Storie di cioccolato: Antologia di grandi autori della letteratura italiana
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Girolamo Benzoni, uno dei primi viaggiatori europei che seguirono in America le tracce di Colombo non restò certo estasiato dal gusto del cacao. Ne restò piuttosto schifato, probabilmente per via dell’usanza locale di mischiarlo a pepe e peperoncino e disse che “somiglia più a una bevanda per i porci che a una bevanda per esseri umani”. Benzoni (Historia del Mondo Nuovo) è il primo a descrivere come gli indigeni preparassero la bevanda “facendo essiccare i semi sul fuoco in una ciotola di terra; rompendoli tra due pietre e riducendoli in polvere che veniva versata in bicchieri; poi venivano aggiunti acqua e pepe”: non esattamente adatto al palato degli europei che simili spezie le preferivano (e decisamente abbondanti) nella carne. Il cacao fu subito oggetto di dispute pro o contro.
In questa antologia, una gustosa raccolta di testi, ricette e poesie a tema "cioccolato"...
Duilio Chiarle
Duilio Chiarle, writer and guitarist of "The Wimshurst's Machine".Duilio Chiarle, scrittore e chitarrista dei "The Wimshurst's Machine".Ha ricevuto il premio "Cesare Pavese" nel 1999. Gli sono stati attribuiti i premi internazionali "Jean Monnet" (patrocinato dalla Presidenza della Repubblica Italiana, dall’Università di Genova e dalle Ambasciate di Francia e Germania) e "Carrara - Hallstahammar" (quest'ultimo per due volte consecutive).Con il gruppo musicale "The Wimshurst's Machine" ha ricevuto tre nomination hollywoodiane consecutive: sono suoi i racconti dei "concept" musicali.Ha ricevuto l'onorificenza di "Ufficiale" dell'Ordine al Merito della Repubblica Italiana.
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Anteprima del libro
Storie di cioccolato - Duilio Chiarle
Storie di cioccolato - Antologia di grandi autori della letteratura italiana
Duilio Chiarle
Prima edizione 2015
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STORIA DEL CIOCCOLATO
Girolamo Benzoni, uno dei primi viaggiatori europei che seguirono in America le tracce di Colombo non restò certo estasiato dal gusto del cacao. Ne restò piuttosto schifato, probabilmente per via dell’usanza locale di mischiarlo a pepe e peperoncino e disse che somiglia più a una bevanda per i porci che a una bevanda per esseri umani
. Benzoni (Historia del Mondo Nuovo) è il primo a descrivere come gli indigeni preparassero la bevanda facendo essiccare i semi sul fuoco in una ciotola di terra; rompendoli tra due pietre e riducendoli in polvere che veniva versata in bicchieri; poi venivano aggiunti acqua e pepe
: non esattamente adatto al palato degli europei che simili spezie le preferivano (e decisamente abbondanti) nella carne. Il cacao fu subito oggetto di dispute pro o contro. Lo stesso Cristoforo Colombo, d’altro canto non afferrò subito il valore di quelle fave che gli indigeni dell’isola di Guanaja gli avevano donato: alcune gli caddero in acqua e subito gli indigeni si tuffarono per recuperarle. Ciò comunque gli fece capire che essi le ritenevano preziosissime. Scoprì presto che non solo venivano utilizzate per la bevanda, ma che per gli indigeni era una moneta di scambio anzi la moneta di scambio per antonomasia.
Hérnan Cortés, il conquistatore del Messico, fu il primo a rendersi davvero conto di quanto fossero preziose le fave. In una lettera al re di Spagna, descrive così il frutto: Una tazza di questa preziosa bevanda mette un uomo in condizione di sopportare un’intera giornata di marcia, senza prendere altri cibi
. Le fave di cacao giunsero presto in Europa e mischiando il cacao con latte e zucchero e con molte altre cose, ne venne fuori il cioccolato che tutti conosciamo. Divenne subito merce richiestissima e ne vennero fatte piantagioni imponenti.
Date le scarse fonti precolombiane originali sopravvissute, non sapremo mai tutto su questa meravigliosa pianta che gli scienziati hanno battezzato "Theobroma cacao, e tenete presente che
Theobroma in greco significa
cibo degli dei". Gli archeologi ritengono di aver scoperto in un villaggio dell’Honduras (in una valle del fiume Ulùa) le tracce del più antico utilizzo del Xocoatl.
La semina delle fave di cacao e la raccolta delle cabossidi furono indissolubilmente legate ai riti religiosi della società Maya. I Maya offrivano frutti, piume e animali al dio della fertilità (Hobnil), al dio della pioggia (Chac) e al dio del cacao (Ek Chuah) per ingraziarseli ed ottenere, in cambio, un buon raccolto. L’utilizzo come moneta è stato ben documentato attraverso i secoli. Ovviamente gli spagnoli non comprendevano la lingua locale e credevano che cacau
(che ha il significato di mezzo di scambio) fosse il nome della pianta.
