segno di totalità, perfetta unità, promessa di ritorno e salvazione. Col cristianesimo diviene, quale contenitore della vita
, promessa di resurrezione e insegna del Cristo. Venditrici di uova compaiono a margine della Presentazione della Vergine al Tempio di Tiziano (1534-38, Galleria dell’Accademia, Venezia) e ne L’adorazione dei pastori di Francisco de Zurbarán (1638, Museé des Beaux-Arts, Grenoble).
La sua pregnanza simbolica è centrale in tutte le epoche.
Nel Trittico delle delizie (1503-4, Prado, Madrid), Hieronymus Bosch lo pone sulle sponde di una distesa d’acqua ad accogliere un’umanità nuda, emergente dai flutti, che in esso trova rifugio. Un caso particolare, talvolta accostato proprio allo stile dell’autore fiammingo, riguarda il ’600 italiano e un suo autore bizzarro quanto misterioso identificato come Maestro della fertilità dell’uovo
, dal nome di una tela conservata presso il Milwaukee Art Museum. Tanto il suo stile è inconfondibile - assenza di prospettiva, fondi scuri popolati dal profilo di creature appartenenti a zoologie fantastiche - tanto è parso impossibile fare la seppur minima chiarezza sulla sua persona. La tela cui deve il nome rappresenta una serie di eventi, grotteschi e privi di continuità narrativa, legati allo schiudersi di numerose uova sparse per l’intera scena. Da esse nascono esseri ibridi, improbabili (crostacei, uccelli con arti umani) dialoganti con nani, rane, gatti. Il significato delle sue immagini resta oscuro, nonostante l’artista affidi talvolta a piccole bandiere o cartellini stralci di proverbi e indovinelli pseudo-filosofici. Al centro del quadro, di questa fertilità disordinata un po’ fiabesca e naïf, uno gnomo siede in cima ad un grande cesto di uova. Questo particolare, e la comunanza di alcuni temi, hanno fatto sì che il Maestro
venisse i certi casi identificato come lo pseudo-Bocchi
, dal nome del pittore bresciano Faustino Bocchi (1659-1741), autore di bambocciate, bizzarrie e sommo interprete dell’arte di figurar pigmei
. Dopo un breve apprendistato presso autori di provenienza o influenza fiamminga, infatti, Bocchi - con la sua bottega familiare
- produsse celebri e surreali tele dedicate alle gesta dei nani. Soggetto fantastico, satirico e moraleggiante il cui fascino il Ripa faceva risalire direttamente all’antichità, tramite Plinio, che molta fortuna ebbe nelle arti visive tra il XVII e il XVIII secolo.