In Europa, un curioso utilizzo del cioccolato fu medicinale. Di questo uso troviamo tracce nel 1631 nel lavoro del medico spagnolo medico spagnolo Antonio Colmenero de Ledesma. La cosa è testimoniata anche da Bonaventura d’Aragona, fratello del Cardinal Richelieu, che nel 1653 descrisse l'utilizzo del cioccolato come stimolante per il buon funzionamento della milza e delle funzioni digestive. Nel XVII e nel XVIII secolo, il cioccolato veniva quindi regolarmente prescritto o mescolato ai farmaci per ogni tipo di malattia o disturbo: l’olandese Bontecoe lo considerava estremamente efficace contro il raffreddore e la tosse e il francese Lémery riteneva che stimolasse anche la digestione, la fertilità e la resistenza dell'organismo all'influenza. Il cioccolato venne infine considerato un potente farmaco per il cervello, in grado di potenziare il rendimento mentale delle persone e anche di combattere la depressione. Tale credenza era confermata da numerosi medici in tutta Europa: Bontecoe, Brillat-Savarin, Lémery ecc. e per una volta i medici dei secoli passati ne carpirono uno dei segreti: il cioccolato stimola la produzione di endorfine.
L’uso dolciario lo dobbiamo ai monaci. Furono infatti i monaci spagnoli i primi ad introdurre il cioccolato dolce in Spagna, verso il 1590. L’effetto dolcificante era ottenuto grazie all’aggiunta di miele e vaniglia. In Italia ne esplose ben presto la mania e fu Torino a divenire la capitale italiana del cioccolato grazie al duca Emanuele Filiberto di Savoia. Ciò porterà nei secoli successivi all’invenzione del cioccolato gianduja
: nel 1865, il cioccolato venne mescolato per la prima volta con la pasta di nocciole. La ricetta torinese del gianduia ebbe una grande diffusione e portò alla creazione di un prodotto che riscosse un enorme successo: i gianduiotti, cioccolatini prelibatissimi che sono una delle caratteristiche di Torino e del Piemonte in genere. L’altra caratteristica di Torino è il bicerin
, la bevanda al cioccolato della tradizione piemontese che vanta tra i suoi estimatori Camillo Benso Conte di Cavour, Pablo Picasso, Alexandre Dumas padre, Ernest Hemingway (il quale lo inserì tra le cento cose del mondo che avrebbe salvato) e Umberto Eco. E poi il liquore al cioccolato, il mocaccino, il marocchino, il cappuccino al cioccolato...
Che dire di più sul cioccolato? Che mancava un’opera che radunasse brani della letteratura italiana a tema "cioccolato e
cacao". Così ho rimediato alla lacuna.
Nei brani riportati in questa antologia (tutti in voluto e rigoroso disordine!) troverete ricette dell’Artusi, testimonianze storiche, racconti, guide turistiche e poesie. Tutto per una golosa opera letteraria...
Duilio Chiarle
DA LA SCIENZA IN CUCINA E L’ARTE DI MANGIAR BENE
DI PELLEGRINO ARTUSI (1891)
BISCOTTO DI CIOCCOLATA
-Uova, n. 6.
-Zucchero in polvere, grammi 200.
-Farina di grano, grammi 150.
-Cioccolata alla vainiglia, grammi 50.
Grattate la cioccolata e mettetela in una catinella con lo zucchero e i rossi d’uovo e dimenateli con un mestolo; poi aggiungete la farina e lavorate il composto per più di mezz’ora; per ultimo le chiare montate mescolando adagio. Cuocetelo come l’antecedente.
("ndr: l’ANTECEDENTE sarebbe questo Cuocetelo al forno o al forno da campagna in una teglia ove venga alto tre dita circa, ma prima ungetela col burro diaccio e spolverizzatela di zucchero a velo misto a farina. In questi dolci con le chiare montate si può anche tenere il seguente metodo, e cioè: dimenar prima i rossi d’uovo con lo zucchero, poi gettarvi la farina e dopo una buona lavorazione montar sode le chiare, versarne due cucchiaiate per rammorbidire il composto, indi le rimanenti, per incorporarvele adagio adagio.
)
DA POESIE SPARSE
DI GUIDO GOZZANO (XX SECOLO)
LE GOLOSE
Io sono innamorato di tutte le signore
che mangiano le paste nelle confetterie.
Signore e signorine –
le dita senza guanto –
scelgon la pasta. Quanto
ritornano bambine!
Perché nïun le veda,
volgon le spalle, in fretta,
sollevan la veletta,
divorano la preda.
C’è quella che s’informa
pensosa della scelta;
quella che toglie svelta,
né cura tinta e forma.
L’una, pur mentre inghiotte,
già pensa al dopo, al poi;
e domina i vassoi
con le pupille ghiotte.
un’altra - il dolce crebbe –
muove le disperate
bianchissime al giulebbe
dita confetturate!
Un’altra, con bell’arte,
sugge la punta estrema:
invano! ché la crema
esce dall’altra parte!
L’una, senz’abbadare
a giovine che adocchi,
divora in pace. Gli occhi
altra solleva, e pare
sugga, in supremo annunzio,
non crema e cioccolatte,
ma superliquefatte
parole del D’Annunzio.
Fra questi aromi acuti,
strani, commisti troppo
di cedro, di sciroppo,
di creme, di velluti,
di essenze parigine,
di mammole, di chiome:
oh! le signore come
ritornano bambine!
Perché non m’è concesso –
o legge inopportuna! –
il farmivi da presso,
baciarvi ad una ad una,
o belle bocche intatte
di giovani signore,
baciarvi nel sapore
di crema e cioccolatte?
Io sono innamorato di tutte le signore
che mangiano le paste nelle confetterie.
DA POESIE SPARSE
DI GUIDO GOZZANO (XX SECOLO)
DOLCI RIME
a Luisa Giusti, amica minuscola,
con un cartoccio di cioccolato
Sola bellezza al mondo
che l’anima non sazia,
fiore infantile, biondo
miracolo di grazia;
grazia di capinera
che canta e tutto ignora,
grazia che attende ancora
la terza primavera!
Tu credi ch’io commerci
(poi che poeto un poco)
in chi sa quali merci
buone alla gola o al gioco!
- Dammi una poesia! –
Così, come un confetto,
mi chiedi... E t’hanno detto
che sia?... Non sai che sia!
Che sia, come va fatto
il dono che vorresti,
ti spiegherò con questi
dischi di cioccolatto.
Due volte quattro metti
undici dischi in fila
(già dolce si profila
sonetto dei sonetti).
Due volte tre componi
undici dischi alfine
(compiute in versi buoni
quartine ecco e terzine).
Color vari di rime
(tu ridi e n’hai ben onde)
poni: terze e seconde
concordi, ultime e prime.
Molto noioso? O quanto
noioso più se fatto
di sillabe soltanto
e non di cioccolatto!
Di qui potrai vedere
la mia tristezza immensa:
piccola amica, pensa
che questo è il mio mestiere!
DA I SUICIDI DI PARIGI
DI FERDINANDO PETRUCCELLI DELLA GATTINA (1876)
LA VIA DEL CIELO... DOPO UNA SOSTA
Il duca di Balbek aveva sulla morale dalle idee incerte, un carattere avvizzito, uno spirito sconcio dall’educazione dei gesuiti: più dispetto che angoscia; più gelosia d’amor proprio che di amore. Non poteva, per conseguenza, sentir fortemente.
L’abbiam visto infatti stemperarsi in un dolore multiforme, melodrammatico, senza coscienza di sè stesso. In quella situazione di spirito, egli era capace di tutto: cadere ai piedi di sua moglie, arrovesciarla nelle braccia dell’amante ed andarsi a distrarre altrove - così bene che di uccider l’una e fare assassinar l’altro. Zimbello degli uomini e degli eventi, il duca trattava gli eventi e gli uomini come delle fole. La sua posizione miserabile, che avrebbe dovuto inspirare una compassione simpatica, non ispirava dunque che disprezzo.
Egli divagava.
Tutt’altra però era la situazione morale di Vitaliana.
La sua educazione, al Sacré-Cœur, non era stata più sana e corroborante di quella di sua marito presso i RR. PP. Ma la giovine donna si rilevava per tre forze divine: la purezza dell’anima, la severità del costume, l’amore! Il suo carattere era più fermo perchè aveva per base un cuore. Le sue risoluzioni erano nette, perchè un abisso separava la condotta di suo marito dalla sua.
I decreti delle coscienze semplici sono irrevocabili: gli è il vaso poroso di Orazio che conserva sempre l’odore di cui una volta s’imbevve - quae semel imbuta recens servabit odorem testa diu!
Sposando quello straniero, cui non amava, Vitaliana gli aveva impartito quanto era in poter suo. Il cuore, no.
Il cuore non è in potere di chicchessia. È maggiore di già, nascendo, e dispone di sè stesso alla ventura.
Sì, alla ventura: un’allodola passa ed il cuore vola con lei!
Ora, l’allodola era passata, ed il cuore di Vitaliana se n’era ito, senza ch’ella se n’avvedesse.
Il dovere, pur nondimeno, la conservò pura.
Ma quando la catastrofe dell’onore di suo marito sopravvenne, ella si sorprese a chiedersi: Perchè mi asterrei io, ora che tutto è perduto?
Adriano l’aspettava.
Nel suo impeto subitaneo, Vitaliana non obliò ch’un dettaglio. Ella andava a macchiarsi delle medesime zacchere che la rendevano così severa all’incontro di suo marito: l’oltraggio all’onore, l’onta rovesciata sul nome di cui suo figlio doveva ereditare!
Ella spense forse ogni rimorso dicendosi: io l’amo! Ma chi sa se la non si disse altresì, più sommesso: sposerò un giorno Adriano! - ovvero: morrò per espiare!
Il fatto è che la si tuffò corpo ed anima in quell’amore.
L’ombra che l’offuscò nei primi giorni fu la sovvenenza di Morella.
Adriano ebbe a lottare lungamente, aspramente, prima che Vitaliana gli perdonasse - o che avesse ciera di perdonargli. Egli lottava ancora, al periodo a cui è giunta questa storia.
Adriano spiegava ogni mattino la sua scala di Giacobbe; poi, quando pensava vedere il suo angelo salire e discenderne, gli era il fantasma di Morella che in cima si accoccolava!
La riotta però agonizzava.
La resistenza si affiacchiva sotto il peso di un attacco che raddoppiava di vigore.
Vitaliana subiva il fascino e si accasciava.
D’altra banda, ciò che ella aveva intravisto ed infrasentito nel salone di Morella, le dava l’insonnia. Ella si sorprendeva perfino a vaneggiare, tutta soffusa di vergogna, questo concetto: Perchè mai non si attillerebbe l’amore delle medesime feste di cui il vizio si satolla?
Adriano passava con lei parte del giorno e tutta la sera.
Sempre pronto, sempre armato moralmente, egli era in sentinella per difenderla contro le intraprese di suo marito, cercando col moccolo un pretesto per servirsi delle armi - cui il mondo gli accordava - onde cavarsi quell’ostacolo dai piedi. Egli s’imbattè più di una fiata nel duca, recandosi dalla duchessa. E non gli volge che queste parole sinistre:
- Ricordatevene! otto giorni... quindici giorni, sono scorsi!... non ve ne restano più che tanti e tanti...
Il duca osservava e passava in silenzio.
Vitaliana, dal lato suo, l’evitava.
La notte, ella si sbarrava a chiave.
Suo marito le faceva orrore.
Il duca provò due volte l’assalto. Vitaliana l’umiliò con motti crudelmente implacabili, senza rovello, senza collera, di un accento freddo che stillava l’ironia ed il disprezzo.
Il duca si astenne per qualche giorno. Però, il dì che seguì la visita del dottore di Nubo, e’ gli sembrò che una spiega tra sua moglie e lui fosse divenuta inevitabile.
Alle dieci, si recò da lei, nella di lei piccola camera da letto.
Vitaliana veniva di alzarsi in quel punto.
Era avvolta ancora nel suo peignoir. I piedi allungati agli alari del caminetto, sfogliando qualche giornale, cioncando una tazza di cioccolatte - mentre Maria annodava alla presto le di lei magnifiche trecce arruffate dall’origliere.
Il duca accostò un puff al camino, e fece un segno di uscire a Maria, dicendo nel tempo stesso:
- Quando suonerò, fatemi portar qui una tazza di cioccolatte.
Egli contemplava sua moglie.
Non l’aveva giammai vista così bella!
L’amore, del resto, l’aveva sbocciata.
La scintilla della pupilla di lei era divenuta più audace. Le sue labbra, irrigate dalla rugiada dei baci, sembravano più sode e più rosse. La sua fronte s’innalzava più alta, più limpida. La pelle si era imbevuta di tutto lo splendore cui dà quel fiammeggiamento che addimandasi amore. Le sue narici rosse respiravano la voluttà. Sembrava ingrandita. La sua eleganza aveva un accento; le sue maniere una volontà. Tutto indicava che di quella bella cosa l’amore aveva di già fatto qualcuno!
Da tutta quella persona si sprigionava un fluido che inebbriava.
Il duca provava dei fremiti.
La moglie non era ella di già divenuta un’amante?
Il duca girò intorno lo sguardo per quella camera, come per dimandarle la prima parola della conversazione.
Ed infatti, ebbe come un tremito guardando il letto.
Vitaliana non fe’ sembiante di accorgersi di lui.
Il signor di Balbek sclamò infine, quasi suo malgrado, di una voce sorda e commossa:
- Grazia, Vitaliana, grazia!